CRISI MARO’: PERCHE’ NON POTEVA CHE ANDARE COSI’

di Leonardo Tricarico *

Che la vicenda dei due marò italiani trattenuti in India da ormai 14 mesi sia stata una pièce  senza copione, recitata da attori improvvisati ed improvvisatori e con una regia pari alla recitazione, è chiaro a tutti. Che sulla tragicomica accelerazione delle ultime settimane abbiano pesato calcoli pre-elettorali è molto probabile. Che il giornalismo investigativo domestico sia stato a lungo un po’ pigro, contribuendo almeno per omissione a coprire la non-gestione della crisi, è un peccato. Ma oggi, mentre l’infinita partita di un nuovo Governo e di un nuovo Presidente della Repubblica ha di nuovo allontanato Salvatore Girone e Massimiliano La Torre dalle prime pagine, è più che mai necessario analizzare il sistema che ha reso possibile che un fatto circoscritto si trasformasse in una crisi diplomatica, di immagine e di sistema senza precedenti. Solo separando il software e l’hardware – cioè il singolo evento, sui cui contorni permangono ancora zone grigie non secondarie, dai meccanismi permanenti per gestire gli eventi al massimo livello – si può sperare di far sì che l’incredibile sequela di errori non si ripeta e indicare i provvedimenti correttivi da apportare ai rituali che l’hanno fatta da padrone rispetto persino all’osservanza delle norme di legge. Cosa ancora più importante, questo si può fare subito, senza aspettare il pur importante accertamento delle responsabilità individuali. Bisogna, infine, analizzare il contesto internazionale che ha permesso lo scatenarsi della crisi e chiedersi se anche qui non vi sia bisogno di fare qualcosa prima che altri buoi scappino.

Il DPCM disatteso
Ma partiamo dai fatti, cercando di chiarirli non solo per il puro desiderio di raccontare “le cose così come sono andate” caro agli storici ma soprattutto per trarne tutti i possibili insegnamenti  ed evitare così di ripetere gli errori. Il Ministro Terzi rivendica ad ogni pie’ sospinto la collegialità delle decisioni adottate via via,  citando vagamente i consessi e le forme della concertazione. Se qualcosa è davvero mancato, è stata però la collegialità delle decisioni. Nessuno ha mai pensato di utilizzare gli organismi interministeriali che esistono da tempo e sono oggi normati dal Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri (DPCM) 5 maggio 2010, “Organizzazione nazionale per la gestione di crisi” e che avrebbero dovuto costituire la via maestra. Questo “hardware” comprende due tavoli di concertazione, l’uno tecnico (conosciuto giornalisticamente come Unità di Crisi, ma più precisamente NISP, Nucleo Interministeriale Situazione e Pianificazione) e l’altro di livello prettamente politico (il CoPS, Comitato Politico Strategico). La norma prevede che il CoPS sia presieduto dal Presidente del Consiglio e che vi siedano ministri, sottosegretari, capi dipartimento ed alti funzionari titolati a gestire le situazioni emergenziali. In compenso il Presidente Monti ha affermato in un’intervista televisiva che la decisione del rientro fu presa, per motivi tutti da verificare,  nella riunione del Comitato Interministeriale per la Sicurezza della Repubblica (CISR), organo più di “intelligence” che di gestione delle crisi.
Se qualcuno nutrisse dubbi – come può capitare in un Paese in cui la conoscenza e il rispetto delle leggi sembrano un optional – sulla prevalenza del DPCM 5 maggio 2010, il decreto stesso definisce all’art. 2 una fattispecie di “crisi internazionale” che calza alla perfezione il caso dei marò: “eventi che turbano le relazioni tra Stati o, comunque, suscettibili di mettere in pericolo il mantenimento della pace e della sicurezza internazionale e che possono coinvolgere o mettere a rischio gli interessi nazionali”. Ebbene, risulta per certo che nella crisi dei Marò nessuno dei due tavoli, ne’ quello tecnico ne’ quello politico, sia mai stato attivato e questo nella grave ed incomprensibile inosservanza da parte della Presidenza di una norma emanata dalla stessa Presidenza. Non è superfluo ricordare che lo stesso tavolo di crisi gestì il Millennium Bug e il post 11 settembre, autoconvocandosi sempre ad horas. Di norma lo stesso tavolo effettua, simulando il Vertice di Governo, le periodiche esercitazioni Nato ed europee che non infrequentemente disegnano scenari simili a quello che hanno riguardato i marò. Ma forse anche questo non è noto ai protagonisti di vertice di questa vicenda.  È anche utile avanzare, più che un sospetto, la ragionevole convinzione che siano gli stessi Ministri (o, comunque, le strutture ministeriali centrali e periferiche) a non voler fare funzionare i tavoli di coordinamento interministeriale istituiti, nella perniciosa convinzione che coordinare sottrarrebbe loro autonomia o esporrebbe il loro operato a un vaglio sgradito. In passato più di un componente di quello che oggi si chiama  NISP ammise, a microfoni spenti,  di aver avuto dal proprio dicastero istruzioni a non essere troppo zelanti e collaborativi nelle iniziative collegiali di Palazzo Chigi.

 

 

 

 

 

 

 

Nulla autorizza a credere che oggi le cose siano cambiate, anzi questa crisi conferma un peggioramento del quadro complessivo. Il fatto che l’operatore dominante sia la Farnesina rafforza la convinzione dell’insofferenza verso il giogo interministeriale. Nessuno come i diplomatici è da sempre  recalcitrante a che  alcuno si intrometta in  questioni che occorrano fuori dei confini nazionali.  L’unico caso che si ricordi in questo secolo fu quando Guido Bertolaso, con il suo caratteraccio, riuscì a ottenere la titolarietà della gestione dei fondi  nei paesi colpiti dallo Tsunami del 2004, dopo un lungo braccio di ferro con l’allora Ministro Fini, spalleggiato dalle feluche di turno. Nel caso marò anche il Presidente del Consiglio è parso un po’ distratto rispetto alla perentorietà del Decreto per la gestione delle crisi, forse perché non è riuscito a spogliarsi del personaggio di risanatore dell’economia per rivestire a pieno titolo quello di capo del governo. Il suo comportamento pare richiamare quello del tenace detentore della delega per la gestione dei Servizi; allora parve che fosse stata la tragica fine dell’ostaggio Lamolinara in Nigeria l’8 marzo 2012 durante un blitz unilaterale inglese a convincerlo a nominare finalmente un Sottosegretario con delega per gli organismi di Sicurezza. Oggi vi è da sperare che questa circostanza non colta da lui serva da monito al suo successore per dare finalmente concretezza alle attività di coordinamento interministeriale, che per queste materie non possono e non debbono avere l’unica sterile ed inadeguata espressione nel plenum del Consiglio dei Ministri. Prima riflessione parziale quindi: il Presidente del Consiglio di turno deve gestire gli eventi critici che comportano la competenza di più istituzioni in maniera coordinata, esercitando finalmente la potestà di coordinamento che la legge stessa assegna a lui (e solo a lui). Con più lungimiranza sarebbe auspicabile un coordinamento interministeriale permanente per la salvaguardia dell’interesse statuale permanente al centro dell’azione quotidiana, senza attendere la crisi. Negli USA, ad esempio, sin dal 1947  esiste il National Security Council.

Il vero ruolo dei tecnici
Come si vede queste sono considerazioni tecniche, che prescindono dal colore del Governo di turno ma che dovrebbero far parte del bagaglio professionale delle strutture permanenti di gestione del Paese. Nel caso marò bisogna invece osservare come a mancare non sia stato il disegno politico di un Governo politico – titolato a fare scelte anche sbagliate, ma in qualche modo poggianti sul consenso popolare – quanto proprio la capacità tecnica di quelli che sulla carta erano ciò che di meglio le istituzioni potevano prestare alla politica. In altre parole, nessuno meglio di un diplomatico all’apice di una brillante carriera avrebbe potuto e dovuto valutare le conseguenze di un aspro confronto  con un grande Paese come l’India, così come nessuno meglio dell’Ammiraglio Di Paola, unica persona nella storia delle Forze Armate italiane ad aver ricoperto tutti gli incarichi di vertice nazionali ed internazionali, avrebbe potuto e dovuto  cogliere il senso  delle vicende operando  le scelte meno dannose per l’interesse nazionale e nel contempo più efficaci per tutelare i diritti dei due militari con la sua stessa uniforme. Senza contare il Ministro della Giustizia, un comprimario non da poco il cui ruolo – dato il contesto ed i riferimenti giuridici  cui  ambedue le parti fanno appello – non può sfuggire.
Ma forse questa, paradossalmente, è la seconda riflessione parziale da trarre. I militari, i diplomatici, i magistrati, i professori, proprio perché padroni del sapere specifico consolidato in lunghi anni ne restano po prigionieri nei momenti della decisioni importanti. L’etica dei loro comportamenti, divenuta negli anni pratica di vita, finisce per costituire ostacolo insormontabile per una politica più attenta a tutti gli interessi in campo. Infine, uno sguardo ora ad alcuni passaggi critici non sufficientemente chiari della vicenda. Dando per scontata l’indipendenza della magistratura indiana nell’effettuare le proprie indagini, non si capisce come mai l’Italia non sia stata ammessa a partecipare a una commissione di indagine governativa che potesse ricostruire meglio di chiunque altro l’accaduto. Giova ricordare, ed altrettanto andava fatto con le autorità indiane, che questa non sarebbe stata un’invenzione mirabolante ma solo l’applicazione di una consuetudine universalmente accettata da tutte le democrazie: quando capita un incidente che veda coinvolti più Paesi, le indagini vanno condotte da una commissione mista. La Nato ha fatto di questo concetto una norma in un apposito accordo permanente (in gergo, Stanag). Gli esempi sono tanti. A Ramstein, a seguito della tragedia causata dalle Frecce Tricolori nel 1998, indagò  una Commissione trinazionale  composta dalla Germania (ove era capitato l’evento), dagli USA (titolari della base) e dall’Italia (titolare della Pattuglia). Per la tragedia del Cermis furono create due commissioni governative distinte, che però poi operarono insieme, giungendo a conclusioni non del tutto condivise ma scaturite da un aperto e tenace confronto. Quando Nicola Calipari fu ucciso in Iraq a un posto di blocco statunitense, l’ambasciatore statunitense a Roma Mel  Sembler, in un incontro a Palazzo Chigi con Gianni Letta e Berlusconi, dovette cedere alle richieste manifestate dal nostro governo di inserire un membro italiano nella Commissione di inchiesta. Fu scelto l’ambasciatore Ragaglini, oggi all’ONU, che andò a integrare la Commissione USA e consentì all’Italia una totale visibilità sulle indagini in corso.

 

 

 

 

 

 

 

La Torre e Girone non sono né eroi, né assassini. I due militari incorsi in un inconveniente connesso alla loro professione solo gli unici due protagonisti che in questa penosa vicenda hanno tenuto un atteggiamento di compostezza, dignità e lealtà che può essere ammirato in tutto il mondo e ci rende orgogliosi di essere italiani. Se il nostro Paese avesse più memoria e fosse più attento al mondo della Difesa, si accorgerebbe che quello che accade oggi ai due marò è un film già visto più volte, con diverse sceneggiature ma appartenente allo stesso genere. Alla fine del conflitto nei Balcani il Generale Arpino e l’Amm. Guarnieri, rispettivamente Capo di Stato Maggiore della Difesa e della Marina, furono processati per la bombe sganciate in Adriatico dai velivoli Nato impegnati nelle operazioni belliche. I due furono trascinati in giudizio solo per aver compiuto il loro dovere; tra l’altro al gen. Arpino non fu neanche accordata l’assistenza dell’Avvocatura di Stato. La vicenda giudiziaria durò tre anni e si concluse con l’assoluzione dei due ufficiali imputati di “tentata strage colposa aggravata”. Arpino, in un colloquio telefonico con il suo amico Generale Wesley Clark, che quelle operazioni aveva diretto da Bruxelles, seppe riderci sopra: “Per lo stesso fatto, ossia il ruolo che tu ed io abbiamo ricoperto nelle operazioni per liberare i Balcani da Milosevic, tu sei candidato alla Presidenza degli Stati Uniti mentre io rischio di finire in prigione”. Ma la battuta non può risolvere un problema che continua a incombere sui servitori dello Stato come la proverbiale spada di Damocle.
Sempre per le operazioni nei Balcani quale Vice Comandante della coalizione aerea multinazionale, fui formalmente indagato dalla magistratura militare in quanto un gruppo di intellettuali serbi, in un esposto-denuncia, chiedeva giustizia per quasi tre mesi di bombardamenti in mancanza dichiarazione di guerra.Ed ancora, nel  marzo 2000, il Ten. Col. Maurizio De Rinaldis, allora comandante delle Frecce Tricolori, a seguito del sorvolo di Napoli per una cerimonia ufficiale, fu incriminato dal procuratore di turno per i reati di “inosservanza delle istruzioni ricevute” asserendo che il  sorvolo della pattuglia a bassa quota aveva creato “pubblico scandalo”. Anche De Rinaldis dovette difendersi solo per aver ottemperato a un ordine di volo; il proscioglimento giunse dopo circa un anno. Certamente frugando nel vissuto di altri comparti dello Stato si può immaginare una casistica voluminosa di incidenti di percorso subiti da servitori dello Stato incolpevoli. È il prezzo da pagare ai nuovi scenari, alle situazioni inedite per un soldato, i cui comportamenti non sono sempre rubricabili a fronte di norme certe, di quadri giuridici consolidati o a prova di magistrati – e questo pare una esclusività italiana – non sempre sereni o equilibrati. Ma è altrettanto certo che molti problemi nascono da un’ambiguità tipicamente italiana, nella quale le leggi che sanciscono i princìpi sono raramente seguite dai regolamenti che ne fissano i meccanismi operativi. Nel caso marò, ad esempio, neppure l’arrivo di un militare alla guida della Difesa è bastato a trarre il regolamento sulla tutela delle navi mercantili dalle secche nelle quali si era incagliato sotto il precedente titolare politico del dicastero. Si tratta, come già detto, di un difetto di struttura che non si può sperare di risolvere solo attraverso la presenza di singole persone più o meno zelanti. (A proposito: sarebbe interessante sapere se nelle ultime settimane il regolamento abbia fatto passi avanti, se sia stata chiarita la catena gerarchica e decisionale a bordo delle navi mercantili, se siano siglati memorandum d’intesa con i Paesi rivieraschi e, più in generale, sotto quali norme stiano operando oggi i marò sulle altre navi mercantili italiane nei mari infestati dai pirati).

Perché non ritirarsi dalle missioni
L’ultima considerazione da fare è prettamente politica. C’è chi ha strumentalizzato la vicenda Marò per chiedere il disimpegno italiano da tutte le missioni internazionali. Nulla di sbagliato, a meno di voler vanificare gli sforzi fatti negli ultimi vent’anni, con risultati operativi che ci vengono universalmente riconosciuti. Né si può trascurare l’importanza del rinnovamento culturale all’interno delle stesse Forze Armate per il passaggio da una mentalità da “Fortezza Bastiani” a quella della continua verifica sul campo di capacità, equipaggiamenti, dottrina e così via. È tuttavia altrettanto che, a fronte della generosità con la quale i governi italiani rispondono sempre a ogni richiesta proveniente dalla comunità internazionale, non si è avuto sinora un adeguato riconoscimento politico nelle sedi internazionali.  L’insensibilità di singoli Paesi o di organizzazioni multinazionali nei nostri confronti continua immutata.  Basti qui ricordare come nel 2011, in occasione della campagna di Libia, resa possibile in larghissima misura dalla concessione delle basi italiane nonostante gli evidenti impatti interni, l’Unione Europea si disinteressò del problema dei profughi in fuga (o lanciati?) verso l’Europa, addossando all’Italia non solo l’onere umanitario ma anche il rischio che tra le decine di migliaia di poveracci si nascondesse qualche terrorista pronto a farci pagare il conto dell’ospitalità data ai nostri alleati. Ricordare e far valere – senza ricatti, ma anche senza unilaterale generosità – il contributo che l’Italia ha sempre dato alla sicurezza collettiva, come previsto dall’art. 11 della Costituzione. Bisogna saper distinguere tra la protezione di interessi diretti, come la protezioni dei nostri mercantili, dalla partecipazione a missioni multinazionali per la difesa o il ristabilimento della pace, con ricadute solo indirette sull’Italia. Il fatto che i nostri militari tengano alta la bandiera d’Italia come pochi altri in questo momento fanno non può nascondere il fatto che gli scarsi ritorni politici sinora ottenuti dalla partecipazione capillare a tutte le missioni devono essere oggetto di riflessione quando i buoi – per così dire – sono ancora nella stalla, senza alterazioni emotive o ideologiche nell’uno o nell’altro senso. Tutto questo ovviamente nulla toglie al dovere perentorio di non recedere di un solo millimetro dall’impegno di sostenere in ogni foro il buon diritto dei nostri soldati.

*già Capo di stato maggiore dell’Aeronautica e consigliere militare di tre presidenti del Consiglio

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