F-35: la Norvegia “divorzia” dall’Italia?

Con gli Stati Uniti pronti a dar seguito – al Congresso piacendo – al pianificato attacco aereo sulla Siria, nel caso la strada aperta dall’iniziativa diplomatica di Mosca si rivelasse impraticabile (campagna aerea col prevedibile corollario dei “moralmente scorretti” killeraggi coi drone e dei loro tragici effetti sulla popolazione civile visti in Afghanistan e Pakistan), nelle retrovie la NATO continua a lavorare ai futuri assetti del suo Air Power. Al centro dell’attenzione c’è manco a dirlo il Joint Strike Fighter americano, la cui organizzazione di supporto tecnico-operativo comincia a muovere i primi passi anche al di qua dell’Atlantico, sempre e comunque in un’ottica “joint”. L’ultima notizia, una notizia non buona per l’Italia, arriva dalla Norvegia. Secondo quanto riportato da Defense News, la settimana prima delle elezioni per il nuovo Parlamento il responsabile del procurement militare del Governo di Oslo si è incontrato con l’omologo britannico per gettare le basi di una collaborazione bilaterale fra la Gran Bretagna e il paese scandinavo per la manutenzione e il sustainment delle loro flotte di F-35, da estendere poi all’addestramento di piloti e specialisti. Due dei cinque partner europei del programma JSF decidono insomma di mettere a fattor comune le loro risorse in una logica “pooling and sharing” ispirata al contenimento dei costi di esercizio di questi aeroplani, anche attraverso un coinvolgimento diretto delle rispettive industrie.

La nota di Defense News non cita però un particolare importante, e cioè che la Norvegia s’era già accordata a suo tempo con l’Italia. Il nostro paese ha investito circa 800 milioni di euro in una catena di montaggio (gli ultimi pagamenti sono attesi per fine 2014) con la dichiarata volontà di trasformarla poi – non senza ulteriori opportuni oneri finanziari – in un grande hub europeo per il ben più cospicuo business della manutenzione, del sostegno tecnico-logistico e dei progressivi upgrade delle flotte continentali e addirittura “mediterranee” di F-35. Tanto per dare un’idea, i processi di upgrade del Joint Strike Fighter richiederanno interventi biennali sull’hardware alternati ad altri al software – un anno i primi, l’anno dopo i secondi – e interventi quadriennali per entrambi. Proprio la Norvegia e prima ancora l’Olanda sono stati i partner con cui l’Italia  ha firmato per tempo (rispettivamente nel 2007 e 2006) accordi bilaterali di collaborazione con un “documento predisposto per accogliere l’adesione di altri paesi europei partecipanti al programma”, come recita il “Programma pluriennale a/R n.SMD02/2009 relativo all’acquisto del JSF” approvato dalle Camere nel 2009. Che fine faranno adesso quegli accordi? Vale ancora l’agreement con il Governo di Oslo per un impegno comune nel sostegno logistico di questi nuovi aerei da combattimento, oppure il Memorandum di ormai sei anni fa non era tanto vincolante da impedire alla Norvegia di decidere di rivolgersi invece alla più vicina e militarmente/ambientalmente affine Gran Bretagna? E poi, a questo punto, che ne sarà dell’intesa con l’Olanda, che prevede prima ancora la produzione nel novarese dei suoi JSF, ma la cui decisione definitiva sull’acquisito degli strike statunitensi è attesa solo fra due anni?

I futuri impianti Repair, Overhaul and Upgrade (MRO&U) di Cameri sono lo snodo cruciale della nostra partecipazione al programma statunitense, e la girata di spalle dei norvegesi non è certo il viatico migliore. Le attività MRO&U avranno una valenza economica maggiore di quelle manifatturiere, ma soprattutto dovrebbero portare più o meno direttamente ai ritorni di know-how tecnologico negati alle industrie che partecipano alla produzione con la mera fornitura di parti dell’aereo. Oltre a Gran Bretagna e Norvegia restano solo altri due “soci” F-35 come possibili fruitori delle nostre facilities MRO&U, la già ricordata Olanda e la Danimarca. La seconda deciderà solamente nel 2015 se acquistare l’aereo americano o in alternativa il Super Hornet, il Typhoon o il Gripen New Generation; in ogni caso Copenhagen ha già deciso che sceglierà tout court la soluzione che le avrà garantito il maggior ritorno occupazionale. Posto che decida per il JSF, dovrà comunque occuparsi del suo sustainment solo a partire dalla fine del decennio.

Lo stesso discorso e le stesse scadenze valgono anche per le forze aeree olandesi, tentate come forse quelle danesi di seguire la stessa strada imboccata dalla cugina Norvegia (paesi questi – con l’aggiunta del Belgio – già in comunella da decenni per aver tutti acquistato l’F-16). Restano i due utilizzatori mediterranei, il partner di 3° livello Turchia e il semplice (si fa per dire) cliente Israele. Gerusalemme ha ottenuto ritorni industriali (produzione di almeno 800 ali) non secondi a quelli concessi al partner di 2° livello Italia, ma soprattutto, ed eccezionalmente, la possibilità di “israelizzare” i suoi F-35 con apparati di concezione nazionale. E’ difficile immaginare la Heyl Ha’ Avir che spedisce in provincia di Novara i suoi F-35 mettendoli in mano a tecnici che quei sistemi non possono nemmeno conoscere. Quanto alla Turchia, dal nostro Segretariato Generale della Difesa/Direzione Nazionale Armamenti non è più trapelato nulla circa una possibile collaborazione fra Roma e Ankara tanto nelle attività manifatturiere quanto in quelle del sustainment. Tra l’altro Ankara e Gerusalemme anche se a fatica stanno riavvicinandosi, e non si può escludere che la tradizionale collaborazione in campo aeronautico fra i due paesi possa riprendere; dipenderà in gran parte dai nuovi scenari geopolitici e militari che potrebbero aprirsi nel breve e medio periodo con una possibile nuova guerra alle loro frontiere.

 Il tira e molla dei costi del “sustainment”
Fare i conti senza l’oste è sempre assai rischioso, soprattutto quando l’osteria è turbolenta. Fra meno di due anni Londra deciderà quanti altri JSF acquistare oltre ai primi 48 della versione STOVL, la prima tranche dei quali (12-14 esemplari per il 617° Squadron RAF, quello che distrusse le dighe della Ruhr) dovrebbe essere messa sotto contratto entro Capodanno. Ma la Royal Air Force, che a breve resterà a corto di Tornado, e la Royal Navy, che conta di tenere tutte e due le sue nuove portaerei, hanno fiducia che si possa di tornare all’impegno di acquisto iniziale di 138 aeroplani. Un numero che confermerebbe quella britannica come la flotta europea di JSF più consistente, oltreché quella che si costituirà più rapidamente: il Ministry of Defence intende ordinare tutti i 48 F-35B entro il 2020, mentre da Roma per quella data saranno partiti meno della metà di quegli ordini. A quel punto, il Cielo non volesse, le “azioni” dei futuri impianti tecnici di Cameri scenderebbero inesorabilmente.
Intanto il Canada ha rivisto al rialzo le stime dei costi di acquisizione e impiego nell’arco di 36 anni dei suoi previsti 65 F-35 a decollo convenzionale: nell’ipotesi peggiore – cambi sfavorevoli dollaro canadese/dollaro USA e maggiori costi unitari per la mancata produzione da parte di Lockheed di 250 aerei proprio negli anni del procurement canadese – ammonterebbero a 71 miliardi di dollari, 25 più delle stime precedenti. Aumenti rilevanti anche per i costi operativi, che con un amento dell’inflazione solo dell’uno per cento rispetto a quella considerata nelle stime odierne del Ministero della difesa di Ottawa, si attesterebbero sui 19,8 miliardi di dollari, 5,4 in più.

Ci sono però diversi fattori che rendono aleatori i calcoli del cosiddetto Life-cycle cost degli aerei da combattimento. Intanto dipendono da quanto si fanno volare gli aerei, con quali configurazioni, in quali ambienti operativi, e questo vale soprattutto nel caso di sistemi di gestione della manutenzione e del sostegno logistico basati, come nel caso dell’F-35 e pure dell’Eurofighter, sul principio dell’acquisto di “pacchetti” di forniture basati sulle prestazioni operative che vengono messe a budget dalla forza aerea utilizzatrice. Nel caso del Joint Strike Fighter entra poi in gioco un’altra variabile fondamentale: il suo particolarissimo sistema logistico. Ebbene, report di sole poche settimane fa dicono che il famoso ALIS non funziona a dovere, né al livello di software né a quello di hardware. Tuttavia quest’estate il Pentagono, fatti i conti con le decine di JSF già in operazioni, ha annunciato stime al ribasso del Life-cycle cost del suo nuovo strike. Domanda: ma se il sistema che più d’ogni altro e per sua stessa concezione dovrebbe contribuire a tenere basse le spese di mantenimento di questo aeroplano non funziona, come è possibile… stimare così bene il Joint Strike Fighter?

Silvio Lora LamiaVedi tutti gli articoli

Nato a Mlano nel 1951, è giornalista professionista dal 1986. Dal 1973 al 1982 ha curato presso la Fabbri Editori la redazione di opere enciclopediche a carattere storico-militare (Storia dell'Aviazione, Storia della Marina, Stororia dei mezzi corazzati, La Seconda Guerra Mondiale di Enzo Biagi). Varie collaborazioni con riviste specializzate. Dal 1983 al 2010 ha lavorato al mensile Volare, che ha anche diretto per qualche tempo. Pubblicati "Monografie Aeree, Aermacchi MB.326" (Intergest) e con altri autori "Il respiro del cielo" (Aero Club d'Italia). Continua a occuparsi di Aviazione e Difesa.

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