Minaccia balistica e unità navali italiane: che fare?
di Lalo Schifrin
L’ultima volta che Analisi Difesa mi ha ospitato avevo sottolineato come l’establishment militare, in barba a spending review e/o tagli lineari alla spesa pubblica, continuasse a spendere allegramente i soldi del contribuente senza tenere conto né di un disegno legato ad interessi nazionali (di cui potremmo discutere a lungo e in un’altra occasione) né tantomeno di un disegno economico che veda l’esborso di ingenti quantità di denaro pubblico in favore, almeno, di aziende italiane. Voglio porre l’accento su questo aspetto della politica di difesa nazionale proprio perché leggendo l’articolo del direttore sui possibili sviluppi della futura struttura della nostra Marina Militare (e sottolineo nostra in quanto di proprietà degli italiani e non dei vertici militari) sono sobbalzato sulla sedia quando ho letto dell’ipotesi di equipaggiare i cosiddetti pattugliatori “full” di sistemi di combattimento incentrati sui radar SPY-1/F e, di conseguenza, con missili antibalistici Standard SM-3. Cercherò di illustrare il perché del mio stupore legato ad una simile scelta programmatica della Marina.
Iniziamo con una sommaria analisi della minaccia rappresenta dai missili balistici. Una minaccia che prende corpo nella Seconda guerra mondiale dove le tristemente famose V-1 e V-2 tedesche terrorizzarono Londra e le città limitrofe con attacchi continui e a cui si riusciva a porre una parvenza di difesa parziale e solo per le V-1. Tra il ’44 ed il ’45 furono circa 3.000 gli ordigni che colpirono il Regno Unito con effetti devastanti. Dal dopoguerra ad oggi, soprattutto durante il conflitto tra Iran e Iraq, sono stati lanciati altrettanti missili balistici con carichi bellici ed effetti molto differenti fra loro. Se oggi calcoliamo il numero dei missili balistici presenti negli arsenali delle forze armate di tutto il mondo possiamo assumere che oltre il 90% di questi è rappresentabile nella categoria degli SRBM ovvero dei missili balistici a corto raggio. Di questi circa la metà è costituita da ordigni di vecchia generazione e relativa scarsa precisione mentre la restante metà è rappresentata da sistemi con capacità manovriera e, in alcuni casi, da possibilità di lancio di testata/testate multiple separabili dal vettore.
Tanto per complicarci la vita c’è qualche ingegnere giocherellone che vive nei cosiddetti “rogue states” che ha già messo a punto sistemi SRBM in grado di ingaggiare anche bersagli navali con una certa precisione e kill probability elevata.
Ora è ragionevole pensare che un paese come l’Italia nel momento in cui pensi di allestire una qualche difesa ATBM debba rivolgere la propria attenzione verso una minaccia che principalmente preveda l’arrivo di una qualche salva di SRBM e non certo di ICBM (missili balistici intercontinentali), per due motivi principali: il primo è che per ingaggiare degli ICBM dovremmo avere un ruolo di politica estera e di difesa da superpotenza, quindi decisamente al di fuori della nostra portata e peso politico internazionale.
Il secondo è che, anche ipotizzando una volontà politica volta ad impermeabilizzare i nostri cieli, l’impegno economico e militare sarebbe sproporzionato e comunque insostenibile dal nostro Paese. Allestire infatti una difesa con capacità ICBM significherebbe avere una catena di satelliti di scoperta del lancio dei missili, una catena di comando e controllo satellitare (sensors) e relativi vettori per l’intercetto di questi ICBM (shooters). Concentriamoci quindi sui sistemi incentrati sui SRBM e vediamo, quindi, perché l’ipotizzata scelta della Marina è quantomeno opinabile.
Ciò che complica enormemente il lavoro di chi si difende da attacchi SRBM è che i sistemi più recenti utilizzano traiettorie di volo cosiddette depressed caratterizzate cioè da angoli di lancio ridotti e traiettorie molto schiacciate rispetto alle parabole classiche dei sistemi più convenzionali.
In buona sostanza, mentre nei sistemi più vecchi le traiettorie raggiungono un apogeo superiore anche ai 120 chilometri di quota, quindi ben al di fuori dell’atmosfera ed assimilabili a quelle seguite dai fratelli maggiori ICBM, i sistemi più moderni volano a quote molto più ridotte che non raggiungono i 30/35 chilometri di quota.
In pratica con l’esecuzione di lanci in traiettoria depressed i difensori hanno molto meno tempo per scoprire il lancio dovuto all’orizzonte radar e quindi altrettanto poco tempo per allestire le contromisure necessarie alla difesa. Perché quindi, la scelta del sistema Aegis SPY-1/F risulterebbe un autogol a livello operativo ed industriale?
Il sistema Aegis utilizza il missile Standard SM-3 che è stato concepito ed ottimizzato per ingaggiare missili balistici attaccanti al di fuori dell’atmosfera grazie all’impiego di un veicolo killer che manovra nel vuoto dello spazio grazie a spintori propulsi probabilmente da idrazina.
In effetti in queste condizioni esoatmosferiche l’SM-3 ha dimostrato la sua efficacia nei diversi lanci di test effettuati nel recente passato. Il problema però si pone quando i probabili bersagli volano all’interno dell’atmosfera, anche se rarefatta. Infatti, attorno ai 100 chilometri di quota il sistema di propulsione e controllo della traiettoria dell’SM-3 vede ridotta la sua efficacia per perderla del tutto al di sotto di tale quota. Perché allora valutare di dotarsi di un sistema che ha una probabilità di impiego bassissima e nel malaugurato caso di lancio non avrebbe alcuna efficacia alle quote di più probabile impiego per far fronte a una possibile minaccia?
Non solo. La Marina Militare è stata tra i maggiori sostenitori del programma FSAF (se non il principale in Italia) e tutte le sue unità principali sono attualmente dotate di questo sistema basato sui missili Aster 15 e 30 (foto a sinistra) che, peraltro, per loro configurazione sono invece ideali per intercetti nell’atmosfera grazie al sistema PIF-PAF (Pilotaggio In Forza – Pilotaggio Aerodinamico Forte) che consente profili di attacco e agilità di manovra del dardo del missile altamente efficaci. Perché allora non implementare tecnologie nazionali o comunque europee che porterebbero anche ritorni occupazionali importanti piuttosto che andare a comprare con moneta sonante sistemi statunitensi di dubbia efficacia per le condizioni operative attese?
Perché puntare su un sistema statunitense sul quale l’industria nazionale e la nostra Marina non potrebbero neanche cambiare un bullone senza il permesso di Washington?
Foto: MDAA, US Navy, Marina Militare
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