L’inganno dei jihadisti

 

di Lucio Caraccolo da La Repubblica del 17 settembre 2014

“È stato facile provocare quest’amministrazione e portarla là dove volevamo. Ci basta mandare in Estremo Oriente due mujahidin a sollevare una banderuola di al-Qa’ida perché i generali vi si affrettino, aumentando così le perdite umane, finanziarie e politiche degli Stati Uniti».

Così Osama bin Laden nel “messaggio al popolo americano” trasmesso da al-Jazeera il 30 ottobre 2004. Sostituiamo l’Estremo con il Medio Oriente, al-Qaeda con lo Stato Islamico, e naturalmente Bush con Obama e Osama con il suo fantasmatico emulo, il “califfo” al-Baghdadi: la storia si ripete? Sembrerebbe di sì. Per una reazione compulsiva che non esprime alcuna strategia — lo stesso Obama in un momento di candore ha ammesso di non averne una — pare che questa amministrazione, fino a ieri impegnata a riparare l’errore della guerra in Iraq, ci stia riprecipitando. Senza l’iterativa enfasi di Bush figlio né l’impegno febbrile del suo vice Cheney. Anzi, con rassegnazione e malcelata sfiducia. Ma l’assenza di un disegno (geo) politico può portare Obama a finire il suo mandato da dove aveva cominciato: una prolungata campagna militare in Medio Oriente di cui avrebbe volentieri fatto a meno.

E se è vero, come afferma il Pentagono, che questa battaglia durerà «almeno una generazione» — la stessa frase di Bush dopo l’11 settembre — a occuparsi di Baghdad e dintorni saranno i cinque o sei prossimi inquilini della Casa Bianca. Una dimensione temporale che non ha nulla di politico, molto di metafisico. Come è arrivato Obama a smentire se stesso? E che cosa significa questo per noi italiani, suoi pallidi partner nella coalizione in via di allestimento per sconfiggere l’ultima apparizione nel firmamento jihadista?

La risposta sta in un paradosso e in una conferma. Il paradosso è che un gruppo di jihadisti particolarmente efferati e assai professionali nella manipolazione dei media è in grado di dettare l’agenda di Obama. Caso da manuale di eterodirezione del forte da parte del molto più debole. La conferma è che i nostri governi, non importa di quale colore (o anche di nessun colore), quando l’America si lancia in uno dei suoi azzardi armati, sentono la necessità di segnalarle comunque fedeltà, fosse solo con un gettone di presenza. Per noi, come per altri europei, la dimostrazione dell’incapacità di usare la propria testa.

Foss’anche sbagliando. Ma questo non sorprende. Qualche stupore suscita invece l’incapacità della massima potenza mondiale a muoversi sulla base dei propri interessi, avendo fisso l’obiettivo e modulando i mezzi per coglierlo. Gli Stati Uniti stanno infatti scrupolosamente seguendo il copione previsto dallo Stato Islamico. Il quale persegue lo scopo di legittimarsi come magnete della galassia jihadista su scala mondiale. E insieme costruire una piattaforma geopolitica a cavallo del Tigri e dell’Eufrate, da cui suscitare la rivolta destinata a rovesciare i corrotti regimi “apostati” della regione, Arabia Saudita in testa.

A questo fine, è essenziale per la sigla del “califfo” ergersi a campione della lotta contro gli “imperialisti” occidentali. Costringere gli Stati Uniti a dichiarargli guerra è la medaglia che ogni jihadista vorrebbe potersi appuntare sul petto. Obama ne è perfettamente conscio. Eppure non riesce a non fare ciò che non vorrebbe fare. Perché come molti suoi predecessori non può resistere a un doppio richiamo: quello della propria retorica e quello, ancora più cogente, dell’opinione pubblica. Per retorica s’intende l’ideologia della missione americana.

Se seguisse temperamento, istinto e raziocinio, Obama non s’impegnerebbe in un’invincibile guerra asimmetrica contro non temibilissime schiere di tagliagole, che non chiedono altro. Ma in questo modo dovrebbe abdicare al rango di «nazione indispensabile nel secolo passato e per i secoli a venire», «perno di alleanze impareggiabili nella storia delle nazioni», come proclamato ancora il 28 maggio davanti ai cadetti dell’accademia di West Point. Il principio di realtà ha raramente distinto la politica estera americana.

E non ha premiato, in genere, chi l’ha praticato, magari surrettiziamente: non risulta che Nixon sia ricordato per la geniale apertura alla Cina, con cui diede scacco matto all’Urss. Decisiva poi la pressione degli elettori, moltiplicata dalla prossimità del voto di mezzo termine. Da cui i democratici non si aspettano nulla di buono. E dopo il quale a Obama toccherà forse trascorrere due interminabili anni di umiliazioni, in un tramonto speculare alle formidabili aspettative suscitate dal suo avvento.

Sicché è bastato che lo Stato Islamico pubblicizzasse sulla Rete l’orrore dell’esecuzione di due ostaggi americani per scatenare il riflesso militare in un pubblico che fino a quel momento non inclinava affatto a nuove spedizioni punitive in Iraq o altrove. E per ridare fiato all’esiguo ma combattivo drappello neoconservatore o comunque interventista, tuttora influente nei media e nel Congresso. È scattata così in Obama la necessità del “ do something”, “fare qualcosa”.

Anche se non sa bene cosa né soprattutto perché. La coalizione dei riluttanti assemblata in fretta e furia dalla Casa Bianca non promette un fronte unito né troppo impegnato a combattere i jihadisti del “califfo”. Né Obama sembra disponibile ad ascoltare le sirene che vorrebbero indurlo a mettere «gli stivali sul terreno», come suggerito dallo stesso capo degli Stati maggiori riuniti, generale Dempsey.

Ma le escalation sono sempre possibili quando si entra, sia pure su un piede solo, in una logica di guerra governata dal nemico. Il “qualcosa” rischia di non sembrare mai abbastanza. Il “califfo” non è una minaccia strategica per gli Stati Uniti né per l’Europa. Ma continuando a seguire il suo gioco non dovremo stupirci se ne risulterà imbaldanzito, attivando la rete dei suoi emuli e simpatizzanti nelle comunità più radicalizzate dell’islam occidentale.

Impegnarsi in una guerra che non si vuole combattere fino in fondo, in cui ogni “alleato” cerca di scaricare i costi sull’altro, è peggio che far nulla. Ma sembrerebbe che noi tutti, in questo Occidente incapace di ammettere il proprio declino quanto disposto a negoziare i propri valori, si finisca periodicamente vittime del “ do something”. Nevrosi incurabile?

Foto: US Dod, Reuters, Udine20.it, Stato Islamico

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