Jihad balcanica

(aggiornato il 12 novembre)

La notizia era già nell’aria da tempo, ma ora c’è la conferma ufficiale. Pochi giorni fa il War Long Journal, citando la rivista specializzata SITE, ha stimato che oltre centocinquanta jihadisti kosovari stanno attualmente combattendo  nelle fila dell’opposizione armata siriana, anche se alcune fonti ufficiose parlano di addirittura 1500 combattenti provenienti dai vari stati balcanici. Fra questi c’è anche Abu Abdulah el-Kosovi (nella foto a sinistra), che in un video pubblicato dall’ISIS (Islamic State of Iraq), parla nella sua lingua madre dell’importanza di intraprendere la Jihad. Si tratta di un evento importante poiché evidenzia l’interesse da parte dei gruppi estremisti a rivolgersi direttamente alle popolazioni di etnia albanese, ultimamente sempre più coinvolte nel conflitto siriano. Il fenomeno, poco conosciuto in Italia, è in continua crescita sin dal 2011, anno in cui secondo il network serbo B92 è cominciato l’afflusso di combattenti dai Balcani. A sostegno di questa tesi vi sono i dati dell’aprile scorso riportati nell’articolo “Albanian Islamists Join Syrian Civil War” di Mohammad al-Arnaout (consultabile sul sito  al-monitor.com). Secondo l’autore, infatti, i volontari non provengono dal solo Kosovo, ma  più in generale da tutti quei paesi balcanici in cui è presente popolazione Albanese di fede islamica, ossia Montenegro, Macedonia, Serbia (valle di Preševo) e, chiaramente, Albania.

Tale massiccia campagna di reclutamento ha negli ultimi tempi preoccupato anche le autorità locali, soprattutto dopo che alcuni giornali, come Shekulli (il Secolo) di Tirana e Koha Ditore (Daily Time) di Priština hanno pubblicato dei pezzi allarmanti sul flusso di persone verso la Siria. L’articolo più deciso è stato quello della testata kosovara, che ha puntato il dito contro la politica troppo “distratta” del Premier Hashim Thaci (nella foto qui accanto) e contro le due moschee del paese, una nella capitale e una a Mitrovica, indicate dai servizi di sicurezza come veri centri di reclutamento del terrorismo. Un altro elemento di criticità per il Kosovo è rappresentato dal partito LISBA (il cui nome inglese è “Islamic Movement to Unite”) accusato da alcuni osservatori locali di essere direttamente coinvolto in queste pratiche. Questa nuova realtà politica è sorta per la volontà di Arsim Krasniqi e Fuad Ramiqi (nella foto sotto, che The Weekly Standard ritiene essere il vero leader carismatico) sfruttando due elementi che facilitano l’affermazione dell’integralismo islamico: la grandissima influenza che gli USA hanno sul paese e gli aiuti sauditi alla diffusione del wahhabismo più radicale. Il 12 novembre 6 uomini sono stati arrestati in Kosovo con l’accusa di essere i responsabili del reclutamento di combattenti ma i problemi del giovane Stato non finiscono qui. Secondo varie agenzie di stampa, già l’anno scorso il territorio del Kosovo sarebbe stato utilizzato come centro di addestramento da vari gruppi armati siriani, rivoltisi all’UCK per migliorare le proprie prestazioni in combattimento.

Il j’accuse più pesante è stato quello di Vitalij Čurkin, Ambasciatore Russo presso il Consiglio di Sicurezza dell’ONU, che nella seduta del 14 maggio 2012 ha dichiarato che “le autorità del Kosovo stabiliscono dei contatti con dei rappresentanti dell’opposizione siriana per addestrare degli insorti” siriani sul proprio territorio. La notizia è stata riportata non solo dai più importanti media russi, come Russia Today e Ria Novosti, ma anche dal francese Le Monde. Il giorno successivo, comunque, sono arrivate le smentite ufficiali da Priština:  il Ministro degli Esteri Enver Hoxhaj ha negato assolutamente la veridicità di tali affermazioni, pur confermando che il suo paese ha sostenuto l’opposizione sia in Libia che, più recentemente, in Siria.
Al di là di queste rassicurazioni, resta il fatto che la presenza di jihadisti balcanici nella guerra contro Assad rappresenta una grande minaccia per la Russia, da sempre interessata a ciò che succede nei Balcani, ma soprattutto per la Serbia. L’allarme lanciato dai Servizi di Sicurezza di Belgrado, più pressante dopo la scoperta che in Sangiaccato vi sono centri preposti alla radicalizzazione dei giovani islamici, ha giocoforza costretto il mondo politico ad interrogarsi su come fare a contenere questa minaccia, o almeno il rischio rappresentato dal ritorno in patria dei jihadisti originari delle aree musulmane della Serbia. In quest’ottica si inserisce l’annuncio del 27 ottobre scorso del SDPS (Partito Social-Democratico di Serbia) di voler proporre al Parlamento l’approvazione di una legge per punire i cittadini serbi che combattono all’estero con pene detentive dai 3 ai 5 anni.

Situazione preoccupante anche in Bosnia-Erzegovina dove il problema delle infiltrazioni jihadiste si è posto già durante il conflitto degli anni ’90, quando migliaia di mujahidin accorsero nel paese per combattere i serbi: alcune centinaia di essi furono rimpatriati a partire dal 2007 ma molti restarono in Bsnia. Questa “tradizione” recente ha  facilitato il reclutamento di volontari per il conflitto siriano, come è lecito pensare guardando i numeri ufficiali circa la presenza di bošnjaci (bosniaci musulmani) nella guerra contro Damasco. Il quotidiano belgradese Večernje Novosti, infatti, in un articolo del 18 agosto scorso ha stimato che almeno 330 “volontari” attivi in Siria provengano da Sarajevo e dintorni, mettendo però l’accento sul fatto che almeno ulteriori 220 unità sono impegnate in altri scenari, come la Cecenia, l’Afghanistan, l’Iraq e la Libia. L’aspetto più grottesco della vicenda, come viene ricostruita dal giornale serbo, è che le autorità locali conoscono esattamente le modalità di lavoro di questi reclutatori wahabiti e i loro contatti sul territorio, ma non possono impedire che questi faccendieri entrino in Bosnia col visto turistico di sette giorni. L’unico intervento possibile, come ha spiegato Dragan Mektić (Direttore dell’Ufficio per gli Affari con gli Stranieri), è successivo all’ingresso, tramite la verifica dei reali motivi per cui è stato richiesto il visto, che viene annullato in caso di dichiarazione mendace.
Una critica molto forte all’operato della vecchia e nuova politica in materia di Islam radicale viene da Staša Košarac (nella foto qui sopra), importante membro della Commissione Parlamentare Bosniaca per il controllo dei Servizi. In un’intervista rilasciata al Večernje Novosti si è scagliato contro le azioni di Alija Izetbegović e Haris Silajdžić, rei di aver permesso l’arrivo di migliaia di jihadisti, ma anche contro la politica attuale che, pur informata sui fatti, ostacola la circolazione delle informazioni fra le varie agenzie di sicurezza.

Che Sarajevo abbia le informazioni necessarie per conoscere il problema è abbastanza probabile, dato che svariati giornalisti locali hanno ricostruito, più o meno dettagliatamente, il percorso che un volontario deve seguire per unirsi ai vari gruppi integralisti presenti in Siria. Secondo B92, ad esempio, dopo essere stato reclutato da un esponente dell’integralismo locale (wahabita o salafita), il volontario viene mandato in Turchia, da cui passa in Siria attraverso il confine di Bab al-Hawa. Molto spesso il jihadista viene immediatamente mandato a Sarmada, città in cui riceve un’istruzione religiosa “adeguata” impartita da membri dell’Esercito Siriano Libero o di altri gruppi combattenti. Secondo l’Agenzia di stampa Srna (Republika Srpska) i volontari bosniaci ricevono un contributo economico di circa 3000 marchi convertibili bosniaci (1.530 euro) da parte di Nusret Imamović (nella foto a sinistra), leader estremista salafita già accusato di aver organizzato l’attacco terroristico all’Ambasciata USA di Sarajevo nel 2010. Al termine di questi corsi accelerati, i combattenti si uniscono ad una delle varie organizzazioni jihadiste presenti sul territorio, fra le quali la più gettonata è il Fronte Al-Nusra, gruppo che l’amministrazione USA ha classificato come terrorista e legato ad al-Qaeda.  Il problema, comunque, appare estremamente serio per tutto il Vecchio Continente e nell’aprile scorso i servizi segreti tedeschi espressero preoccupazione in seguito al ritorno dalla Siria di alcuni cittadini tedeschi veterani della jihad, considerati una grande minaccia alla sicurezza nazionale.

 

 

Triestino, analista indipendente e opinionista per diverse testate giornalistiche sulle tematiche balcaniche e dell'Europa Orientale, si è laureato in Scienze Internazionali e Diplomatiche all'Università di Trieste - Polo di Gorizia. Ha recentemente pubblicato per Aracne il volume “Aleksandar Rankovic e la Jugoslavia socialista”.

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