Siria: i gas infittiscono la nebbia della guerra

di Massimo Amorosi

Ieri Halabja, oggi i sobborghi orientali di Damasco. Almeno così sembra essere dalle scene raccapriccianti trasmesse dai filmati che hanno fatto circolare i ribelli. Le persone colpite dall’attacco mostrano chiari segni di avvelenamento per asfissia (senza alcuna ferita esterna), ma il fatto che i medici non accusino alcun sintomo lascia aperta l’ipotesi che non sia stato utilizzato un agente nervino tradizionale. Ossia potrebbe non trattarsi di sarin puro convertito per usi bellici come qualcuno ha detto, bensì di un agente chimico diluito in qualche forma prima dell’uso o più probabilmente di un potente agente antisommossa, che disperso in ambienti ristretti potrebbe avere effetti letali piuttosto che solo incapacitanti. In ogni caso, i filmati difficilmente potrebbero essere stati “fabbricati” ad arte e ad uso e consumo dell’opinione pubblica internazionale.
Per sgomberare il campo da dubbi circa l’attribuzione di responsabilità è forse più importante guardare al vettore utilizzato piuttosto che all’agente chimico specifico. Se, come sembra da diverse testimonianze, l’attacco chimico fosse stato condotto facendo uso dell’aviazione la mano non può che essere del regime di Basshar al-Asad. Risulta essere ancora in condizioni di volare un certo numero di caccia Mig-23BN e di velivoli Su-24 e Su-22. Armamento chimico potrebbe però essere lanciato anche da razzi di artiglieria, dispersi su tutto il territorio siriano e verosimilmente sui quali il regime potrebbe non avere pieno controllo. Sia come sia, la natura chimica di un attacco è senza dubbio rilevabile con strumentazioni laser, il che fa ritenere che non può essere passata inosservata.

E qui veniamo alla questione critica di chi ha il comando dell’arsenale chimico in Siria. L’offensiva potrebbe essere stata autorizzata da un comandante locale senza aver informato i vertici del governo, su sua iniziativa o perché “corrotto” da chi può avere interesse ad un precipitare della situazione. Scenario plausibile seppur improbabile. Solo le unità più leali al regime sono incaricate della sicurezza e del dispiegamento delle armi non convenzionali. La struttura di comando dell’arsenale missilistico e chimico sarebbe cambiata almeno due volte dal marzo 2011, ma dovrebbe essere ancora saldamente sotto il controllo di Bashar Assad e del capo del consiglio di sicurezza nazionale. Tuttavia, il contesto bellico di estrema volatilità suggerisce prudenza.
L’ipotesi di un incidente non sta invece in piedi. Le aree colpite sono prevalentemente residenziali e non vi sarebbero impianti chimici, elettrici e industriali nella zona né importanti basi o installazioni militari. Una tale quantità di vittime non potrebbe quindi essere il risultato di un’offensiva convenzionale che può aver preso a bersaglio per errore una di queste strutture. Secondo Human Rights Watch, sarebbe identificabile un solo impianto farmaceutico, Tameco Pharmaceutical, ma si trova a più di 2 km a sud di Ayn Tarma, una delle località attaccate: non potrebbe dunque essere la fonte di un rilascio accidentale di sostanze chimiche.

La tempistica dell’attacco lascia comunque molto perplessi e solleva una serie di interrogativi. Agli ispettori delle Nazioni Unite è stato garantito l’accesso in Siria da solo pochi giorni e il loro mandato prevede di verificare se vi sia stato un ricorso alle armi chimiche cinque mesi fa in tre separati episodi. Perché il rais siriano dovrebbe rischiare di precipitare un intervento armato internazionale quando non si trova affatto nella condizione di chi non ha nulla da perdere? A caldeggiare da subito una risposta dura è stata, com’è noto, la Francia attraverso il ministro Fabius. D’altronde, Bashar è ancora in sella nonostante il perdurare del conflitto e le forze governative appaiono tutt’altro che allo sbando. Un tale suicidio politico è strategicamente inspiegabile.

Non sembra credibile neppure che il regime possa consentire agli ispettori di recarsi nelle aree colpite il 21 agosto scorso in quanto questi sarebbero nelle condizioni di accertare se vi è stato effettivamente un attacco e quali specifici agenti sono stati utilizzati. Del team fanno parte esperti dell’Organizzazione per la Proibizione delle Armi Chimiche (OPCW), dell’OMS e delle Nazioni Unite, guidati da Ake Sellstrom, diplomatico svedese specializzato in controllo degli armamenti. Tracce potrebbero essere ancora presenti nel suolo o negli edifici circostanti, così come frammenti di proiettili o munizioni inesplose, ma potrebbero non essere più disponibili trascorse le prime 48 ore. Il che implica che dopo venerdì 23 i dubbi potrebbero aumentare. Il Consiglio di Sicurezza dell’ONU potrebbe dare agli ispettori il mandato di effettuare opportune verifiche, ma ciò sarebbe possibile solo con una risoluzione, che si scontrerebbe però con il muro di Mosca. Se questo fosse il corso degli eventi, il regime alawita ne uscirebbe rafforzato, con la conseguenza di fiaccare ulteriormente il morale della popolazione nonché dell’opposizione. Già in passato, il presidente siriano si è servito di missili Scud per colpire aree civili, senza provocare una reazione muscolare dell’Occidente e sorprende che Assad possa aver optato per una mossa a così alto rischio.

In questo contesto fluido, non manca chi vorrebbe chiudere la partita con il regime siriano e potrebbe quindi beneficiare degli ultimi eventi. In testa, vi è l’Arabia Saudita, già impegnata a dare il sostegno necessario ai generali egiziani per neutralizzare la Fratellanza Musulmana nel Paese nordafricano e non a caso in prima fila nel condannare l’attacco chimico in Siria chiedendo che sia fatta piena luce. I ribelli nel sud della Siria hanno già fatto uso di nuovi missili guidati anticarro di provenienza russa forniti da Riyad attraverso la Giordania. A fare pressione su Amman per far giungere all’opposizione lanciarazzi e altri equipaggiamenti è stato il principe Salman bin Sultan, nipote di re Abdullah e con un ruolo di primo piano per le questioni della sicurezza. L’offensiva con armi chimiche sarebbe avvenuta proprio all’indomani della prima incursione nel sud del Paese partita dal Regno Hashemita lo scorso 17 agosto. La strage del successivo 21 agosto potrebbe alla fine essere funzionale agli interessi degli insorti e dei loro sponsor esteri, così com’è stato in alcuni precedenti episodi, nel tentativo di spingere nell’angolo il regime e sollecitare un’azione “umanitaria” internazionale. Ma la nebbia della guerra in Siria è ancora troppo fitta per giungere a conclusioni.

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