Riad mostra il deterrente che difende La Mecca (e il petrolio)

Per la prima volta l’Arabia Saudita ha mostrato, nella parata militare tenutasi il 29 aprile nella base aerea di Hafr al-Batin, il suo deterrente strategico costituito dai missili balistici cinesi Dong Feng 3 che hanno la capacità di imbarcare testate atomiche e convenzionali da 2 tonnellate. Armi datate, sviluppate negli anni ’60 e acquisite nel 1988 dai sauditi in un numero stimato tra i 30 e i 120 esemplari con una decina di lanciatori. Pechino avrebbe venduto i missili con testate convenzionali ma la natura dei missili balistici e la scarsa precisione dei vecchi vettori cinesi lasciano intendere che questo tipo di armamenti ha un valore deterrente solo se possono imbarcare armi di distruzione di massa. Che Riad disponesse di queste armi in grado di colpire obiettivi fino a 2mila chilometri di distanza imbarcando anche testate nucleari era noto da tempo ma queste armi non erano mai state mostrate in pubblico e del resto non è noto se almeno una parte dei missili in servizio siano delle versioni più moderne, precise e accreditate di un raggio d’azione di 3.500 chilometri.

Secondo fonti d’intelligence citate nel gennaio scorso da Newsweek sarebbe in atto il rimpiazzo dei DF-3 con i più moderni e precisi Dong Feng 21  la cui consegna avrebbe avuto il via libera di Washington dopo che era stato appurato che i vettori non potevano imbarcare armi atomiche.   L’assenza di informazioni precise circa la consistenza degli arsenali missilistici, il numero di militari e il budget assegnati al Comando strategico confermano che le reali capacità dell’arsenale balistico saudita restano un segreto ben custodito. In ogni caso si tratta di armi in grado di colpire sia Israele sia l’Iran, cioè l’unica potenza nucleare e il Paese che sta perseguendo la medesima capacità nella regione mediorientale. L’esibizione dei Dong Feng 3 sembra avere un preciso significato di deterrenza nei confronti dei due potenti vicini e soprattutto dell’Iran, che produce missili balistici derivati da quelli nordcoreani e continua a perseguire un programma atomico dagli evidenti fini militari percepito come una minaccia diretta dallo Stato ebraico come dagli emirati del Golfo.

Almeno questa è l’interpretazione corrente anche tra gli analisti israeliani benché non si possa escludere che Riad abbia deciso di fare “outing” come potenza missilistica (e quindi potenzialmente nucleare) con l’obiettivo di sottolineare una leadership regionale nel mondo arabo messa recentemente in discussione anche dalla spregiudicata politica del Qatar, emirato emarginato recentemente dagli altri stati membri del Gulf Cooperation Council, (l’organismo di difesa comune della Penisola Arabica sostenuto da Londra e Washington)  per il suo sostegno ai Fratelli Musulmani, movimento ormai fuorilegge in Egitto come in Arabia Saudita dove viene considerato un gruppo “terrorista”.

Ufficialmente i sauditi  non dispongono di armi atomiche anche se in passato fonti d’intelligence rivelarono che un programma nazionale in tal senso si trovava allo stato embrionale mentre erano stati finanziati generosamente i programmi atomici varati da Iraq e Pakistan negli anni ’70.

 

Non è un mistero che la “bomba” pakistana, sviluppata per bilanciare un analogo programma indiano, venne finanziata proprio da Riad che ha da anni stretti rapporti militari con Islamabad, cementati negli anni ‘80 durante lo sforzo comune per contrastare la presenza sovietica in Afghanistan. Secondo indiscrezioni la deterrenza nucleare saudita si basa sulla possibilità di accedere, in caso di emergenza per la sicurezza nazionale, alle testate atomiche pakistane e sembra che un velivolo cargo C-130 saudita sia sempre pronto al decollo su una base pakistana per trasportare le testate da imbarcare sui DF 3 nella base missilistica di al-Watan. Altre fonti citate anche dalla BBC riferiscono di un accordo bilaterale che consentirebbe in caso di guerra di schierare forze nucleari pakistane in territorio saudita.

Una conferma in più di come l’arsenale atomico israeliano (mai ammesso da Gerusalemme ma valutato in circa 150 testate)  e il programma  nucleare iraniano stiano generando una corsa al riarmo strategico in tutta la regione che sta gonfiando le spese militari delle monarchie petrolifere prima tra tutti l’Arabia Saudita che quest’anno ha raggiunto il quarto posto nella classifica dei Paesi che più spendono per le forze armate scalzando la Gran Bretagna con ben 60 miliardi di dollari assegnati alla Difesa. Cifra che consente a Riad di gestire un arsenale strategico in parte operativo su rampe mobili e in parte schierato in silos corazzati sotterranei nelle basi di al-Watan, al Sulayyil e al Jufayr situate tra  90 e 450 chilometri da Riad.

Fonte. Il Sole 24 Ore
Immagini Jane’s e Jerusalem Post

Gianandrea GaianiVedi tutti gli articoli

Giornalista bolognese, laureato in Storia Contemporanea, dal 1988 si occupa di analisi storico-strategiche, studio dei conflitti e reportage dai teatri di guerra. Dal 1991 al 2014 ha seguito sul campo i conflitti nei Balcani, Somalia, Iraq, Afghanistan, Sahara Occidentale, Mozambico e Sahel. Dal febbraio 2000 dirige Analisi Difesa. Ha collaborato o collabora con quotidiani e settimanali, università e istituti di formazione militari ed è opinionista per reti TV e radiofoniche. Ha scritto diversi libri tra cui "Iraq Afghanistan, guerre di pace italiane", “Immigrazione, la grande farsa umanitaria” e "L'ultima guerra contro l’Europa". Presso il Ministero dell’Interno ha ricoperto dal 2018 l’incarico di Consigliere per le politiche di sicurezza di due ministri e un sottosegretario.

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