ALENIA AERMACCHI FA IL PUNTO SULL’ UCAV NEURON E IL TYPHOON MULTIRUOLO

Dum Romae consulitur, Saguntum expugnatur”. Scomodare Tito Livio potrà sembrare esagerato, ma quello che sta accadendo in Europa nel settore degli Unmanned Combat Aerial Vehicle, i velivoli da combattimento senza pilota, richiama alla memoria il modo con cui lo storico tramandò le imprese di Annibale a danno di Roma. Ossia, mentre nel Vecchio Continente fervono le discussioni per capire chi, in collaborazione con chi, in quale modo e in quanto tempo riuscirà a costruire un UCAV a tutti gli effetti europeo, gli Stati Uniti, dopo aver già bagnato il naso agli alleati d’oltre oceano nei caccia di quinta generazione, si preparano a fare il bis con la prima degli Unmanned da combattimento, gettando già le basi per la seconda, che forse corrisponderà alla sesta dei caccia tout court. Il rischio per l’Europa, o per una certa parte di essa, è più che evidente: finire cooptata dall’America anche per un possibile programma “Joint-UCAV”, ovviamente di nuovo a sovranità statunitense. Seconda, questa volta definitiva pietra tombale sull’industria aeronautica e della Difesa del nostro continente.
Così raccontano le cronache più recenti, che vedono i principali governi europei e le rispettive compagini industriali studiarsi a distanza stringendo alleanze contrapposte, nella malcelata ricerca di rendite di posizione in vista di un possibile UCAV “il più europeo possibile”, in nome di una futuribile Difesa comune che possa scongiurare nuove “guerre fratricide” come è stata la concorrenza commerciale (ma non solo) tra Rafale ed Eurofighter. Così taglia corto l’intraprendente presidente francese Francois Hollande, sorvolando sul precedente (ancora abbastanza fresco) dell’abbandono da parte di Parigi della “nave” dell’European Fighter Aircraft. Acqua passata. Adesso per l’UCAV la partita si gioca fra Londra, Berlino, Parigi e Roma, con una complicata rete di accordi “preparatori” incrociati. Una storia già vista con il MALE, l’Unmanned da intelligence e sorveglianza classe “Medium Altitude” che viene visto come la necessaria anticamera di quello da combattimento; un drone, il MALE, con cui si vorrebbe contenere lo strapotere degli Stati Uniti col loro ormai onnipresente RQ/MQ-1 Predator e a breve col nuovo modello XP, già offerto col benestare dell’amministrazione Obama ai mercati mediorientali e nordafricani. Guardacaso gli stessi mercati ai quali potrebbe ambire un futuribile MALE “made in Europe”.
L’UAV da combattimento, beninteso “invisibile” (e secondo la Germania anche “etico”, cioè non sfruttabile come i Predator della CIA per missioni indiscriminate di “killeraggio”), serve principalmente a una cosa: a effettuare il first strike in profondità nelle difese anti-aeree nemiche cercando di eliminarle, aprendo così spazi e corridoi attraverso i quali aerei da superiorità aerea e da attacco al suolo “manned” ma non necessariamente ultra-stealth possano svolgere in relativa tranquillità il loro lavoro. Per far questo gli Unmanned da combattimento, o per essere più precisi da attacco, devono poter disporre di efficaci sensori e sistemi di jamming e contrasto anche anti “cyberwarfare”. Quando diventeranno supersonici e capaci di manovrare a numeri di “g” più elevati di quelli sopportabili dall’uomo, potranno cominciare a sostituire gli aeroplani da combattimento con pilota a bordo anche nei ruoli della difesa e della superiorità aerea. Se ne parlerà fra 15-20 anni.

Guai a perdere anche il treno dell’UCAV
La insostenibile leggerezza dell’incapacità del Vecchio Continente di dar corso a un concreto e credibile “dopo caccia della generazione 4++” è forse spiegabile dalla scarsa attrattiva di un mercato interno potenziale che, se per il MALE si annuncia ridotto di default, per l’UCAV oggi non è nemmeno valutabile, in mancanza di precisi requisiti governativi (di sicuro di un requisito italiano) e dei relativi impegni di bilancio. L’industria europea non è così in grado di rispondere alla RFI (Request For Information) emessa all’inizio di febbraio dall’India, la quale dopo aver comprato di tutto da tutti, ora ha bisogno anche degli UCAV. Dietro l’angolo si profila allora un rischio mortale: quello di perdere anche il treno della prima generazione di questa nuova classe di aerei da guerra dopo aver deliberatamente deciso di non salire, nel 2000, su quello della nuova generazione di caccia con pilota a bordo. Con il senno di poi oggi si può affermare che scegliendo il Joint Strike Fighter americano cinque Paesi NATO hanno già fatto un po’ di terra bruciata anche attorno a un possibile UCAV europeo, che al contrario, a ben guardare, l’Europa – con un impegno finanziario pari solo a una frazione di quello necessario allo sviluppo di un “fighter” di nuova generazione – potrebbe rendere disponibile solo pochi anni dopo la piena operatività del JSF.

 

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Silvio Lora LamiaVedi tutti gli articoli

Nato a Mlano nel 1951, è giornalista professionista dal 1986. Dal 1973 al 1982 ha curato presso la Fabbri Editori la redazione di opere enciclopediche a carattere storico-militare (Storia dell'Aviazione, Storia della Marina, Stororia dei mezzi corazzati, La Seconda Guerra Mondiale di Enzo Biagi). Varie collaborazioni con riviste specializzate. Dal 1983 al 2010 ha lavorato al mensile Volare, che ha anche diretto per qualche tempo. Pubblicati "Monografie Aeree, Aermacchi MB.326" (Intergest) e con altri autori "Il respiro del cielo" (Aero Club d'Italia). Continua a occuparsi di Aviazione e Difesa.

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