La protezione delle infrastrutture critiche
È noto che già Platone intorno al IV secolo a.c. – nell’opera della sua maturità “Repubblica” (così nella traduzione latina, ma è parola di origine greca e significa Stato) – affidava ai guerrieri (o custodi) il compito della difesa dello Stato. Un ente a proposito del quale per molti secoli filosofi e trattatisti hanno indagato e litigato per dare una spiegazione alla sua origine; differente orientamento, però, è stato tenuto per le questioni inerenti la sua sicurezza e la sua conservazione, per la quale i pensatori hanno concordato nel ritenerle fra i principali elementi del suo fondamento e della sua sopravvivenza. Prima di pervenire ai prodromi dello Stato di diritto, meglio delineatosi nel corso del XVIII secolo, il tema dello Stato e della sua organizzazione – inserito nella più ampia indagine svolta dalla filosofia e dalla scienza giuridica – fu posto al centro della speculazione politica del Seicento, quando si elaborò nel seno delle dispute interne alla dottrina giusnaturalistica la dottrina dello Stato moderno.
La sicurezza di allora – o meglio, lo “spirito di conservazione”, la facoltà di compiere quelle azioni utili a mantenere in vita l’uomo, che sarà poi riassunto nello Stato – era strettamente correlato all’evoluzione della filosofia del diritto e delle stesse dottrine politiche, cui il concetto di Stato ne rappresenterà la diretta espressione. La riflessione dell’inglese Thomas Hobbes, nella seconda parte del XVII secolo, mostra come lo spirito di conservazione fosse divenuto la causa per uscire dallo “stato di natura”, ossia da quella fase primordiale e probabilmente solo ipotetica nella quale l’uomo – solitario, egoista e in balìa delle passioni – viveva la condizione di “homo homini lupus”. In quella dimensione egli riteneva che ciascuno avesse una proprietà potenziale su tutte le cose, non essendovi alcun limite al diritto di ciascuno. Il fatto che ognuno avesse il diritto di fare ciò che avrebbe potuto contribuire a preservare la propria conservazione – che avesse uno “ius” su tutto ciò che avrebbe potuto soddisfare quell’esigenza – era come dire che il criterio del diritto fosse l’utilità. E tale era il pensiero di Hobbes: “Il diritto è ciò che è utile”.
Posta quindi l’utilità come criterio del diritto l’unica scelta obbligata, per uscire da una condizione di guerra di tutti contro tutti, era lo Stato – ottenuto mediante il contratto sociale, strumento già apparso almeno in altre intuizioni di pensatori molto risalenti – perché “il singolo è cittadino e al di fuori della compagine statale egli tornerebbe nella condizione primitiva di belva”. Da parte sua il filosofo inglese ne fissò le finalità e tra queste troviamo la difesa dall’esterno, la conservazione della pace e l’interessamento alla pubblica economia. La lotta fra gli uomini, l’impulso passionale e soprattutto lo spirito di conservazione che ne costituiva il presupposto, si ravvisa anche nel pensiero di Benedetto Spinoza, altro filosofo, tedesco, contemporaneo di Hobbes; ma egli lo fonda sulla ragione e addirittura intenderà l’uomo “tanto più libero quanto più segua la legge della propria conservazione”. L’approdo allo Stato Spinoza non lo imputa al contratto sociale ma lo ritiene risultato della ragione; organismo non oppressivo ma “ente razionale perché fondato su un motivo razionale come quello specifico della conservazione dell’uomo”.
Nel corso dello stesso secolo, ancora ispirato al “principio di conservazione” e di “utilità”, s’ipotizzò addirittura lo Stato “perfetto” mediante il “pactum subiectionis”. Concetto introdotto ancora da un pensatore tedesco, Samuel Pufendorf, riguardante il reciproco dovere fra cittadino e sovrano, al quale ultimo era demandato il compito di “prendersi cura della sicurezza e della conservazione comune”, così come “i cittadini hanno il diritto che sia assicurata loro la pace e la sicurezza”. Queste concezioni, com’è noto, nacquero dalla cruenta esperienza delle guerre religiose del Cinquecento e del Seicento; anche il fondamento del potere dello Stato subì profonda rielaborazione teorica, che sostituì alla visione dogmatica e fideistica una concezione tecnica e disincantata, intesa come ordine interno ed esterno necessario a garantire la sicurezza e la tranquillità dei sudditi. L’esigenza di avere un esercito permanente rese necessario un flusso costante di entrate, che solo un’estesa e ferrea fiscalità poteva assicurare e che solo un’amministrazione ben organizzata poteva controllare. L’unico limite fu posto nella prima metà dell’Ottocento dalla feconda nozione riguardante i limiti dello Stato, introdotta dal pensiero liberale rappresentato in quel tempo da Wilhelm von Humbold; anch’esso filosofo e tedesco: lo Stato avrebbe dovuto astenersi da ogni intervento che non fosse indispensabile alla sicurezza dei cittadini o alla difesa contro i nemici esterni, evitando intromissioni o interferenze nella sfera privata.
Sul tema dei rapporti internazionali e della sicurezza esterna dello Stato si affaccia prepotentemente la figura del giurista Hugo Grozio; egli perfeziona un sistema che affida al principio pattizio e alle consuetudini la definizione dei rapporti internazionali. Sostenitore della tesi che il mare non potesse essere soggetto al dominio diretto di nessun Stato, il giurista e scienziato olandese si pose il problema del diritto di guerra e dei rapporti giuridici tra gli Stati. Distinse il diritto dalla forza, dichiarandolo non espressione di quest’ultima ma a essa superiore: “La loro relazione è semmai nel fatto che il diritto ha bisogno della forza per essere realizzato, e la sua dimensione non è solo statale (il diritto civile) ma c’è anche un diritto più ampio e questo è l’ordinamento internazionale”. Spostando l’attenzione ai nostri giorni possiamo ritenere che quelle ragioni non siano cessate; quel filo storico della sicurezza interna ed esterna fornisce ancora alimento all’habitus dell’uomo e al suo Stato; possiamo affermare con convinzione che, da allora, non sia cambiato un gran che. È naturale che nell’attuale Stato di diritto quel valore di sicurezza, di “conservazione”, di articolate “utilità”, mantenga la gran parte delle antiche motivazioni.
Esso è oggi riassunto nell’imprevedibilità di un mondo che impone situazioni di conflitto intermittenti e spesso imprevedibili, ciascuna con la sua complessità, la sua asimmetria e il suo carico di rischio non trasferibile; conflitti internazionali quasi incancreniti, attentati terroristici, rabberciate minacce nucleari; “primavere” di radice berbera e violente “autodeterminazioni”; crisi economiche e politiche di molti altri paesi orfani di un benessere dissolto o sfuggevolmente lambito. Queste costanti permeano la cosiddetta società globale e sono espresse e declinate con le consuete categorie politiche, economiche e finanziarie, e soprattutto tecnologiche. Di tali aspetti se ne accentuano i tratti internazionali, cui consegue l’emanazione del relativo diritto a scopo di contromisura e di più ampia tutela. Per renderci conto della dipendenza dal “fattore sicurezza” possiamo scegliere un paradigma che proietti con immediatezza la dimensione di questo bisogno. E il paradigma – che si presenta a commisurarci il desiderio di prospettiva, il bisogno di futuro – lo possiamo scegliere nell’ambito di un tipo di diritto sparso negli istituti giuridici concordati, misure per un governo del “complicato meccanismo di complessità” che si accredita con il nome di “infrastrutture critiche”.
Un’esemplificazione, questa, della dimensione empirica delle interdipendenze del XXI secolo; tappa del divenire storico della vita dei consociati; misura della sicurezza dello Stato e della Comunità internazionale cui esso appartiene.
La traduzione in senso giuridico applicativo di tutto ciò è offerta dai provvedimenti internazionali e nazionali posti a presidio delle nostre preziose “utilità”. Occorre perciò avviare la nostra breve rassegna dalla Risoluzione ONU n. 58/199, relativa alla “Creation of a global culture of cybersecurity and the protection of critical information infrastructures”, deliberata una decina di anni fa (23 dicembre 2003) dall’Assemblea Generale della maggiore organizzazione sovranazionale.
Andando a ritroso si potrebbe insistere consultando anche gli atti dei vertici degli Stati e trovare i “G8 Principles for Protecting Critical Information Infrastructures”, adottati a Parigi dai Ministri degli Interni e della Giustizia dei Paesi del G8 nella riunione ONU del 5 maggio del 2003; oppure osare fin oltre oceano e sfidare la potenza infinita: negli Stati Uniti, ad esempio, è operante il potente “Department of Homeland Security“, coordinatore di tutto ciò che riguardi la protezione delle infrastrutture critiche.
Esso ha incorporato molte strutture e agenzie che già operavano nel settore come il “Critical Infrastructure Assurance Office (CIAO)” – struttura interministeriale con il compito di coordinare, stimolare e supportare tutte le azioni mirate alla tutela delle infrastrutture critiche americane – e il “National Infrastructure Protection Center (NIPC)“, struttura interna al “Federal Bureau of Investigation”.
Se invece scegliamo di aprire una finestra sull’Unione Europea, si riscontra che le iniziative ufficiali sono partite nel 2001 per merito della Commissione, con la definizione di un approccio europeo alla sicurezza delle reti e dell’informazione (COM (2001) 298). Questa iniziativa, verso la fine del 2003, ha dato luogo alla costituzione dell’European Network & Information Security Agency (ENISA) e nell’ottobre 2004 – grazie alla stretta collaborazione con il Consiglio europeo – all’adozione di una comunicazione riguardante “La protezione delle infrastrutture critiche nella lotta contro il terrorismo” e contenente “proposte chiare per incrementare la prevenzione, la preparazione e la risposta in caso di attentati terroristici che coinvolgono le infrastrutture critiche”.
Le intenzioni della Commissione appena descritte portano successivamente il Consiglio, nel dicembre dello stesso anno, ad appoggiarne il programma europeo (European Programme for Critical Infrastructure Protection – EPCIP), e alla costituzione di una rete informativa di allarme a supporto degli Stati membri (Critical infrastructure Warning Information Network – CIWIN).
Sono queste le principali premesse al Libro verde (COM (2005) 576) pubblicato a distanza di un anno, il 17 novembre 2005, e “relativo a un programma europeo per la protezione delle infrastrutture critiche”. Con questo documento la Commissione delle Comunità Europee si prefigge lo scopo “di raccogliere indicazioni utili sulle diverse alternative strategiche possibili in materia di EPCIP coinvolgendo una gran parte di coloro che operano in tale settore. Un’efficace protezione delle infrastrutture critiche richiede che vi siano comunicazione, coordinamento e cooperazione a livello nazionale e dell’UE tra tutte le parti interessate – i proprietari e i gestori delle infrastrutture critiche, le autorità di regolamentazione, le associazioni professionali e industriali in cooperazione con i diversi livelli del settore pubblico e con il settore privato”.
L’attesa che conseguiva a questa iniziativa poggiava sull’aspettativa di ricevere “concrete indicazioni circa le alternative strategiche esposte” e sulla base dei risultati delle consultazioni la Commissione avrebbe di conseguenza “messo a punto nel corso del 2006 un pacchetto sulla politica in materia di EPCIP”.
Le ragioni di quest’ultimo obiettivo erano tese a:
1. garantire la presenza di “livelli adeguati e omogenei di sicurezza nella protezione delle infrastrutture critiche, punti deboli individuali minimi e sistemi di reazione rapida già sperimentati in tutta l’Unione”;
2. essere “un processo in continua evoluzione sottoposto a riesame periodico per restare al passo con i nuovi problemi e preoccupazioni”;
3. “ridurre al minimo le conseguenze negative che maggiori investimenti nella sicurezza potrebbero avere sulla competitività di una determinata impresa”.
Per raggiungere un’aggiornata definizione d’infrastruttura critica è ancora necessario tributare la nostra attenzione a una radice europea che giungerà sette anni dopo. Si tratta della “direttiva 2008/114/CE del Consiglio”, che distingue due significati:
a) “«infrastruttura critica» un elemento, un sistema o parte di questo ubicato negli Stati membri che è essenziale per il mantenimento delle funzioni vitali della società, della salute, della sicurezza e del benessere economico e sociale dei cittadini ed il cui danneggiamento o la cui distruzione avrebbe un impatto significativo in uno Stato membro a causa dell’impossibilità di mantenere tali funzioni;”
b) “«infrastruttura critica europea» o «ECI» un’infrastruttura critica ubicata negli Stati membri il cui danneggiamento o la cui distruzione avrebbe un significativo impatto su almeno due Stati membri. La rilevanza dell’impatto è valutata in termini intersettoriali. Sono compresi gli effetti derivanti da dipendenze intersettoriali in relazione ad altri tipi di infrastrutture;”.
Queste definizioni si riassumono in una sequenza di effetti causata da un evento dannoso che può rimanere circoscritta ai confini nazionali, oppure trasmettere il “contagio” ad altro Stato in virtù delle citate “dipendenze intersettoriali in relazione ad altri tipi di infrastrutture”.
Anche per questo merita attenzione un ultimo aspetto della direttiva, che completa i punti di nostro interesse. Il riferimento riguarda la definizione delle informazioni sensibili e la loro gestione.
Le prime sono definite come “i fatti relativi a un’infrastruttura critica che, se divulgati, potrebbero essere usati per pianificare ed eseguire azioni tali da comportare il danneggiamento o la distruzione di installazioni di infrastrutture critiche”.
La seconda è organizzata nel modo che “ciascun Stato membro mette in atto un idoneo meccanismo di comunicazione tra l’autorità nazionale competente e il funzionario di collegamento in materia di sicurezza o uno equivalente, al fine di scambiare informazioni utili relative ai rischi e alle minacce individuati riguardo alla ECI interessata. Questo meccanismo di comunicazione non pregiudica i requisiti nazionali in materia di accesso alle informazioni sensibili e classificate. Si considera che l’osservanza delle misure … equivalga a soddisfare tutti i requisiti imposti agli Stati membri dal presente articolo o adottati in virtù di questo … ”.
Conclusa questa breve rassegna, sospesa tra il vortice della storia e della cronaca giuridica internazionale, consegue un altro obbligato riferimento a un’appropriata e recente fonte giuridica emanata dalla maggiore Autorità del nostro Paese, cui l’ordinamento demanda il presidio di quanto, in materia strategica, debba essere oggetto di prevenzione.
Il riferimento è all’articolo 39 del “Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri del luglio 2011, n. 4” – (d’ora in avanti DPCM) – nel quale sono individuate le attività industriali di rilievo strategico e quali operatori economici assumano tale rilevanza per la sicurezza nazionale in considerazione dell’oggetto, della tipologia o delle caratteristiche inerenti alla loro attività. Eccole:
“a) attività volte ad assicurare la difesa e la sicurezza dello Stato;
b) attività volte alla produzione o allo sviluppo di tecnologie suscettibili di impiego civile/militare;
c) gestione in concessione di reti e di sistemi di ricetrasmissione ed elaborazione di segnali e/o comunicazioni;
d) gestione in concessione di infrastrutture stradali, ferroviarie, marittime ed aeree;
e) gestione in concessione di reti di produzione, distribuzione e stoccaggio di energia ed altre infrastrutture critiche.”
Quanto precede, mostra molto di ciò da cui dipenda il funzionamento vitale di uno Stato; perimetro che la norma in commento lo compone di “attività” e “gestioni”, dichiarate entrambe strategiche, per estenderne poi la qualifica alla lettera e) dell’enunciato normativo sopra descritto. La disposizione ci offre l’opportunità di analizzare, con riferimenti non troppo risalenti, l’ordinamento nazionale con i consueti collegamenti alla radice europea ove quest’ultima abbia avuto rilievo.
Vediamo allora la composizione di alcune fra le maggiori sentinelle giuridiche nazionali, che costituiscono l’architettura delle contromisure nella sfida quotidiana di minacce e vulnerabilità.
La protezione informatica delle “infrastrutture critiche informatizzate di interesse nazionale” è affidata al Ministero dell’Interno (mediante decreto legge n. 144 del 27 luglio e legge di conversione 31 luglio 2005, n. 155) quale “misura urgente di prevenzione e contrasto del terrorismo”; esattamente venti giorni dopo i gravi eventi terroristici londinesi del 7 luglio. Giova segnalare che questi provvedimenti introducono anche l’aggiornamento di una delicata materia rappresentata dalla disciplina amministrativa degli esplosivi, cui seguiranno due specifici decreti di dettaglio dello stesso Ministero (15 agosto 2005 a firma del Ministro Pisanu e 8 aprile 2008 a firma del Ministro Amato).
A questo primo pilastro si aggiunge una serie di altri provvedimenti fra il gennaio 2008 e il gennaio 2013 con i quali, ma non solo, si bada a perfezionare la contromisura nazionale con la:
1) individuazione delle infrastrutture nazionali da proteggere, e l’istituzione del relativo Centro nazionale anticrimine informatico – (Decreto Ministero Interno 9 gennaio 2008);
2) tutela “da qualsiasi forma di eversione o di terrorismo, nonché di spionaggio, proveniente dall’esterno o dall’interno del territorio nazionale e le relative misure ed apparati di prevenzione e contrasto, nonché la cooperazione in ambito internazionale ai fini di sicurezza, con particolare riferimento al contrasto del terrorismo, della criminalità organizzata e dello spionaggio”. Regolamento, questo, in tema di segreto di stato, nei cui criteri guida erano compresi anche gli “… stabilimenti civili di produzione bellica e gli impianti civili per produzione di energia ed altre infrastrutture critiche” (DPCM 8 aprile 2008);
3) individuazione delle “attribuzioni delle Forze armate e le disposizioni e direttive conseguenti che disciplinano i compiti attinenti alla difesa cibernetica” (Decreto Legislativo 66/2010);
4) istituzione della “Organizzazione nazionale per la gestione di crisi” (DPCM 5 maggio 2010);
5) individuazione e designazione delle “infrastrutture critiche europee e la valutazione della necessità di migliorarne la protezione”. Individuate “ … nei settori dell’energia e dei trasporti, nonché le modalità di valutazione della sicurezza di tali infrastrutture e le relative prescrizioni minime di protezione dalle minacce di origine umana, accidentale e volontaria, tecnologica e dalle catastrofi naturali.”
Il decreto definisce gli effetti negativi dovuti a “perdita di funzionalità, danneggiamento o distruzione di un’infrastruttura” e le relative conseguenze, nonché i criteri di valutazione degli eventi negativi sui “fruitori nazionali, di altro Stato membro ….. o sulle funzioni vitali della società, della salute, della sicurezza e del benessere economico e sociale della popolazione”. Importante, poi, nelle premesse al testo il riferimento alla ”Non Binding Guideline”, facoltative ma con la funzione di “ …to provide guidance to assist Member States with the application of the Directive on the identification and designation of European critical infrastructures and the assessment of the need to improve their protection”. L’ultima annotazione riguarda la tutela delle informazioni sensibili applicate “… alle IC, nonché ai dati ed alle notizie relativi al processo d’individuazione, di designazione e di protezione delle ICE…” alle quali “ … fatte salve le necessità di diffusione, anche preventiva, di notizie e di informazioni verso gli utenti ed i soggetti diversi dal proprietario e dall’operatore dell’infrastruttura, che a qualsiasi titolo prestano attività nell’IC, ai fini della salvaguardia degli stessi … e’ attribuita adeguata classifica di segretezza ai sensi dell’articolo 42 della legge 3 agosto 2007, n. 124, e relative disposizioni attuative”. A proposito dei livelli di classifica il decreto detta infine i criteri di comportamento: “Ove venga attribuita classifica di segretezza superiore a riservato, l’accesso ed il trattamento delle informazioni, dei dati e delle notizie di cui al comma 1 é consentito solo al personale in possesso di adeguato nulla osta di segretezza (NOS) nazionale ed UE, ai sensi dell’articolo 9 della legge 3 agosto 2007, n. 124, relative disposizioni attuative”. Il decreto, facendo riferimento al Regolamento (CE) 1049/2001, dispone infine che “nelle comunicazioni con altri Stati membri e con la Commissione europea, alle informazioni sensibili relative alle IC ed ai dati e notizie che consentono comunque l’identificazione di un’infrastruttura, sono attribuite le classifiche di segretezza UE … ”. (Decreto Legislativo 61/2011);
6) attribuzione al Presidente del Consiglio dei Ministri il compito d’impartire “al Dipartimento delle informazioni per la sicurezza e ai servizi di informazione per la sicurezza direttive per rafforzare le attività di informazione per la protezione delle infrastrutture critiche materiali e immateriali, con particolare riguardo alla protezione cibernetica e alla sicurezza informatica nazionali” e al “Dipartimento delle informazioni per la sicurezza il coordinamento delle attività di ricerca informativa finalizzate a rafforzare la protezione cibernetica e la sicurezza informatica nazionali” (Legge 133/2012);
7) definizione degli “indirizzi per la protezione cibernetica e la sicurezza informatica nazionale”. Necessitò di assicurare in questa materia “un solido e affidabile meccanismo di raccordo tra la politica dell’informazione per la sicurezza e gli altri ambiti di azione che vengono in rilievo nella specifica materia, e di dovere per questo concentrare in un unico organismo interministeriale l’organo di indirizzo politico e di coordinamento strategico nel campo della sicurezza cibernetica ..” e definire all’interno di “un contesto unitario e integrato, “l’architettura istituzionale deputata alla tutela della sicurezza nazionale relativamente alle infrastrutture critiche materiali e immateriali, con particolare riguardo alla protezione cibernetica e alla sicurezza informatica nazionali, indicando a tal fine i compiti affidati a ciascuna componente ed i meccanismi e le procedure da seguire ai fini della riduzione della vulnerabilità, della prevenzione dei rischi, della risposta tempestiva alle aggressioni e del ripristino immediato della funzionalità dei sistemi in caso di crisi.” (DPCM 24 gennaio 2013).
Lo spunto offertoci da filosofi risalenti con i quali si è aperto questo approfondimento ci ha consentito una breve gita nello sterminato paese del rischio “sicurezza”, ossia nella comunità degli Stati dove lo “spirito di conservazione” e le relative “utilità” sono esposti a rischio, e dove l’Italia vi figura partner obbligato.
Esso ci ha indotto a descrivere il quadro degli attori che, da tempo e a vario titolo, sono stati chiamati alla protezione di queste “utilità” contemporanee; ci ha svelato e pure spiegato il “nobile” concetto del “costo-beneficio” con il quale esse sono state presentate, ma il cui sviluppo “filosofico contabile” è apparso spogliato di ogni ambizione innovativa, irrimediabilmente schiacciata sotto l’egida dell’antico “principio di conservazione” e prostrata al fine aristotelico della “felicità e del vivere bene”.
Abbiamo anche iniziato la riflessione riferendoci alla “Repubblica” di Platone, opera nella quale il filosofo non ammetteva la presenza delle leggi, essendo quel suo Stato solo ideale; governato da filosofi la cui virtù era la sapienza, e composto di cittadini altrettanto virtuosi da controllare impulsi e appetiti, tali da renderle inutili.
Come facilmente si comprende esso era uno Stato utopico, quindi antistorico, non riscontrabile nell’esperienza; uno Stato in cui la giustizia era perfezione etica e la cui realizzazione non era affidata alla legge ma all’educazione. La Repubblica platonica è addirittura il prototipo di quegli Stati che, dirà Aristotele, “sono nell’immaginazione di qualcuno, e sembrano perfetti”.
Preziosa coincidenza, questa, offertaci dall’appiglio aristotelico. Sulle questioni dell’uomo infatti egli adotta una prospettiva che non darà come soluzione quella platonica (perfezione assoluta dell’anima e della Società), ma quella della già accennata “felicità e del vivere bene”. Riguardo al problema dello Stato egli non ricorre al metodo “a priori”, deduttivo, con cui Platone traeva dalla contemplazione della verità assoluta i princìpi della condotta umana, ma quello “a posteriori”, empirico, fondato sull’osservazione dell’effettiva realtà storica.
Questo metodo ci suggerisce che la mèta di una comunità di Stati fondata sull’antica virtù “ad alterum” – indicata da San Tommaso traducendo alla lettera l’espressione aristotelica “pròs héteron” – non si concili per niente con la machiavellica ragion di stato che origina la “gran disputa” fra gli Stati stessi, con i loro rispettivi “principi di conservazione” e con le loro “utilità”. Fattori propedeutici e impositivi di un anelito di sicurezza quasi ossessivo, e di cui si è dato conto fin qui.
“Su questi problemi essenziali della nostra età la vittoria è ancora di là da venire. E faremo in tempo a vederla, coi nostri occhi mortali?” Questo era l’interrogativo che si poneva Piero Calamandrei una sessantina d’anni fa sulle questioni europee, sulla pace e sul rischio nucleare; paradigmi, dell’illustre fiorentino, che riassumono sotto altra e più ampia veste l’argomento trattato. L’insigne giurista, con accento quasi kantiano, prefigurava uno strumento irrinunciabile per il cammino dell’uomo e della comunità degli Stati; traccia di un malinconico postulato che ci riporta, nostro malgrado, a ricominciare ogni volta daccapo: “La funzione delle utopie, la funzione degli ideali verso i quali ci si dirige come verso l’arcobaleno che è là alla fine della nuvola, sull’orizzonte, è proprio questa: di aiutarci a camminare in questo duro passaggio attraverso la vita, pur sapendo che quando si arriverà là dove si credeva fosse l’arcobaleno, ritroveremo soltanto un po’ di nebbia; ma l’arcobaleno sarà ancora più in là, e noi continueremo ad inseguirlo senza fermarci”. Queste sue parole, come alcune delle intuizioni dei filosofi risalenti, sono ancora oggi un segno del nostro tempo, della Comunità degli Stati, dei loro sudditi e dei loro cittadini.
Giovanni PaganiVedi tutti gli articoli
Nato a Lucca nel 1955, laureato in Scienze Politiche con specializzazione Internazionale. Ha conseguito certificazioni presso l'Università di Genova e l'Istituto di Chimica degli esplosivi della MMI ("Master in Sicurezza degli esplosivi"), presso l'Università di Bergamo ("Master in Security Management"), presso l'Alta Scuola di Economia e Relazioni Internazionali dell'Università Cattolica di Milano, presso lo Stato Maggiore della Difesa (CIFIGE). Le sue esperienze professionali lo hanno portato a operare presso le aziende Oto Melara, Alenia Marconi Systems e MBDA. E' esperto di sicurezza nei trasporti di materiale bellico e esperto qualificato in ambito AIAD (Associazione Industrie Aerospazio e Difesa) nei settori del Trasporto di Merci pericolose.