Ripensamenti sulle Littoral Combat Ship?

Quando nell’ormai lontano 2002 il Capo delle Operazioni Navali (CSM) della US Navy decise di far mettere in cantiere un nuovo tipo di unità per la guerra costiera nel mondo degli esperti di cose marittime ci fu un chiaro suddividersi in favorevoli al nuovo programma e in decisi avversari. I primi vedevano nelle nuove Littoral Combat Ships la rinascita delle “motocannoniere” e delle “motosiluranti” per ottenere un elevato grado di sea control anche nelle acque prossime ai litorali avversari e quindi esercitarvi senza pericolo il potere marittimo necessario per garantire qualsiasi altra operazione pianificata, i secondi vedevano in un programma che prevedeva oltre 50 unità su una flotta di superficie, allora prevista di 313 navi, una spesa superiore ai possibili risultati conseguibili. Se aggiungiamo che fu deciso di costruire due costosissimi prototipi di LCS di progettazione completamente differente sia negli scafi che in altre importanti caratteristiche, non possiamo criticare troppo gli scettici.

Le caratteristiche che facevano differenti le LCS dalle altre unità per la guerra costiera erano soprattutto due:
–    le dimensioni (circa 3.000 tonnellate di dislocamento, lunghezza di oltre 115 metri, immersione di circa 4 metri)
–    la possibilità di variarne la missione attraverso l’imbarco di differenti sistemi d’arma containerizzati.
Il primo prototipo, l’USS Freedom, fu sviluppato dalla Lockheed Martin con la partecipazione anche della cantieristica italiana, e consiste in una unità monoscafo semiplanante in acciaio dotato di un ampio ponte di volo poppiero. Impostato nel 2005 ha iniziato le prove in mare circa quattro anni dopo superando i 45 nodi di velocità.
Il secondo prototipo, l’USS Indipendence, affidato ad un consorzio guidato dalla General Dynamic è invece un trimarano in alluminio, largo oltre 31 metri, che alle prove ha quasi raggiunto i 50 nodi. Alle abbastanza lunghe sperimentazioni è seguita una forse troppo rapida decisione di proseguire con il programma senza decidere tra i due tipi di unità, anzi ordinando tra il 2006 ed il 2010 le LCS 3, 5, 7,9 e 11 della serie Freedom e le LCS 4, 6,8, 10 e 12 della classe Indipendence.

Le critiche sul prezzo delle unità, che si è quasi quadruplicato negli anni, sono venute sia dal Congresso che dalla Navy stessa ed oggi (gennaio 2014) sembra che ci si fermerà a solo (!) 32 unità invece delle 55 programmate all’origine. Lo scrivente, quale vecchio comandante di aliscafo, è dalla parte dei fautori di questo tipo di unità in quanto l’alta velocità, basata su innovativi impianti di propulsione (turbine a gas e idrogetti), ci appare ancor oggi un fattore di potenza per l’esercizio del potere marittimo in molte aree del mondo. Dal punto di vista della geostrategia marittima sembra inoltre che l’impiego previsto delle LCS in gruppi di due/tre unità in zone di particolare interesse degli USA quale il Mar Cinese Meridionale, il Golfo Persico ed il Mediterraneo, sia rispondente ad una richiesta di “presenza attiva” per contrastare ogni tipo di minaccia dalla più diffusa della pirateria a quella più sofisticata di sommergibili di alte prestazioni.

La poliedricità dell’armamento imbarcabile attraverso la sistemazione di appositi container standard da 20’ consente a questi mezzi di svolgere operazioni ASW, ASuW e di guerra di mine con rapidi lavori di adattamento fattibili anche i basi non particolarmente attrezzate. L’idea di avere tre equipaggi per ogni due unità migliora ulteriormente il fattore di disponibilità delle LCS e consente di formare in tempi ristretti una generazione di “combattenti costieri” che attualmente manca alla Marina Americana.
Qualche critica condivisibile, oltre a quella sul costo, può venire dalle eccessive dimensioni di queste navi, che sono quelle di una fregata convenzionale, ma per avere un buon comportamento anche con mare molto mosso e garantire autonomie dell’ordine delle 3.500/4.500 miglia uno scafo grosso è indispensabile. La versione a trimarano, pur molto innovativa dal punto di vista dell’architettura navale, ci sembra inoltre più criticabile sia per la larghezza dell’unità (oltre 31 metri) e quindi per le relative difficoltà di ormeggio sia per la sua costruzione in alluminio, materiale di comportamento non troppo apprezzato in mare.

Mi sembra inoltre che aver dotato tutte le unità quale armamento fisso del pezzo da 57/70 mm di derivazione Bofors anziché del più prestante e diffuso 76/62 ne limiti il suo impiego quale cannoniera. Buona invece appare la possibilità di imbarcare equipaggi variabili da 40 a 75 uomini a seconda del tipo di operazione pianificata. A parere dio chi scrive queste note quindi non siamo certamente di fronte ad una rivoluzione come nel caso delle Dreadnought di Lord Fisher all’inizio del XX secolo, ma certamente lo sviluppo delle LCS va seguito con attenzione per le molte innovazioni che questo tipo di mezzo può portare nelle operazioni marittime del nostro secolo. Forse unità singolarmente meno costose, come i nuovi Pattugliatori in programma nella nostra Marina, potrebbero garantire quel dominio delle acque costiere oggi sempre più necessario.

Foto: Lockheed Martin, General Dynamics, US Navy

Pier Paolo RamoinoVedi tutti gli articoli

L'ammiraglio Ramoino è Vice Presidente del Centro Universitario di Studi Strategici e Internazionali dell'Università di Firenze, Docente di Studi Strategici presso l'Accademia Navale di Livorno e cultore della materia presso la Cattedra di Storia delle Relazioni Internazionali dell'Università Cattolica del S. Cuore a Milano. Dal 1982 a tutto il 1996 ha ricoperto le cattedre di Strategia e di Storia Militare dell'Istituto di Guerra Marittima di Livorno, di cui è stato per dieci anni anche Direttore dei Corsi di Stato Maggiore. Nella sua carriera in Marina ha comandato diverse unità incluso il caccia Ardito e l'Istituto di Guerra Marittima.

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