La questione artica vista da Washington

Il 30 gennaio 2014 la Casa Bianca ha annunciato il nuovo “Plan to Make Arctic Shipping Safer”, che fa seguito alla “National Strategy for the Arctic Region”, promulgata dal Presidente Obama lo scorso 10 maggio 2013. Il piano  risponde alla necessità di far fronte alle sfide strategiche, energetiche e commerciali che lo scioglimento progressivo dei ghiacci del Polo Nord porrà in un futuro molto prossimo agli Stati Uniti, come alle altre nazioni dell’area. Obiettivo del documento è quello di fissare la policy che Washington adotterà nell’Artico per salvaguardare la «sicurezza e la libertà di navigazione»  degli Stati Uniti. Inoltre, esso servirà a proteggere le popolazioni locali, garantire risorse naturali ed eventuali «altri interessi» (come la «global force management»). L’azione statunitense descritta dal piano si articolerà su diversi livelli, secondo un approccio il più possibile condiviso che vedrà la collaborazione tra diversi dipartimenti ed agenzie governative. Il Dipartimento della Difesa si occuperà del monitoraggio delle condizioni del ghiaccio artico, tramite il lancio di un satellite ed un idoneo incremento delle ricerche scientifiche sul tema.

Il Dipartimento del Commercio si occuperà di perizie in loco, della mappatura delle acque di giurisdizione statunitense, nonché dei provvedimenti per facilitare l’adattamento alla nuova situazione climatica delle popolazioni residenti in Alaska. Il Dipartimento di Stato cercherà di raggiungere un accordo con il Canada relativo al confine marittimo del Mare di Beaufort ed il Dipartimento per la Homeland Security si occuperà dello sviluppo di un codice internazionale per le navi che transitano in acque polari. La US Navy, dal conto suo,   sta mettendo a punto una sorta di  “road map” che delinei l’approccio  relativo a futuri obblighi nella regione, collegati alla libera circolazione nelle sue acque. L’urgenza statunitense di implementare in questa regione un modus operandi  intergovernativo  deriva dall’impellenza e la gravità della questione.

Infatti, anche se l’estate 2013 non ha prodotto un “Oceano Artico trasformato completamente in un mare”, come aveva preconizzato nel 2007 il professor Wieslaw Maslowski della New York University, e guru della materia, la comunità scientifica internazionale rimane convinta che il “collasso artico” sia prossimo – entro il 2035 o addirittura il 2016, secondo le diverse valutazioni. Oltre ai ben noti danni ambientali e climatici, la progressiva e rapida riduzione dei ghiacci sta comportando conseguenze enormi, con implicazioni economiche, geopolitiche e strategiche (e quindi militari) di grande portata. Tra queste ultime, particolarmente importante è l’apertura di nuove rotte marittime fino ad ora  non percorribili, o accessibili solo per alcuni mesi all’anno. Due di queste hanno una valenza strategica decisiva .

La prima corrisponde al leggendario passaggio a Nord Ovest che, partendo dallo stretto di Bering, raggiunge il Pacifico, riducendo così l’importanza e la criticità dei canali di Panama e Suez, nonché i costi di trasporto transcontinentale delle merci. La seconda rotta percorre il Passaggio a Nord Est (la “Great Northern Route”) collegando il mare di Barents al Pacifico lungo 3.500 miglia di frastagliate coste siberiane. Anche questa consente di contrarre sensibilmente i tempi dei collegamenti marittimi fra l’Europa e l’Asia. Le nuove vie d’acqua renderanno possibile l’apertura di numerosi porti commerciali e lo sfruttamento delle immense risorse minerarie e petrolifere della regione, attualmente sepolte sotto la banchisa e il permafrost.

Si calcola che  ammontino al 30% delle risorse di greggio del pianeta e al 15% di quelle di gas – quantitativi enormi. Un altro vantaggio di cruciale importanza che deriverà dallo scioglimento dei ghiacci dell’Artico è quello legato ai futuri proventi per l’industria alimentare e ittica – data la maggiore disponibilità di terre coltivabili (nelle aree costiere, oggi in massima parte gelate) e di zone di pesca che si renderanno  fruibili. Gli Stati Uniti sono i maggiori consumatori di petrolio e beni alimentari del mondo, oltre che la più grande potenza marittima. Hanno quindi un grande interesse a mantenere, anche nella regione artica, l’illimitata libertà di navigazione delle loro flotte che da almeno due secoli costituisce  il pilastro del loro standing geopolitico, nonché a garantirsi il loro fair share di risorse naturali. Devono inoltre far fronte a quella speciale responsabilità di massimi garanti degli equilibri internazionali, che potrebbero essere sconvolti dal rimescolamento di carte (o meglio, di acque)  provocato dalla trasmutazione  dell’Artico.

La necessità di delineare una strategia artica  americana deriva anche dal bisogno arginare l’azione della “concorrenza” – russa, soprattutto, ma anche canadese, europea e in prospettiva asiatica – e mettersi al passo con essa, dal momento che fino all’anno scorso l’impegno statunitense al Polo Nord è stato piuttosto modesto, soprattutto se confrontato con quello dell’ex superpotenza rivale, la Russia putiniana in piena revanche geopolitica anche e soprattutto a queste latitudini. A tale scopo Washington deve innanzitutto colmare il divario con gli altri paesi della regione in termini di “basing” e hardware stanziato in loco – anche se la cosa può sembrare  un paradosso per una nazione che spende in termini di difesa più dei quaranta suoi inseguitori in termini di budget militare.

Nel novembre 2013 il Pentagono ha finalmente assunto una posizione precisa sul tema, rendendo nota la sua linea programmatica nei confronti dell’Artico. Ha pubblicato un documento, denominato “Arctic Strategy,” che contiene una serie dichiarazioni di intenti simili ai paper governativi già citati, che comprendono anche i piani di massima per il futuro come un maggiore dispiegamento di reparti militari  in loco, l’utilizzo di basi e  la messa in atto di esercitazioni interforze e internazionali. Tali “dichiarazioni di intenti” sembrano non tener troppo conto delle  dimensioni relativamente limitate della porzione di territorio statunitense prospiciente al Polo Nord – l’Alaska –  a fronte di quelle del vicino Canada, della Russia e persino dell’Europa, con la Norvegia, l’Islanda, la Groenlandia danese e gli arcipelaghi minori. Tutti questi Paesi fanno  parte dall’Arctic Council, l’organo deputato a gestire le questioni regionali.

Negli anni passati, tuttavia, il suo ruolo è stato per lo più inerente a argomenti ecologici e scientifici, data la scarsa rilevanza di diatribe  territoriali. Oggi la situazione è ovviamente mutata e i contenziosi si sono moltiplicati. Ad esempio, il Canada, che ha la più grande porzione di terra artica con i Territori del Nordovest, il Nanavut, e lo Yukon (107,265 abitanti) considera la politica artica come un tratto fondamentale della propria identità nazionale. Nel dicembre 2013 il ministro degli Esteri di Ottawa, John Baird, ha depositato presso le Nazioni Unite un dossier per affermare la sovranità canadese sul Polo Nord geografico, estendendo la giurisdizione marittima dell’Acero su oltre mezzo milione di miglia, sino a comprendere la dorsale sottomarina di  Lomonosov, sacra ai russi. Mosca, dal canto suo, non è da meno, data l’enorme estensione della propria costa settentrionale. Si sta dando da fare da tempo con la consueta energia. Nel 2007, sullo specifico tema del Polo Nord, aveva dato il via alla spedizione Arktika, conclusasi con la posa sul fondo del Polo di un tricolore della federazione, in titanio, da parte di un batiscafo.

La dorsale Lomonosov era contemporaneamente rivendicata con accenti quasi irredentisti.  Nel dicembre 2013, a seguito della citata mossa  canadese presso le Nazioni Unite, Putin ha affermato che la regione artica ha un ruolo chiave negli interessi nazionali russi.  Ha ripristinato la base militare nelle isole della Nuova Siberia ed ha annunciato di volerne rimettere in funzione altre, attive ai tempi dell’URSS. Ha fatto seguito un’intensificazione delle esercitazioni e delle attività prospettive  ed esplorative nella regione. Il Cremlino  sta anche dispiegando nelle coste prospicienti l’oceano Artico un sistema di allarme radar contro attacchi missilistici, che dovrebbe essere terminato nel 2018 e troverà sicura corrispondenza sul continente nordamericano da parte dei suoi rivali del NORAD. Anche la Danimarca, per via della sua sovranità sulla Groenlandia e le Fær Øer, è fortemente interessata alla questione artica. Va ricordato che la grande isola “Verde” ha la linea della costa più vicina al Polo Nord.

Copenhagen ha avviato iniziative per dimostrare che 155mila chilometri quadrati del fondo dell’Oceano Glaciale Artico – compreso (di nuovo!)  il Polo Nord – fanno parte della piattaforma continentale groenlandese e quindi devono essere integrati al regno danese.  Infine la  Norvegia, che non è uno stato UE ma appartiene alla NATO (che prima o poi dovrà battere un colpo, quattro suoi membri sono coinvolti nella questione) è stato l’unico Paese a vedersi riconoscere dalle Nazioni Unite, nel 2006,  una piattaforma continentale addizionale di 235 mila chilometri quadrati, sulla quale (oltre che in altre aree) sta adoperandosi con molta solerzia nella costruzione del cosiddetto “Impero Energetico Off-shore”. Tale attività si accompagna ad un complesso di attività legislative, amministrative e giurisdizionali che danno sostanza e formalismi al predetto impero. È chiaro che tutte queste iniziative nazionali prima o poi entreranno in collisione fra loro (alcune lo stanno già facendo). È  curioso pensare che quella che è stata a lungo “l’ultima frontiera della Guerra Fredda” potrebbe diventare la nuova frontiera di una guerra letteralmente glaciale.

Foto: US DoD, Ministeri Difesa Norvegia, Russia, Canada, Danimarca

Nata a Bruxelles, ha conseguito la laurea magistrale con lode in Scienze Politiche, indirizzo Relazioni Internazionali, all’Università Roma Tre. Vive e lavora a Roma, dove si è occupata di comunicazione, relazioni internazionali e giornalismo. Ha collaborato con diverse testate e si occupa di geostrategia e storia contemporanea con particolare attenzione ai temi connessi alla Guerra Fredda e al terrorismo.

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