In guerra contro il Califfo con gli amici dei nemici

La coalizione internazionale  voluta da Barack Obama per muovere guerra al Califfato annunciata una settimana or sono  al vertice NATO di Newport comincia già a fare acqua. La strategia di Washington non è mai sembrata convincente, neppure dopo il discorso alla nazione in cui il presidente ha “dichiarato guerra” ai jihadisti annunciando però un impegno bellico limitato alle forze aeree ma a dare il colpo di grazia alla credibilità dell’alleanza multinazionale ha contribuito soprattutto la sua contraddittoria composizione.
Ne fanno parte molti Paesi che hanno armato, addestrato e finanziato i gruppi jihadisti confluiti nello Stato Islamico ma non vengono accettati nella coalizione gli unici due paesi che hanno da sempre combattuto il Califfato. Quale credibilità può avere un’alleanza contro i miliziani sunniti che include Arabia Saudita, Qatar, Emirati Arabi Uniti, Kuwait che in questi anni hanno armato e finanziato (con turchi e americani) i miliziani che dovevano combattere Bashar Assad e sono confluiti nell’esercito del Califfo?  L’adesione di questi Paesi compromette la credibilità dell’intera operazione varata da Barack Obama senza il via libera del Congresso statunitense e senza l’avvallo delle Nazioni Unite.

Tante le ambiguità e le contraddizioni in una coalizione in cui siedono vicini il governo scita iracheno e quelli delle monarchie sunnite del Golfo ma Baghdad ha sempre accusato sauditi e qatarini di sostenere i terroristi dello Stato Islamico. Come può oggi considerare quegli stessi Paesi suoi alleati? Al tempo stesso non si comprende come possa una coalizione che dovrebbe fare la guerra al Califfato fare a meno degli eserciti maggiormente impegnati a contrastare i jihadisti, quelli di Iran e Siria.  A quanto pare a Washington hanno  dimenticato che l’unico esercito che ha tenuto testa alle armate del Califfato è stato quello siriano grazie all’appoggio di mosca, degli Hezbollah libanesi e di Teheran, non certo dell’Occidente che i jihadisti li ha armati e addestrati quanto gli emirati del Golfo.

L’Occidente sembra quindi determinato a perseverare nella politica suicida che, con l’intento dichiarato di aiutare un’opposizione armata siriana “moderata” di fatto inesistente o di scarsissimo peso, ha cercato in ogni modo di rimpiazzare il regime laico di Bashar Assad con uno islamista. Lo dimostra la determinazione di Washington ad addestrare 5mila combattenti dell’opposizione moderata siriana entro un anno nell’ambito dell’offensiva internazionale contro lo Stato Islamico nonostante lo stesso Pentagono riconosca che il vero problema è scegliere i candidati per questo programma.  Reclute che vengono di fatto scelte dai sauditi forse più interessati a mobilitare miliziani per la guerra agli sciti e il contrasto all’Iran e al governo siriano che a creare milizie sunnite da mandare in battaglia contro i “fratelli” sunniti del Califfato.

Come si può combattere lo Stato Islamico continuando ad addestrare miliziani islamisti sunniti e considerando nemici i militari sciti che fanno la guerra al Califfato?
Sauditi ed emirati hanno accettato di contrastare i flussi di denaro e combattenti diretti all’IS ma è difficile credere che lo faranno davvero anche se tra le leadership monarchiche cresce il timore che il Califfato possa minacciare la legittimità delle case regnanti sui ricchi giacimenti di gas e petrolio della Penisola Arabica.
Gli stessi Paesi hanno deciso di aderire alla coalizione ma pare non invieranno truppe a combattere il Califfato anche se caute ipotesi di invio di forze aeree dei Paesi del Gulf Cooperation Council nei cieli di Siria e Iraq vengono viste con ostilità a Damasco e con sospetto a Baghdad. Se si escludono i curdi (che sono sunniti) gli unici a combattere per davvero lo Stato Islamico sono stati finora  gli sciti, cioè i soldati siriani di Bashar Assad, i miliziani iracheni e i pasdaran iraniani che hanno impedito agli uomini del Califfodi entrare nei sobborghi di Baghdad e oggi combattono a migliaia a Samarra e Tikrit.

Su queste ambigue contraddizioni la coalizione mostra un deficit di credibilità fin dalla nascita. Gli alleati di cui si circonda l’America o non combattono o sono palesemente “collusi” col nemico mentre riesce difficile da spiegare perché gli USA vogliano condurre raid aerei contro l’IS in Siria senza coordinarsi con Damasco.

Ali Haidar, ministro siriano per la Riconciliazione nazionale, ha detto che “ogni azione di tipo militare effettuata senza il consenso del governo di Damasco rappresenta un attacco alla Siria”.   Alexander Lukashevich, portavoce del ministero russo degli Esteri, ha evidenziato che incursioni aeree americane in Siria “senza una decisione appropriata da parte del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite sarebbero un atto di aggressione e una flagrante violazione delle norme del diritto internazionale”.

Confusa sul piano politico, inconsistente su quello militare, contraddittoria nella definizione degli obiettivi, la coalizione di Obama scricchiola anche sul versante giuridico. Non è un caso che gli europei, che avrebbero dovuto costituire la “Core Coalition” secondo quanto dichiarato al vertice NATO in Galles, si stanno tutti defilando. Persino i britannici che hanno schierato già da un mese 4 bombardieri Tornado a Cipro hanno rinunciato a effettuare incursioni in Iraq e Siria anche se lo sdegno per la decapitazione di David Haines potrebbe indurre il governo di David Cameron ad assumere iniziative militari.

La Francia  vuole limitare l’intervento ad aiuti umanitari e a forniture  di armi a Baghdad e a Parigi in molti evidenziano l’assenza di un mandato internazionale a legittimazione della guerra di Obama. Angela Merkel, che pure ha fornito ai curdi gli aiuti militari più consistenti tra i Paesi europei, ha escluso che la Luftwaffe parteciperà ai raid e l’Italia ha messo a disposizione un aereo cisterna e istruttori per le reclute irachene ma solo se verranno richiesti. Solo l’Australia  si è impegnata a schierare 8 cacciabombardieri F-18 in una base negli Emirati Arabi Uniti. Anche un Paese chiave come la Turchia ha deciso di non partecipare alla guerra contro il Califfato e non consentirà agli USA di utilizzare la base aerea di Incirlik obbligando il Pentagono a utilizzare per i raid l’aeroporto curdo di Erbil.
A complicare la posizione turca contribuiscono anche le rivelazioni dei combattenti stranieri dell’IS catturati che hanno ammesso di essere entrati in Siria attraversando senza difficoltà il confine turco. Se oggi Ankara aderisse alla coalizione rischierebbe un’ondata di attentati e la decapitazione di 46 ostaggi turchi catturati a Mosul e nelle mani del Califfato.

Ankara ha fatto sapere di aver bloccato e rimpatriato circa 870 stranieri giunti nel sud del Pese per arruolarsi con l’IS. Sorprendente poi la rivelazione del quotidiano Taraf che cita esperti americani in Kurdistan che avrebbero catturato miliziani dell’IS equipaggiati con armi turche. Taraf aggiunge che la scoperta sarebbe stata motivo di “forte imbarazzo” per Ankara durante il vertice della Nato in Galles. Dopo aver appreso la notizia il presidente Usa, Barack Obama, avrebbe chiesto espressamente a Erdogan di “allineare la sua politica in Medio Oriente a quella della Nato e degli Stati Uniti”.
Strana affermazione considerato che i servizi segreti statunitensi e dei principali Paesi della NATO hanno cooperato per oltre due anni con turchi, sauditi e qatarini per armare e addestrare i miliziani confluiti nello Stato Islamico in campi sul territorio turco e giordano.

L’impressione è quindi che Washingto, che ha affidato il coordinamento della coalizione al generale John Allen (nella foto a sinistra)  giochi su almeno due tavoli, in Iraq per contenere i miliziani sunniti e in Siria per contrastare anche il regime di Bashar Assad, nemico giurato del Califfato, con un’operazione che rischia di aggravare e allargare il conflitto religioso in atto destabilizzando ulteriormente l’intera regione.
Obiettivi che del resto Washington sembra perseguire ormai da anni in tutte le maggiori aree energetiche (Libia/Nord Africa, Ucraina, Afghanistan/Asia Centrale) da quando l’America ha raggiunto l’autosufficienza energetica e si appresta a diventare il maggiore esportatore di gas e petrolio.

Anche in base a queste valutazioni la Coalizione guidata dagli USA non convince neppure sul piano militare.
Pare evidente infatti che si volesse davvero sconfiggere il Califfato l’unica iniziativa credibile è un’invasione terrestre del suo territorio, come si fece nell’Iraq di Saddam Hussein nel 2003 e nell’Afghanistan dei talebani, nel 2001.

Lo stato Islamico ha una consistenza non solo asimmetrica con terroristi e guerriglieri  ma è un vero e proprio Stato istituito su territori iracheni e siriani con un’amministrazione civile ed economica, persino un fisco e una struttura scolastica e dispone di un esercito strutturato e  guidato da ufficiali baathisti fedeli a Saddam Hussein. L’IS ha dimostrato con l’invasione del nord ovest delI’Iraq di avere capacità militari convenzionali e il suo potere di attrazione nei confronti della società islamica e quindi dei volontari stranieri che affluiscono  ingrossare le fila del suo esercito dipendono in gran parte dal controllo di ampi territori e dalle ricompense che è in grado di offrire ai combattenti: casa, moglie, stipendio. Nonostante l’invasione del territorio dell’IS debba costruire una priorità né gli USA né gli alleati della coalizione intendono fornire le truppe necessarie. I cristiani iracheni, costretti a lasciare le loro case per fuggire dall’IS, contestano la decisione di Barack Obama di non schierare truppe sul terreno. Secondo un reportage della NBC i cristiani ritengono che solo gli USA possano vincere questa guerra mandando i propri soldati in Iraq e Siria, non solo combattendo dai cieli.

“Sono stato con l’esercito iracheno a Mosul per quattro anni e posso dirvi che non facevamo nulla, se non prendere lo stipendio” ha raccontato un ex militare della cittadina cristiana di Qaraqosh convinto che le forze irachene non siano in grado di sconfiggere gli estremisti. “Quando gli americani erano a Mosul, non avevamo problemi” – ha detto un altro profugo intervistato nel capoluogo curdo di Erbil – “Una volta che sono andati via, sono cominciati i problemi”.

L’Iraq non ha capacità offensive credibili: l’esercito è allo sbando, l’aeronautica ha pochi mezzi offensivi, i curdi sono pochi e le milizie scite sono più adatte alle rappresaglie e alla guerriglia che alla guerra convenzionale.
L’’unico strumento militare che può fare la guerra al Califfato è quello siriano che combatte contro lo Stato islamico da sempre e dispone di esercito e aeronautica strutturati per la guerra convenzionale con i mezzi necessari per conquistare un territorio. Invece di aiutare i siriani la coalizione a guida statunitense però li emargina e li penalizza, non solo contro lo Stato Islamico ma anche nel contrasto alle milizie qaediste del Fronte al-Nusra che stanno conquistando il controllo del sud del Paese lungo il confine con Giordania e sul Golan, dove Israele per ora resta a guardare.

Foto: Stato Islamico, US.DoD, Reuters, Ezidi Press, Casa Bianca,

Gianandrea GaianiVedi tutti gli articoli

Giornalista bolognese, laureato in Storia Contemporanea, dal 1988 si occupa di analisi storico-strategiche, studio dei conflitti e reportage dai teatri di guerra. Dal 1991 al 2014 ha seguito sul campo i conflitti nei Balcani, Somalia, Iraq, Afghanistan, Sahara Occidentale, Mozambico e Sahel. Dal febbraio 2000 dirige Analisi Difesa. Ha collaborato o collabora con quotidiani e settimanali, università e istituti di formazione militari ed è opinionista per reti TV e radiofoniche. Ha scritto diversi libri tra cui "Iraq Afghanistan, guerre di pace italiane", “Immigrazione, la grande farsa umanitaria” e "L'ultima guerra contro l’Europa". Presso il Ministero dell’Interno ha ricoperto dal 2018 l’incarico di Consigliere per le politiche di sicurezza di due ministri e un sottosegretario.

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