La guerra in Siria è finita: vincitori e vinti
I bombardieri Tu-22M3 decollati dal suolo russo hanno continuato a colpire anche ieri le ultime postazioni dello Stato Islamico nella provincia siriana di Deir Ezzor a sostegno delle truppe governative impegnate nell’offensiva nell’est del Paese ma si tratta degli ultimi bagliori di una guerra che, in Siria come in Iraq, è ormai conclusa con la sconfitta del Califfato.
In Siria la vittoria di Bashar Assad e dei suoi alleati russi e iraniani si afferma anche sulle altre milizie armate, dai qaedisti del Fronte al-Nusra alle altre milizie jihadiste che hanno rifiutato di negoziare con Damasco.
Certo alcune aree, come quella di Idlib, restano sotto il controllo di milizie di insorti ma sono circondate e prive di rifornimenti, incapaci di sovvertire l’esito del conflitto. Russia e Iran, insieme alla Turchia, stanno gestendo anche il processo negoziale per la pacificazione del Paese come conferma il summit di Sochi, sul Mar Nero mentre in Arabia Saudita si sono riuniti una trentina di gruppi di opposizione ad Assad (presente anche l’inviato speciale Onu per la Siria Staffan de Mistura) nel tentativo di formare un fronte unito in vista dei prossimi colloqui di pace a Ginevra.
Una dura confitta per l0asse filo ribelli guidato da Riad e dalle altre monarchie sunnite.
“La soluzione politica in Siria non può essere né iraniana, né turca” ha dichiarato il ministro degli Affari Esteri degli Emirati Arabi Uniti, Anwar Gargash, in un tweet postato su Twitter. “La soluzione politica in Siria è l’unica via alla luce della grave e sanguinosa crisi”, ha scritto Gargash, aggiungendo come “realisticamente, non può essere una soluzione turca o iraniana, così come non possono mancare il ruolo e la prospettiva araba”. Il ministro ha sottolineato come sia “spiacevole, rispetto agli sviluppi internazionali della crisi siriana, la marginalizzazione del ruolo arabo. Ad eccezione degli sforzi di Riad nell’unire le file dell’opposizione – ha concluso – vediamo come il consenso russo-turco-iraniano prevalga su un ruolo arabo secondario”.
L’opposizione si è riunita la settimana scorsa a Riad per una conferenza di due giorni nel corso della quale ha eletto un nuovo Alto comitato per i negoziati che parteciperà a Ginevra 8, prevista domani, con una delegazione unificata presieduta da Nasr al-Hariri.
Riad sembra voler digerire il dato di fatto della sconfitta e per la prima volta ha accettato che Assad resti al potere durante una fase di transizione di 18 mesi, in contrasto con la richiesta di dimissioni immediate del presidente siriano formulata dai gruppi di opposizione e ribadita anche al recente summit in Arabia Saudita.
Del resto è difficile immaginare l’uscita di scena del leader siriano, che ha vinto la guerra sul campo di battaglia impedendo che il suo Paese cadesse in mano ai jihadisti, mentre è probabile anche un suo successo nelle prossime elezioni.
Putin ha sottolineato che per raggiungere un eventuale accordo politico serviranno “concessioni” da parte di tutti, incluso il governo del presidente siriano Bashar al-Assad che nei giorni scorsi ha avuto un vertice proprio col presidente russo in cui è stata proclamata ufficialmente la vittoria nel conflitto che ha provocato in sei anni e mezzo almeno 400 mila morti ma in cui è stata anche espressa la determinazione a effettuare riforme costituzionali e lo svolgimento di nuove elezioni sotto l’egida delle Nazioni Unite.
Nella nota congiunta diffusa a margine dell’incontro di Sochi di Russia, Iran e Turchia hanno sottolineato la necessità di liberare tutti gli ostaggi e i prigionieri, di entrambi i fronti in lotta.
A questo si aggiunge la ricerca dei dispersi e la creazione delle condizioni per un cessate il fuoco di lungo periodo e l’inizio di un colloquio politico che sia “inclusivo, libero, giusto e trasparente”.
In una nota il governo siriano ha accolto con favore l’accordo raggiunto, finalizzato all’organizzazione di un “congresso” di pace che metta attorno allo stesso tavolo Damasco e gruppi di opposizione. Un incontro che possa riunire “i rappresentanti dei diversi partiti politici, le opposizioni interne ed esterne”, per discutere sui “parametri del futuro Stato” nel rispetto della “sovranità” nazionale e della “indipendenza e integrità” territoriale.
Bouthaina Shaaban, consigliere del presidente siriano, ha esortato tutte le milizie ancora attive a deporre le armi. “Il successo del congresso dipende dai vari gruppi di opposizione che devono rendersi conto che è arrivato il momento di porre fine alla violenza, deporre le armi e impegnarsi in un dialogo nazionale”.
Secondo quanto riportato dalla Tass i capi dello stato maggiore di Russia, Turchia e Iran hanno concordato “misure per aumentare il livello di coordinamento nella zona cuscinetto di Idlib” e sviluppato misure specifiche “per completare l’eliminazione delle restanti unità dello Stato Islamico e Jabhat al-Nusra”.
Che le operazioni militari volgano ormai al termine lo dimostra anche la volontà russa di completarle entro dicembre per ridurre le sue forze militari in Siria lasciando nel Paese soltanto le forze e i mezzi necessari per il funzionamento delle basi russe.
Sembrano dare frutti importanti anche gli stretti legami mantenuti tra Mosca e Gerusalemme (ostile a Bashar Assad) durante le fasi successive all’intervento delle forze russe nel conflitto siriano.
Il vertice di Sochi sembra infatti aver tracciato le prime linee per un nuovo corso anche nei rapporti tra Siria e Israele, a partire da questioni storiche irrisolte come le Alture del Golan. Bashar Assad si è detto pronto, parlando con Vladimir Putin, a discutere la realizzazione di un’area demilitarizzata fino a 40 chilometri dalla linea di separazione dei territori annessi da Israele nel corso della Guerra dei ei giorni del 1967. Lo ha riferito il quotidiano kuwaitiano al Jarida, rilanciato dall’israeliana Arutz Sheva.
Putin ne ha parlato con Benjanmin Netanyahu trovando nel primo ministro israeliano la disponibilità a discutere le proposte siriane con i responsabili della sicurezza in Israele.
Ma, ha aggiunto la fonte, Netanyahu ha sottolineato la necessità che sia Hezbollah che le unità dei pasdaran iraniani lascino la Siria. Teheran, sostiene il funzionario israeliano, “continua a giocare con il fuoco” e Israele attaccherà le sue infrastrutture entro i 40 chilometri dai suoi confini.
Inoltre Assad si è detto pronto a valutare uno statuto autonomo per i Curdi e i Drusi nel paese mediorientale, puntando, ha affermato un funzionario dello Stato ebraico che vuol restare anonimo, verso una stato federale.
Conclusa la guerra ai jihadisti resta infatti aperta per Damasco la questione degli ampi territori occupati dalle milizie curde e arabe tribali le Syrian Democratic Forces – SDF) sostenute dagli Stati Uniti la cui espansione territoriale è malvista anche da Ankara e dall’Iran.
Non si può quindi escludere che possano venire esercitate forti pressioni sui curdi siriani affinchè si ritirino nelle aree abitate dall’etnia curda (come è già accaduto con i curdi iracheni pressata da Baghdad e dalle milizie filo-iraniane) consentendo così alle truppe di Damasco di riprendere il controllo della quasi totalità del territorio nazionale.
Un’eventualità che sancirebbe la sconfitta definitiva degli USA che hanno sostenuto le milizie anti Assad (e in modo ambiguo anche lo Stato Islamico) proprio come aveva fatto la Turchia che poi ha preferito cambiare bandiera e combattere i suoi alleati di ieri pur di avere vice in capitolo nel futuro della Siria e soprattutto nel controllo delle aspirazioni curde.
La debolezza degli USA in Siria è dovuta alle tensioni con Ankara e al fatto che al fianco dei curdi Washington schiera pochi militari, saliti però negli ultimi mesi da 1.251 a 1.723. Un rapporto pubblicato dal Pentagono rivela che negli ultimi tre mesi i militari statunitensi di stanza in Medio Oriente sono aumentati del 33%, dai 40.517 soldati di stanza nella regione a maggio ai 54.180 di settembre.
L’incremento maggiore è stato registrato in Bahrein, dove ha sede il comando navale e dei marines nella regione e il numero di soldati americani è passato in tre mesi da 6.541 a 9.335, con un aumento di 2.794 unità. Le forze armate USA hanno basi in almeno 14 paesi della regione e, oltre al Bahrein, gli aumenti più’ significativi si sono registrati in Kuwait, Siria, Turchia e Qatar. In Kuwait il numero di militari è passato da 14.790 a 16.592, in Turchia da 1.405 a 2.265 e in Qatar da 3.164 a 6.671.
Un aumento che non sembra avere giustificazioni diverse da possibili operazioni contro le forze di Bashar Assad o dal rafforzamento di strumenti di deterrenza contro attacchi dei governativi siriani poiché la guerra contro lo Stato Islamico si è di fatto conclusa almeno sui campi di battaglia.
Secondo quanto riportato dal quotidiano The Washington Post, che cita le dichiarazioni di alcuni esponenti militari statunitensi, gli Stati Uniti pianificano di mantenere una presenza stabile nella Siria settentrionale e di stabilirvi un governo locale autonomo dal regime di Assad. “Non ponendo alcuna scadenza alla fine della missione degli Stati Uniti, il Pentagono sta creando un quadro per mantenere il paese impegnato in Siria negli anni a venire”, ha detto una fonte anonima al Washington Post. E l’obiettivo non può che essere quello di affiancare i curdi per contenere il regime siriano, l’Iran e la Russia.
Di certo tra gli sconfitti nella guerra siriana c’è l’Europa, schierata coi ribelli e che ha subito immani flussi di migranti e profughi incassando la più alta minaccia terroristica della sua storia senza trarne nessun vantaggio.
Una disfatta strategica per tutto il Vecchio Continente. La fine del conflitto imporrebbe inoltre agli europei di provvedere a breve al rimpatrio dei tanti siriani e iracheni accolti come rifugiati di guerra e che in Europa hanno ottenuto l’asilo temporaneo.
Foto: Vesna, AFP, TASS, Sputnik, SANA
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