LA COREA DEL NORD AFFONDA LA DETERRENZA STATUNITENSE

La battaglia delle parole che vede ormai da settimane contrapporsi il regime nordcoreano agli Stati Uniti e ai suoi alleati sudcoreani e giapponesi sembra giunta alla fase decisiva. Dopo aver annunciato il “via libera definitivo” per un attacco nucleare contro le basi statunitensi, che un attacco nucleare “è possibile” e che le minacce americane saranno “distrutte” anche con mezzi nucleari, Pyongyang dovrà ora decidere se passare ai fatti o congelare l’escalation perseguita finora e tornare gradualmente sui suoi passi. Le valutazioni che interpretavano l’aggressività nordcoreana con l’ormai consueta pretesa di ottenere aiuti per la sua asfittica economia sembrano essere smentite dalla decisione di Pyongyang di chiudere ai lavoratori del Sud il distretto industriale ”a sviluppo congiunto” di Kaesong. Un gesto che ha stupito Seul non solo perché Kaesong rappresenta un esempio di successo di cooperazione tra le due Coree ma soprattutto perché le attività industriali di quel distretto costituiscono una fonte importante di valuta pregiata per il regime nordcoreano. Difficile comprendere se il giovane dittatore Kim-Jong Un sia pronto davvero a scatenare una guerra, persino nucleare, contro Seul e gli Stati Uniti ma occorre chiedersi se gli obiettivi perseguiti da Pyongyang non vengano favoriti dalla blanda reazione di Washington.

Nessun Paese aveva mai minacciato direttamente e in modo reiterato di attaccare con armi atomiche le basi e il territorio degli Stati Uniti. Una minaccia spavaldamente ostentata di fronte alla quale l’amministrazione Obama sembra muoversi con timidezza e in ogni caso con manovre esclusivamente difensive. E’ sconcertante vedere come a questa minaccia senza precedenti dai tempi della Guerra Fredda con i sovietici la Casa Bianca risponda “esortando la leadership nordcoreana a cessare le minacce provocatorie e a scegliere la strada della pace rispettando gli obblighi internazionali” aggiungendo che “gli Stati Uniti restano vigili di fronte alle provocazioni nordcoreane e sono pronti a difendere il territorio statunitense, gli alleati e gli interessi nazionali”. Tutto qui?
L’invio di due bombardieri B-2 Spirit alle annuali esercitazioni congiunte tra le forze statunitensi e sud coreane invece di avere un effetto deterrente su Pyongyang ha, al contrario, indotto i nordcoreani ad alzare i toni. Il Pentagono ha reso noto di aver rafforzato la presenza navale nella regione on unità dotate di armi antimissile e ha schierato in Corea del Sud alcuni caccia F-22 Raptor.

Di fronte al “via libera a un attacco nucleare” da parte nordcoreana il Segretario alla Difesa, Chuck Hagel, si è limitato a informare che nelle ”prossime settimane” verrà dispiegato a titolo ”precauzionale” a Guam (una delle principali basi americane nel Pacifico sotto il tiro dei missili nordcoreani) una batteria del sistema di difesa antimissile THAAD (Terminal High-Altitude Area Defense). Misure difensive, non di deterrenza. Davvero poca cosa per l’unica super potenza mondiale in grado sul piano militare di esprimere misure di rappresaglia e di attacco preventivo capaci di cancellare l’intera Corea del Nord. In altri tempi Washington avrebbe avvertito che il minimo segno di attivazione di una rampa per missili balistici avrebbe determinato un attacco preventivo devastante contro la Corea del Nord giustificato proprio dalla presenza di armi atomiche negli arsenali di Pyongyang. Armi delle quali nessuno può permettersi di attendere l’impiego prima di rispondere. La debolezza di Washington non è militare ma politica e conferma le ormai ben note difficoltà e i tentennamenti con i quali Barack Obama gestisce le sfide militari. Lo abbiamo già visto più volte durante il suo mandato.
Obama tentennò per mesi quando doveva decidere se inviare o meno i rinforzi richiesti dai comandi militari in Afghanistan e alla fine decisi di inviarli ma annunciando subito che dopo un anno li avrebbe ritirati.

Nella crisi con l’Iran l’incertezza circa le misure da adottare per fermare il programma nucleare di Teheran ha spazientito e deluso gli alleati mediorientali, da Israele alle monarchie arabe del Golfo. Anche nei confronti della Corea del Nord la Casa Bianca non sembra avere una strategia di deterrenza e contenimento come dimostrano gli appelli a Mosca e Pechino a “fare di più” per fermare Kim-Jong-Un. A ben guardare ha reagito con maggiore fermezza il governo sudcoreano che ha fatto sapere che in caso di aggressioni le forze armate hanno mano libera per colpire il nemico. Del resto, armi nucleari (e chimiche) a parte, Seul spende oltre 30 miliardi di dollari all’anno per le sue forze armate contro meno di un miliardo di budget della Difesa nordcoreano, secondo le stime degli analisti del Sud.

Secondo il Wall Street Journal la Casa Bianca avrebbe accantonato gli atteggiamenti aggressivi nel timore di aggravare ulteriormente la crisi, come ha riferito un esponente dell’amministrazione secondo il quale “il timore è quello di rafforzare la prospettiva di possibili incomprensioni e che questo possa tradursi in errori di valutazione” anche se l’amministrazione “non esclude di mostrare la forza in futuro”. Se l’obiettivo strategico di Pyongyang, sul quale tanti si interrogano, fosse proprio quello di evidenziare le incertezze di Washington agli occhi degli alleati asiatici sempre più scettici circa la reale disponibilità degli Stati Uniti a combattere per proteggerli? In questo caso Kim-Jong Un potrebbe già oggi dichiarare “missione compiuta”. Non è un caso che a Seul e Tokyo siano in aumento le pressioni politiche per costituire arsenali atomici nazionali in grado di bilanciare quelli di Pyongyang e Pechino. I nordcoreani sfidano gli Stati Uniti per dimostrarne “l’impotenza” e minare le basi dell’alleanza con Tokyo e Seul. Un obiettivo che, al di là delle reazioni ufficiali e di facciata, potrebbe non dispiacere a Cina e Russia anche se Pechino sembra temere di aver perso il controllo dell’alleato nordcoreano le cui provocazioni rischiano di portare tutta la Settima flotta dell’Us Navy nel “cortile di casa” dei cinesi.

Gianandrea GaianiVedi tutti gli articoli

Giornalista bolognese, laureato in Storia Contemporanea, dal 1988 si occupa di analisi storico-strategiche, studio dei conflitti e reportage dai teatri di guerra. Dal 1991 al 2014 ha seguito sul campo i conflitti nei Balcani, Somalia, Iraq, Afghanistan, Sahara Occidentale, Mozambico e Sahel. Dal febbraio 2000 dirige Analisi Difesa. Ha collaborato o collabora con quotidiani e settimanali, università e istituti di formazione militari ed è opinionista per reti TV e radiofoniche. Ha scritto diversi libri tra cui "Iraq Afghanistan, guerre di pace italiane", “Immigrazione, la grande farsa umanitaria” e "L'ultima guerra contro l’Europa". Presso il Ministero dell’Interno ha ricoperto dal 2018 l’incarico di Consigliere per le politiche di sicurezza di due ministri e un sottosegretario.

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