Banditi nella base italiana a Tripoli. I rischi dell’Operazione Cirene
(Aggiornato il 18 Agosto ore 9,30)
Erano “solo” banditi ma se si fosse trattato di terroristi il rischio per i nostri militari a Tripoli sarebbe stato ben diverso. Ieri mattina intorno alle 7 un gruppo di uomini armati di kalashnikov è penetrato nella base degli istruttori militari italiani che addestrano le forze di sicurezza libiche. Malviventi che si sono limitati a razziare telefoni cellulari, oggetti fi valore e due automobili blindate utilizzate dai cento istruttori militari dell’Operazione Cirene, varata a Bengasi durante il conflitto come consulenza italiana alle forze ribelli e consolidatasi poi a Tripoli all’indomani della caduta del regime di Gheddafi per istruire le nuove forze di sicurezza locali.
La Difesa ha reso nota la notizia solo dopo le 20 di ieri sera, quando era già trapelata con uno scarno comunicato dal titolo un po’ fuorviante “Operazione recupero materiale trafugato”. La nota della Difesa informa che “alcuni malviventi armati si sono introdotti negli uffici in uso alla nostra missione militare di cooperazione e addestramento con le forze di sicurezza libiche, sottraendo vario materiale ed allontanandosi a bordo di due autovetture utilizzate dalla missione. Il pronto intervento delle forze di sicurezza libiche in coordinamento con il nostro personale ha consentito di individuare e fermare gli autori della rapina e di recuperare il materiale sottratto.”
Quanto accaduto si presta però a ben altre valutazioni che nulla hanno a che fare con “il pronto intervento delle forze di sicurezza libiche”. I militari italiani a Tripoli vivono e lavorano infatti in condizioni di sicurezza difficili a causa della situazione in Libia con l’aggravante di essere costretti a operare disarmati. Non è un caso che l’Operazione Cirene sia tra le missioni all’estero memo pubblicizzate benché sia attiva da due anni e sia stata finanziata per i primi nove mesi di quest’anno con 7,5 milioni di euro. Secondo fonti sentite da Analisi Difesa gli istruttori, per lo più di Carabinieri ed Esercito, vivono in un complesso di quattro costruzioni (non ancora pienamente utilizzate) privo di protezioni contro autobombe e difesa solo da guardie private libiche. Uomini armati ma poco affidabili se gli uomini armati sono potuti entrare e uscire impunemente dalla base senza venire bloccati né contrastati. Il fatto che i militari dell’Operazione Cirene (che non hanno abncora raggiunto i 100 effettivi previsti) non possano provvedere da soli alla sicurezza personale e della loro base non costituisce solo un limite operativo ma anche una minaccia concreta in un Paese dominato da bande armate, milizie tribali e gruppi terroristici islamici. Secondo alcune voci dopo il raid dei banditi gli istruttori italiani sarebbero stati trasferiti in un’area più sicura, forse all’interno dell’ambasciata presidiata dagli unici unici militari italiani armati in Libia, i carabinieri paracadutisti del reggimento “Tuscania” . Gli istruttori invece sono disarmati in base all’accordo stipulato dopo il conflitto civile con il governo provvisorio libico (CNT) che non ha mai accettato la presenza di soldati stranieri armati sul suolo libico. Una condizione inaccettabile se si considera il rischio di attentati terroristici e l’interesse delle milizie qaediste a uccidere o sequestrare occidentali, meglio ancora se militari.
La minaccia è così tangibile in Libia che la Nato, pur approvando il piano per addestrare le reclute libiche di esercito e polizia ha deciso di farlo all’estero per non mettere a rischio gli istruttori. Una precauzione dettata forse dall’esperienza dei “green on blue” in Afghanistan (le reclute afghane che sparano ai loro istruttori occidentali) e che ha portato Gran Bretagna, Italia, Francia e Stati Uniti a stabilire di addestrare fuori dalla Libia 19.500 reclute, 5 mila delle quali dovrebbero venire in Italia anche se indiscrezioni riferiscono che il numero di reclute è stato ridotto a un più gestibile 1.500 unità.
I Paesi coinvolti puntano non solo a stabilizzare la Libia ma anche ad aggiudicarsi il business delle commesse militari necessarie a equipaggiare le forze di Tripoli oggi prive di aeronautica e marina e con un esercito allo stadio embrionale al quale Roma ha già fornito blindati Puma, uniformi ed equipaggiamenti. In prospettiva un giro d’affari miliardario (se la Libia non collasserà diventando un’altra Somalia) che impone anche all’Italia di essere presente nel Paese ma che non giustifica l’impossibilità di difendersi dei nostri militari. Roma del resto ha assunto recentemente un impegno politico e militare a lungo termine in Libia accettando la richiesta di Washington di sostenere e stabilizzare la Libia.
La pretesa di Tripoli di mantenere disarmati gli istruttori italiani stride con il diritto all’autodifesa garantito in tutte le missioni militari e con l’aggravarsi della situazione politica e sociale in tutta la Libia e soprattutto nella capitale dove centinaia di soldati presidiano il centro città. Nel Paese si stima vi siano almeno 200 mila miliziani armati ai quali si aggiunge una criminalità dilagante dovuta anche ai 14 mila malviventi evasi dalle carceri durante la guerra del 2011 e ancora a piede libero più altri 1.200 evasi il 26 luglio dal carcere di Bengasi.
La precarietà e l’inefficienza delle istituzioni libiche, che hanno perso il controllo di gran parte del Paese, ha impedito finora di stipulare un accordo bilaterale più completo tra Tripoli e Roma che garantisca più sicurezza agli istruttori italiani. Di fatto mancano in Libia interlocutori credibili anche a causa dei frequenti rimpasti dei vertici politici e militari. A inizio agosto si è insediato il nuovo ministro della Difesa, Abdallah al-Thani, che ha preso il posto di Mohammed al-Bargathi, sollevato dall’incarico in seguito a violenti scontri avvenuti a Tripoli in giugno. Pochi giorni prima il colonnello Abdulsalam al-Obaidi era stato nominato generale di divisione e posto alla testa delle forze armate al posto del generale Salem Gnaidi, rimosso per aver fallito nel tentativo di sviluppare forze armate credibili e ferito subito dopo in un agguato nel centro di Tripoli. Pressioni tribali e la legge che impedisce di ricoprire cariche pubbliche a chi ha avuto incarichi durante il regime di Gheddafi contribuiscono a far scivolare la Libia verso l’anarchia. Anche per questo molti Paesi hanno iniziato a trasferire le ambasciate alla periferia di Tripoli, in un’area che potrebbe diventare una sorta di “green zione”, come quelle di Baghdad e Kabul, più facilmente difendibile da attacchi e attentati.
Gianandrea GaianiVedi tutti gli articoli
Giornalista bolognese, laureato in Storia Contemporanea, dal 1988 si occupa di analisi storico-strategiche, studio dei conflitti e reportage dai teatri di guerra. Dal 1991 al 2014 ha seguito sul campo i conflitti nei Balcani, Somalia, Iraq, Afghanistan, Sahara Occidentale, Mozambico e Sahel. Dal febbraio 2000 dirige Analisi Difesa. Ha collaborato o collabora con quotidiani e settimanali, università e istituti di formazione militari ed è opinionista per reti TV e radiofoniche. Ha scritto diversi libri tra cui "Iraq Afghanistan, guerre di pace italiane", “Immigrazione, la grande farsa umanitaria” e "L'ultima guerra contro l’Europa". Presso il Ministero dell’Interno ha ricoperto dal 2018 l’incarico di Consigliere per le politiche di sicurezza di due ministri e un sottosegretario.