Stress da combattimento: dati italiani poco credibili

Con questo articolo ripreso da Il Sole 24 Ore, ci occupiamo del disturbo post-traumatico da stress che colpisce anche i veterani italiani. Un tema che svilupperemo presto in un’ampio articolo che affronterà anche gli aspetti storici e internazionali.

Sono solo 32 i casi censiti di disturbo post-traumatico da stress (Dtds) riscontrati tra i militari italiani in missione all’estero e in particolare nelle aree più calde di Iraq e Afghanistan e 4 i casi di suicidio registrati tra i veterani di guerra. Per la prima volta il Ministero della Difesa rende noti dati ufficiali rispondendo a un’interrogazione del deputato leghista Marco Marcolin pur ammettendo che probabilmente si tratta di numeri sottostimati a causa di mancate segnalazioni e tendenza a nascondere la patologia.  L’Osservatorio Epidemiologico della Difesa ha segnalato 16 casi di Dtds tra il 2007 e il 2010 e altri 16 militari sono stati ricoverati per questo disturbo all’ospedale militare del Celio dopo il rientro dall’Afghanistan, 7 dei quali nel 2012.   Il tema dei traumi psicologici indotti dall’esperienza bellica è molto dibattuto in Gran Bretagna e Stati Uniti, dove c’è una più lunga tradizione di impiego bellico dei reparti militari, ma in Italia è sempre rimasto “sotto traccia” per diverse ragioni. I vertici politici e militari hanno sempre provato imbarazzo ad affrontare un argomento legato ai traumi subiti in combattimento che mal si adattano alla retorica delle missioni di pace e umanitarie che ha sempre rivestito gli impegni militari italiani oltremare.

I militari stessi poi segnalano raramente problemi del genere per non essere dichiarati “non idonei” all’impiego oltremare che vuol dire in molti casi uscire dai reparti operativi e rinunciare alle indennità di missione pari a 160 /180 euro al giorno per turni di sei mesi all’estero. Nella risposta all’interrogazione il Ministro della Difesa, Mario Mauro, sottolinea come il tasso reale di incidenza di questo disturbo in Italia sia sensibilmente inferiore a quello delle forze armate di Paesi alleati. Ciò per merito di una “migliore selezione del personale” e per il “minor carico operativo per intensità e durata”. I militari italiani prestano infatti servizio oltremare in turni semestrali mentre gli statunitensi hanno ridotto solo recentemente a 9 mesi i turni di rischieramenti precedentemente annuali e che negli anni più difficili della guerra in Iraq avevano raggiunto anche i 15 mesi. A queste valutazioni va poi aggiunto che prestare servizio nelle province orientali o meridionali afghane presidiate dagli anglo-americani significa esporsi a scontri più frequenti e più violenti di quelli sostenuti nell’Ovest dove sono schierate le truppe italiane, come testimonia anche il confronto tra i tassi di perdite subite dai contingenti schierati in quelle regioni.  Ciò nonostante i nostri militari hanno sostenuto aspre battaglie soprattutto nei distretti orientali della provincia di Farah e in quella di Badghis dove molte postazioni avanzate sono rimaste a lungo sotto il fuoco costante dei talebani. Circostanze nelle quali è lecito attendersi buon  buon numero di casi di Dtds tra i reduci che hanno dovuto combattere quasi ogni giorno e hanno visto cadere diversi commilitoni uccisi o feriti.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Fonti vicine agli ambienti militari sostengono che per avere le idee più chiare sulle dimensioni del Dtds in Italia sarebbe importante verificare le denunce per violenza domestica presentate dalle famiglie dei reduci, che pare siano numerose soprattutto tra i membri dei reparti d’élite. Un fenomeno del resto già riscontrato nei Paesi anglo-sassoni. Per quanto riguarda i suicidi, ha rilevato Mauro, con la sospensione del servizio di leva obbligatorio il fenomeno “si è’ sostanzialmente ridotto a valori non statisticamente rilevabili”. Riguardo al numero dei suicidi “avvenuti entro due anni dall’impiego in missioni in Afghanistan o in Iraq, ha proseguito, sono noti purtroppo soltanto dati parziali riferiti ai carabinieri, che riferiscono di quattro casi” due reduci dall’Iraq e due dall’Afghanistan. “Il personale militare – ha spiegato ancora il ministro – è sottoposto a specifici accertamenti prima dell’invio in teatro operativo, nel contesto di una visita medica al termine della quale viene rilasciata l’idoneità psicofisica all’impiego. Successivamente, al rientro della missione, il personale viene monitorato e, se ritenuto opportuno, sottoposto a ulteriori approfondimenti”.

Strano però che non vi siano dati ufficiali relativi all’esercito, la forza armata maggiormente presente nelle operazioni oltremare e più coinvolta nei combattimenti. Un gap che la Difesa sembra volersi impegnare a colmare. Nella risposta del ministro all’interrogazione si legge che “per consentire un adeguato flusso di dati è in atto una pianificazione organizzativa nell’ambito del Board appositamente costituito presso il competente ufficio di sanità militare. Dai pochi dati resi noti sembra infatti che in Italia non siano stati effettuati studi e analisi sistematici sui reduci, rapporti che invece abbondano nel mondo anglo-sassone consentendo un attento monitoraggio della situazione e degli interventi da attuare.  L’anno scorso i soldati britannici caduti in Afghanistan sono stati 44, dei quali 40 uccisi dal fuoco talebano, un numero inferiore ai 50 reduci che si sino suicidati in Gran Bretagna dopo il rientro dalla missione. Nello stesso anno i veterani che si sono suicidati sono stati in media uno al giorno nel 2012.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Nel marzo scorso uno studio finanziato dal ministero della Difesa di Londra e condotto su circa 14mila militari rientrati da Iraq e Afghanistan ha rilevato che i militari sotto i 30 anni che hanno avuto ruoli di combattimento o esperienze traumatiche, dopo le missioni all’estero sono più inclini a commettere atti di violenza, rispetto al resto della popolazione. I casi di Dtds più numerosi si registrano negli Stati Uniti dove hanno raggiunto il 15 per cento tra i reduci dalle missioni belliche con un forte impatto sulla spesa per i medicinali sostenuta dal Dipartimento per i veterani che nel 2012 ha più che raddoppiato la spesa in medicinali (incluso il Viagra) per i reduci rispetto al 2006 . Nel 2010 la Veteran Administration ha speso 1,9 miliardi di dollari per la cura dei reduci delle guerra in Iraq e Afghanistan con una previsione di spesa tra il 2011 e il 2020 tra i 40 e i 55 miliardi di dollari. Per il prossimo anno fiscale il Dipartimento ha chiesto 152,7 miliardi di dollari, 2,7 in più rispetto a quest’anno.

Foto: truppe italiane e afghane nella provincia di Farah  (Isaf RC-W)

 

Gianandrea GaianiVedi tutti gli articoli

Giornalista bolognese, laureato in Storia Contemporanea, dal 1988 si occupa di analisi storico-strategiche, studio dei conflitti e reportage dai teatri di guerra. Dal 1991 al 2014 ha seguito sul campo i conflitti nei Balcani, Somalia, Iraq, Afghanistan, Sahara Occidentale, Mozambico e Sahel. Dal febbraio 2000 dirige Analisi Difesa. Ha collaborato o collabora con quotidiani e settimanali, università e istituti di formazione militari ed è opinionista per reti TV e radiofoniche. Ha scritto diversi libri tra cui "Iraq Afghanistan, guerre di pace italiane", “Immigrazione, la grande farsa umanitaria” e "L'ultima guerra contro l’Europa". Presso il Ministero dell’Interno ha ricoperto dal 2018 l’incarico di Consigliere per le politiche di sicurezza di due ministri e un sottosegretario.

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