TRUPPE ITALIANE A DIFESA DELLA DIGA DI MOSUL
(aggiornato alle ore 15,00 del 18 dicembre)
Le truppe italiane in Iraq supereranno tra pochi mesi il migliaio di effettivi con l’arrivo di un battaglione destinato a presidiare la diga sul fiume Tigri a nord di Mosul, contesa aspramente nell’estate del 2014 dalle milizie dell’Isis e dai curdi che la riconquistarono con l’appoggio aereo statunitense.
Nella battaglia l’infrastruttura è stata seriamente danneggiata e verrà riparata dall’azienda romagnola Trevi che si è aggiudicata un appalto da oltre 2 miliardi di dollari ma ha bisogno di condizioni di sicurezza decenti per iniziare le attività.
La nuova missione militare è stata annunciata dal Presidente del Consiglio Matteo Renzi alla trasmissione televisiva Porta a Porta: “siamo in Iraq per l’addestramento ma anche con un’operazione importante nella diga di Mosul, cuore di un’area molto pericolosa al confine con lo Stato Islamico: è seriamente danneggiata e se crollasse Baghdad sarebbe distrutta.
L’appalto è stato vinto da un’azienda italiana, noi metteremo 450 nostri uomini insieme agli americani e la sistemeremo”.
Finora il contingente nazionale che partecipa alla missione ‘Prima Parthica’ (circa750 uomini) è stato impiegato tra Erbil (Kurdistan iracheno) e Baghdad, con funzioni prevalentemente di addestramento e in Kuwait dove sono basati 4 bombardieri Tornado due velivoli teleguidati Reaper e un tanker B-767A che volano sull’Iraq in missioni disarmate di ricognizione e sorveglianza.
L’opera, inaugurata nel 1983 col nome di “Diga Saddam”, è alta 131 metri e lunga 3,2 chilometri, ha una capacità di 11 milioni di metri cubi d’acqua e fornisce elettricità a 1,7 milioni di abitanti della regione.
L’impianto è il più grande serbatoio d’acqua artificiale dell’Iraq, e il quarto nel mondo arabo e si trova 35 chilometri a nord di Mosul.
La diga è seriamente danneggiata secondo quanto reso noto recentemente da fonti curde e se dovesse cedere le acque devasterebbero parte delle province di Ninive, Kirkuk e Salahuddin, causando probabilmente danni fino a Baghdad, 350 chilometri più a sud. Ari Harsin, deputato al Parlamento della regione autonoma del Kurdistan iracheno, ha detto che i rischi sono dovuti alla mancata manutenzione della diga per diversi anni e ha parlato di danni quantificabili in 250/450 milioni di dollari.
Il nuovo impegno dell’Italia era stato anticipato lunedì dal presidente statunitense, Barack Obama, che aveva dichiarato che “l’Italia è pronta a fare di più nella lotta al Califfato”.
Un riferimento dovuto al fatto che la diga è ora controllata dai peshmerga con consiglieri militari e forze speciali statunitensi ma i curdi vorrebbero un maggior supporto militare terrestre dalla Coalizione, soprattutto per tenere sotto controllo l’area circostante l’infrastruttura.
Nonostante le affermazioni di Obama e quelle di Renzi per il quale “sul piano militare facciamo le cose che servono davvero e la ristrutturazione della diga di Mosul è un punto chiave”, proteggere quell’infrastruttura e il cantiere di un’azienda italiana, per quanto di valore strategico come l’ex diga Saddam Hussein, non significa imprimere alla guerra quella svolta tanto attesa sui campi di battaglia.
“Non andiamo a combattere bensì a compiere interventi per preservare la diga, un’infrastruttura fondamentale per il futuro dell’Iraq, che se abbandonata rischia di provocare un grave danno ambientale” ha detto il ministro della Difesa, Roberta Pinotti, che ha parlato di 500 militari coinvolti nell’iniziativa.
“I nostri militari andranno a proteggere il lavoro dell’impresa italiana che compirà i lavori sulla diga.
Quella di Mosul è una missione nuova e importante, in una zona molto calda perché la città è considerata la capitale del califfato in Iraq, città centrale anche per i collegamenti con la Siria” ha detto il ministro ospite del programma televisivo Agorà.
La nuova missione, che dovrebbe concretizzarsi sul terreno tra marzo e aprile 2016, si effettua in ambiente ostile non lontano dalla prima linea del fronte iracheno che corre a non più di 15 chilometri di distanza e non a caso a proteggere diga e cantiere verrà inviato, a quanto sembra, un contingente incentrato su un battaglione di paracadutisti della brigata Folgore, unità di pronto impiego per le emergenze da tempo in preallertata per un possibile intervento in Libia.
Restano però tutte le perplessità per uno sforzo militare nazionale ancora una volta richiesto dagli Stati Uniti, non di combattimento ma comunque ad alto rischio per i nostri militari ma che garantirà la sicurezza anche ai lavori di un’impresa italiana.
Schierare 500 militari in quell’area comporterà un costo stimabile in almeno 50 milioni annui senza contare le spese logistiche per schierare mezzi, armi ed elicotteri (finora non schierati in Iraq) necessari ad assicurare i collegamenti ed eventuali evacuazioni sanitarie tra Erbil e la base istituita nella diga. Da quanto appreso da Analisi Difesa al nostro contingente (cui saranno forse affiancate unità canadesi) è assegnata la difesa delle infrastrutture e del cantiere della Trevi oltre che dell’area circostante la diga e questo compito richiederà l’impiego di unità mobili.
Ai veicoli Lince potrebbero venire abbinati mezzi ruotati Centauro o Freccia oppure cingolati Dardo per aumentare protezione e potenza di fuoco delle colonne motorizzate e delle pattuglie. Con le postazioni del Califfato a meno di 15 chilometri di distanza potrebbero rivelarsi molto utili per difendere la base e le colonne mobili i sistemi di protezione contro razzi campali e proiettili di artiglieria e mortai come il Draco di Oto Melara che però l’Esercito non ha ancora acquisito.
Occorrerà poi disporre di almeno una compagna di genieri con mezzi speciali per la bonifica delle strade da mine e ordigni improvvisati.
Componenti e materiali che innalzeranno ulteriormente i costi dell’operazione Prima Parthica, che quest’anno ha richiesto finanziamenti per 200 milioni di euro e ci pone in stato di guerra con il Califfato anche se i nostri militari non uccidono un solo jihadista.
Un dettaglio non irrilevante considerato che lo stesso Renzi ha sottolineato più volte la necessità di distruggere lo Stato Islamico mentre l’ex ministro della Difesa, Arturo Parisi, già nell’estate 2014 valutò che l’adesione di Roma alla Coalizione poneva l’Italia in stato di belligeranza con l’ISIS.
Per proteggere la diga e il cantiere dell’azienda italiana da eventuali attacchi dei jihadisti, che su questo fronte sono da tempo sulla difensiva, sarebbero più che sufficienti i peshmerga curdi, o truppe irachene affiancate da contractors come quelli che a migliaia proteggono cantieri e installazioni in Iraq, Afghanistan e in altre aree pericolose.
Se le forze curde e irachene proseguiranno nella loro lenta offensiva verso Mosul, quando si dispiegherà il contingente italiano le esigenze difensive dell’area circostante la diga potrebbero risultare decisamente ridimensionate.
Certo, in termini militari, la disponibilità di un battaglione di paracadutisti italiani (o di altri membri della Coalizione) avrebbe più senso per condurre azioni belliche contro il Califfato, puntando sulla potenza di fuoco e sulla mobilità del reparto, che per proteggere un’installazione fissa dove la presenza di una base dei “crociati” rischia di attirare tutti i kamikaze jihadisti dal Caucaso allo Yemen.
La nuova missione sembra quindi nascere da presupposti più politici che militari considerando anche che il governo ha bloccato ogni ipotesi di una partecipazione diretta alle operazioni di guerra della Coalizione nonostante il ministro Pinotti avesse detto che “bombardare non è un tabù” rispetto all’impiego dei Tornado in operazioni d’attacco e non solo limitate alla ricognizione.
La disponibilità italiana a schierare truppe a difesa della diga sembra rappresentare l’ennesimo obolo che l’Italia paga all’alleanza con Washington in un’ottica di compromesso: rafforzando la sua presenza in Iraq (in Kurdistan Roma già schiera il più nutrito contingente di istruttori e consiglieri militari tra i partner europei) ma senza cedere alle pressioni per un impegno in combattimento.
Al tempo stesso la presenza di truppe vicino alla prima linea pone i militari italiani sullo stesso piano di quelli statunitensi presenti in Iraq in diverse basi a ridosso del fronte ma senza compiti che li coinvolgano direttamente in battaglia.
L’operazione suscita inoltre perplessità perché finora il governo iracheno ha mostrato ben poca disponibilità ad accogliere forze straniere da combattimento sul territorio nazionale.
Recentemente il premier al-Abadi ha criticato il dispiegamento di forze speciali statunitensi in Iraq e ha condannato l‘arrivo di un reggimento meccanizzato turco a nord di Mosul, penetrato in Iraq col via libera dei curdi ma non di Baghdad.
Perché gli iracheni dovrebbero accettare che truppe italiane presidino un obiettivo sensibile di quel valore? Non è un caso che le notizie sull’invio dei paracadutisti italiani alla diga vengano definite “chiacchere che mirano a creare confusione” dal direttore iracheno della diga di Mosul, Riad Ezziddine intervistato dall’emittente tv irachena al-Sumaria news.
“Alcune dichiarazioni diffuse ultimamente circa un imminente crollo della diga non si basano sulla realtà”, ha detto il direttore. Anche le potenti milizie scite irachene hanno reso noto che qualsiasi forza straniera in Iraq sarà considerata come una forza occupante, compresi gli italiani.
E’ l’avvertimento lanciato dal portavoce delle Brigate sciite irachene Hezbollah, Jaafar al Husseini. “La nostra posizione è chiara: qualsiasi forza straniera in Iraq sarà considerata una potenza occupante a cui dobbiamo resistere”, ha detto al Husseini.
Oltre ai miliziani sunniti del Califfato, i nostri militari dovranno guardarsi anche dalle milizie scite filo iraniane che combattono a sud di Mosul e che sono poi le stesse che hanno ucciso o ferito tanti militari italiani a Nassiryah durante l’Operazione Antica Babilonia tra il 2003 e il 2006.
Quanto alla natura dell’operazione, l’impiego di militari per proteggere attività commerciali private non è una novità dopo l’istituzione dei nuclei di protezione antipirateria della Marina ma comporta alcune valutazioni circa i costi.
Le spese relative al battaglione di paracadutisti schierati sulla diga di Mosul verrà quasi certamente coperto dal “Decreto missioni” del prossimo anno, non sarà finanziato nell’ambito dell’appalto che si è aggiudicata la Trevi col governo iracheno. La questione non è di poco conto e potrebbe sollevare qualche polemica.
Gli armatori hanno dovuto pagare lo Stato per ottenere i team del San Marco da imbarcare sui mercantili che incrociano in acque infestate da pirati. Perché un’azienda privata che usufruisce dei militari per proteggere i suoi cantieri in aree a rischio non dovrebbe fare altrettanto?
Foto PAO Erbil, Difesa.it, AP, BBC, Reuters, Ansa, Los Angeles Times, Stato Islamico
Gianandrea GaianiVedi tutti gli articoli
Giornalista bolognese, laureato in Storia Contemporanea, dal 1988 si occupa di analisi storico-strategiche, studio dei conflitti e reportage dai teatri di guerra. Dal 1991 al 2014 ha seguito sul campo i conflitti nei Balcani, Somalia, Iraq, Afghanistan, Sahara Occidentale, Mozambico e Sahel. Dal febbraio 2000 dirige Analisi Difesa. Ha collaborato o collabora con quotidiani e settimanali, università e istituti di formazione militari ed è opinionista per reti TV e radiofoniche. Ha scritto diversi libri tra cui "Iraq Afghanistan, guerre di pace italiane", “Immigrazione, la grande farsa umanitaria” e "L'ultima guerra contro l’Europa". Presso il Ministero dell’Interno ha ricoperto dal 2018 l’incarico di Consigliere per le politiche di sicurezza di due ministri e un sottosegretario.