La versione obamiana sull’attacco in Libia…
di Mattia Ferraresi – da Il Foglio del 2 ottobre 2012
La versione obamiana sull’attacco in Libia crolla e svela i risvolti elettorali. Il terrorismo e le “bande”.
New York. Per ogni nuovo dettaglio che esce sull’attacco al consolato americano di Bengasi, la credibilità e la coerenza del dipartimento di stato arretrano di un passo. Ieri il New York Times ha ricostruito nei particolari l’aggressione di stampo militare che l’11 settembre ha ucciso l’ambasciatore Chris Stevens e altri tre americani, ribadendo quello che gli ufficiali di Foggy Bottom e dell’antiterrorismo ammettono con un certo imbarazzo: si tratta di un’azione terroristica pianificata che nulla ha a che vedere con le proteste per il film a bassissimo costo su Maometto, “The Innocence of Muslims”, se non per la coincidenza non casuale della data, l’11 settembre. E la matrice dell’attentato si riconosce se si confronta con l’ordigno fatto esplodere vicino al consolato, senza conseguenze, il 6 giugno, il giorno dopo che Washington ha annunciato di avere ucciso, sul suolo pachistano, il comandante di al Qaida Abu Yahya al Libi. Già in aprile un reparto delle forze speciali americane in Libia aveva indicato di aumentare il livello di sicurezza nel consolato, troppo vulnerabile secondo la loro ricognizione, e la cooperazione fra americani, contractor stranieri e forze di sicurezza locali aveva in apparenza tranquillizzato i responsabili diplomatici della missione, tanto che uno di questi ha detto al New York Times che “la reazione alla bomba del 6 giugno ci ha dato un falso senso di sicurezza”. Quanto fosse falso lo sapeva Stevens, che nel suo diario rinvenuto dalla Cnn aveva riportato il timore di essere nel mirino di al Qaida. Il candidato alla vicepresidenza, Paul Ryan, ha rifiutato di allinearsi al gruppo di repubblicani al Congresso che chiede le dimissioni di Susan Rice, l’ambasciatore americano all’Onu – nonché candidato di punta per il dopo Hillary – che per prima ha dettato la linea negazionista, salvo poi rimangiarsi goffamente ogni cosa quando la versione dell’Amministrazione è stata smentita dai fatti. E la nota pubblicata cinque giorni prima dell’attentato in cui Washington spiega che non ci sono minacce di attacchi per l’11 settembre è stata rimossa dal sito internet. La resipiscenza del dipartimento di stato sta trasformando rapidamente un disgraziato errore di valutazione in una copertura di falle molto prevedibili, tanti erano gli indizi sparsi un po’ ovunque. In termini politici è un salto di qualità decisivo. Quando il consolato era ancora avvolto nel fumo, alcuni ufficiali del Pentagono avevano già dichiarato che si trattava di un attentato terroristico e le agenzie di sicurezza americane, riporta il Daily Beast, nel giro di ventiquattro ore sapevano che gli attentatori erano di al Qaida e uno di questi era stato anche localizzato. Il segretario del Pentagono, Leon Panetta, dopo settimane di tentennamenti ufficiali in cui però piovevano copiose dichiarazioni anonime sui giornali, ha detto che “si tratta chiaramente di un attacco terroristico contro una nostra sede diplomatica”. Terroristi contro americani, dunque, non folla inferocita e ben armata contro un oscuro produttore di film blasfemi. I dettagli sempre più circostanziati e univoci che completano il quadro di un attentato terroristico spacciato per una rivolta sfuggita di mano rendono la versione originaria del dipartimento di stato un lavoro di spin funzionale a una rappresentazione della vicenda più clemente nei confronti della Casa Bianca, a quel punto vittima incolpevole di un attacco imprevedibile. E qui entra in scena l’elemento elettorale. Mitt Romney è stato messo in croce dall’Amministrazione e dall’opinione pubblica per avere cercato di sfruttare politicamente l’attentato di Bengasi con un comunicato frettoloso e persino indelicato, operazione giudicata indegna di un vero patriota, e lo sfidante di Obama ha pagato l’uscita con la flessione nei sondaggi e con il cambio dell’inerzia elettorale. Costruire e proporre una versione edulcorata e sostanzialmente fasulla per deresponsabilizzare la Casa Bianca e ridurre a posteriori il calibro dell’attentato che ha ucciso Stevens appare un’operazione del tutto identica, ma di segno politico opposto. L’imprudenza di Romney poteva essere registrata e bastonata in tempo reale, mentre la trama intessuta dal dipartimento di stato in cui alla fine la stessa Amministrazione si è ritrovata invischiata si scopre nel tempo. Servono i cronisti di un giornale amico della Casa Bianca come il New York Times per avere un racconto dettagliato di quello che è successo a Bengasi, e i particolari sono talmente precisi che ogni scena contribuisce a rendere più inverosimile la storia attorno alla quale s’è avvitata la diplomazia. Il fatto poi che Washington abbia inviato agenti dell’Fbi in Libia per indagare sull’accaduto e che questi per motivi di sicurezza non abbiano ancora raggiunto Bengasi alimenta la rappresentazione della debolezza di Obama anche nella gestione del dopo attentato. Per sfruttare questa inversione dei rapporti di forza, Romney ha annunciato che terrà un discorso di politica estera dopo il primo dibattito presidenziale, previsto per mercoledì. Ieri in un editoriale sul Wall Street Journal il candidato ha ribadito l’inadeguatezza della politica di Obama in medio oriente, e ha sottolineato una volta ancora le falle dell’Amministrazione a Bengasi. Nel discorso dovrà occuparsi della pars construens.
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