L’indipendenza della Crimea e il dilemma cinese

da Pechino, Andrea Ghiselli

Con la divulgazione risultato del referendum di domenica in Crimea e la firma da parte di Putin per riconoscere la penisola come parte della Federazione Russa si è aperto un nuovo capitolo della vicenda che, nonostante la distanza geografica, viene seguita con grande attenzione anche dalla Cina. Questi due avvenimenti segnano un ulteriore allontanamento fra Russi e Occidente mettendo in difficoltà Pechino che si trova sempre più vicino a rappresentare l’ago della bilancia. Un esempio di ciò è l’astensione durante il voto il Consiglio di Sicurezza delle Nazione Unite per invalidare il referendum. Mentre per l’Occidente l’astensione è stata una mezza vittoria e per la Russia ha significato il non completo isolamento, a giudicare dalle parole del portavoce del Ministero degli Esteri cinese Qin Gang sembra che questo gesto sia stato fatto per gettare acqua sul fuoco. Parlando della posizione della Cina, Qin ha ripetuto gli stessi argomenti presentati in precedenza mettendo in evidenza una non-reazione di fronte a ciò che succede. Il piano presentato da Liu Jieyi, ambasciatore cinese presso la Nazioni Unite, sembra infatti puntare a “congelare” la situazione in bilico così com’è senza offrire alla diplomazia una via d’uscita. Mentre i russi prendono il controllo delle basi militari in Crimea, la Cina aspetta che “le parti coinvolte si astengano fare gesti che possano far peggiorare la situazione” in attesa che “si crei un meccanismo di coordinazione internazionale per esplorare le possibili soluzioni politiche.

Come affrontare il referendum in Crimea però non è solo una sfida di politica internazionale, ma è di grande rilevanza anche in ottica di politica interna. Sono tre i temi principali a cui prestare attenzione nel come vengono presentati i fatti sui media cinesi. Il primo è che le azioni russe sono considerate una naturale reazione al progressivo accerchiamento da parte Occidentale, non una violazione della sovranità ucraina. Il secondo è che la Cina è presentata come un arbitro moderatore fra le parti. Il terzo è che la forza militare rimane il vero elemento decisivo della politica internazionale. Per questo motivo, la modernizzazione delle forze armate deve rimanere una priorità per la Cina. Anche sul frangente dei media, quindi, non compaiono elementi di novità rispetto alle settimane precedenti. Tuttavia, mentre è la necessità di non inimicarsi l’Occidente e mantenere buoni rapporti con la Russia è alla base dell’incertezza a livello diplomatico, e quindi di come la Cina comunica con l’esterno, sono probabilmente le sempre scottanti questioni di Taiwan, Tibet e Xinjiang a bloccare lo sviluppo del discorso sui media interni. Come trapelato

lunedì, sarebbe stato imposto dall’alto l’assoluto divieto di creare o fare intendere in alcun modo la potenziale similitudine di quello che succede in Ucraina e i bollori indipendentisti che caratterizzano la Cina occidentale e la “provincia ribelle” di Taiwan. Guardando alla reazione a livello esterno ed interno nel suo insieme emerge un elemento caratterizzante delle relazioni sino-ucraine e che era già comparso pochi mesi fa: le interazioni i due paesi non possono e non devono essere viste in ottica bilaterale, ma inserite in un più ampio contesto globale. Durante un’intervista ad Al Jazeera, il professor Yu Liong ha affermato che, quando a dicembre Xi Jinping promise al precedente presidente ucraino che la Cina avrebbe coperto il paese con il suo ombrello nucleare nel caso in cui un altro Stato dotato di armi nucleari avesse minacciato o attaccato l’Ucraina, più che atto vero di protezione verso l’Ucraina si trattasse di un ammonimento verso il Giappone. “Non abbiamo intenzione di impiegare armi nucleari, ma rimaniamo una potenza nucleare. Non dimenticarlo”, questo è il messaggio che Pechino voleva mandare a Tokio secondo Yu. Seguendo questa linea di pensiero si spiega il perché la Cina abbia offerto protezione all’Ucraina contro l’unico paese che avrebbe avuto interesse ad usare la forza contro Kiev, come poi è successo veramente.Ora, allo stesso modo, Pechino non agisce considerando quali possano essere gli effetti dei propri gesti per Kiev. L’Ucraina è piuttosto trattata come un campo di scontro fra Russia e Occidente, non come un paese sovrano. Ne segue quindi che la presenza non autorizzata di forze russe e le dichiarazioni del Cremlino non vengano percepite in Cina principalmente come un’aggressione allo stato ucraino, ma come una reazione di difesa da parte russa contro l’accerchiamento occidentale. Adottando questo punto di vista più ampio le azioni cinesi non sono più contraddittorie fra loro. Al contrario, sembrano unite da un filo conduttore comune.
L’unico aspetto che lega veramente Cina e Ucraina (oltre all’affitto di vaste distese agricole ucraine da parte di Pechino), il commercio di armi e mezzi militari, difficilmente
verrà influenzato da dalla crisi in corso. Per capire quanto sia profonda la loro complementarietà basta pensare a quanto successo per l’acquisto di alcuni motori per jet militari. Durante le fasi iniziali dello sviluppo dei caccia J-15, la Cina aveva chiesto alla Russia di vendere alcuni SU-33 per poterne studiare alcune componenti da usare sul caccia cinese. La Russia, tuttavia, aveva posto come ordine minimo 48 velivoli per una somma di denaro considerevole. Poco tempo dopo la Cina ha acquistato alcuni di questi caccia dall’Ucraina per una cifra irrisoria. Mentre per la Cina l’Ucraina rimane una fonte di tecnologia militare, per l’industria bellica e l’economia in difficoltà dell’Ucraina, la Cina è “una grande torta”. Si tratta cioè del migliore cliente in circolazione: grandi ordini e pagamenti veloci. Per l’Ucraina l’interrompere i rapporti commerciali con Pechino per non aver preso le proprie difese sarebbe non poterebbe nessun vantaggio e rischierebbe di danneggiare seriamente una delle poche industrie redditizie del paese.

Foto AFP, Xinhua

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