L’ITALIA E’ IN GUERRA CONTRO I JIHADISTI…… MA NON LO SA

L’Italia è ormai un Paese belligerante nel conflitto contro lo Stato Islamico solo che il governo non lo dice. Anzi, a dire il vero non dice nulla circa missioni e impegni militari rincorrendo i tempi bui della ferrea censura posta ai tempi dell’ultimo governo Prodi. Ma andiamo con ordine. L’Italia è in guerra con lo Stato Islamico e ad informarci di questo piccolo “dettaglio” ha provveduto l’ex ministro della Difesa, Arturo Parisi (Pd) con un’intervista al quotidiano online “Formiche.net”.
“Dare ai Curdi le armi per combattere lo Stato Islamico e farlo con una decisione istituzionale alla luce del sole, significa riconoscere il nostro coinvolgimento in un conflitto che è difficile non chiamare guerra” ha affermato Parisi utilizzando quella parola (“guerra”) che mai si sarebbe sognato di pronunciare quando era ministro della Difesa. Interessante il suo cambiamento di rotta. Da ministro impediva di parlare con i giornalisti persino agli addetti stampa militari che si trovavano nei teatri operativi: molte battaglie rimasero sconosciute a media e opinione pubblica, cioè ai contribuenti che pagavano il conto. Oggi invece, privo di incarichi di governo, ci informa che siamo in guerra con i jihadisti perché forniamo armi ai curdi.

“Dare armi ai Curdi  e dargliele direttamente, ancorché nel rispetto della statualità irachena è infatti in se’ un riconoscimento di una loro soggettività internazionale aperto sul futuro. E dargliele esplicitamente per combattere la jihad è una scelta di campo che ci compromette nel presente”.
Parole pesanti e chiare, peraltro condivisibili, che sorprendono da un politico che da Ministro  del governo Prodi attuò una rigida censura. Per due anni nessuna notizia venne rivelata sui combattimenti sostenuti dai nostri militari nell’ultima fase della missione in Iraq e in Afghanistan né venne concesso ai giornalisti di visitare quei contingenti.

In quegli anni parole come “guerra” o “combattimenti” erano bandite (come lo sono ora)  dalle note di linguaggio in base alle quali i talebani non erano definiti neppure insorti ma “elementi armati ostili”.  Oggi invece Parisi può permettersi evidentemente di parlare chiaro. “E’ bene che il Paese e l’Europa ne prendano piena coscienza senza farsi illusioni preparandosi ad ogni evenienza futura”. Un avvertimento esplicito quanto opportuno a preparaci alle rappresaglie islamiste che potrebbero assumere la forma di atti terroristici.

La “strategia del silenzio” sulle notizie militari, che ha accomunato da sempre tutti in governi di tutti i colori politici, non è certo terminata. Lo applicò Ignazio La Russa durante la guerra in Libia e oggi sta tornando in auge a Palazzo Baracchini. Del resto la Pinotti non deve avere una gran voglia di improntare il suo ministero alla trasparenza considerato che a capo della comunicazione ha posto Andrea Armaro, che aveva ricoperto lo stesso incarico proprio con Parisi e che fu l’esecutore della più severa e prolungata chiusura mediatica sulle operazioni militari italiane oltremare mai registrata nella storia della Repubblica.

Nelle ultime settimane molti esempi hanno dimostrato il ritorno al “Medio Evo” nella comunicazione del Ministero della Difesa, reso peraltro possibile anche dal “signorsi” dei vertici militari e dal silenzio dei media che sembrano accettare supinamente atteggiamenti che neppure nelle repubbliche delle banane verrebbero digeriti.

La conseguenza è che il confronto con i nostri alleati ci ridicolizza facendo apparire l’Italia, ancora una volta, un Paese del Terzo Mondo, o per meglio dire, un Paese guidato da una leadership da Terzo Mondo.
Qualche esempio fresco fresco? Il portavoce del Pentagono John Kirby ha informato media e contribuenti che i raid aerei contro lo Stato Islamico costano 7,5 milioni di dollari al giorno incluse le spese per le centinaia di consiglieri militari inviati in Iraq e Kurdistan.

Ai contribuenti italiani nessuno ha detto invece quanto ci costerà inviare le armi e le munizioni promesse ai curdi. Sempre ammesso che le mandiamo davvero perché, dopo tutto il polverone sollevato dal governo e la visita lampo di Renzi a Baghdad e Erbil (teso forse a sostenere la nomina di Federica Mogherini a “ministro degli esteri” della Ue)  dei curdi a Roma sembra non freghi più nulla a nessuno. Di certo non se ne sente più parlare.

A quanto ci risulta, neppure una simbolica cassa di petardi “made in Italy” è giunta in Kurdistan e secondo indiscrezioni neanche le armi ex sovietiche sequestrate nel 1994 e stoccate nell’isola si Santo Stefano si sono ancora mosse dalle caverne in cui sono stivate da 20 anni. Dodici giorni or sono in Parlamento il ministro disse che le consegne sarebbero “tempestivamente entrate nella fase operativa” ma di questo passo i curdi soccomberanno o se la caveranno senza il nostro aiuto.

Non che tutti i partner europei siano dei fulmini di guerra. La Germania ha deciso solo ieri cosa inviare ai peshmerga ma, a differenza di quello di Matteo Renzi, il governo di Angela Merkel ha messo nero su bianco sul sito internet della Bundeswehr  la “lista della spesa”. Berlino, che finora non ha mai fornito aiuti militari a Paesi in conflitto, invierà ai curdi 5 mezzi blindati trasporto truppe Dingo (protetti dall’esplosione di mine e IED), 30 lanciatori di missili anti-carro Milan con 500 missili, 240 lanciarazzi Panzerfaust con 3.500 razzi, mille bombe a mano,  8.000 fucili d’assalto G3 con 2 milioni di munizioni e 8 mila G-36 con 4 milioni di proiettili, 40 mitragliatrici MG con un milione di proiettili più  elmetti, giubbotti antiproiettile, tende e  radio idonei a equipaggiare migliaia di combattenti.

Se, da italiani, avete voglia di farvi del male fate un confronto con quanto pubblicato dalla Difesa tedesca e le poche righe che trovate circa il supporto militare italiano ai curdi sul sito del Ministero della Difesa. Il ministro Ursula von der Leyen (nella foto a sinistra) ha avuto persino il buon gusto di informare i contribuenti teutonici che l’equipaggiamento per i curdi verrà  prelevato dalle scorte dell’arsenale della Bundeswher e che è valutato 70 milioni di euro a cui si aggiungono altri 50 milioni di euro per gli aiuti umanitari.

Invece in Italia né la Pinotti né il suo staff ci hanno ancora detto quanto ci costerà portare le armi ai curdi, né quante armi e munizioni consegneremo né di quali tipi e modelli. Certo qualcosa è trapelato ma nessuna fonte ufficiale ha definito ufficialmente e apertamente le forniture mentre sui costi il ministro ci ha detto che trattandosi di equipaggiamenti vecchi, surplus o requisiti, gli unici costi sono relativi al trasporto via aereo e via nave. A quanto ammontino questi costi però nessuno lo dice ma si parla di 400 mila euro solo per spostare i container dall’isola di Santo Stefano.

Se la Germania vi sembra un altro pianeta rispetto all’Italia quanto a trasparenza dell’amministrazione della Difesa preparatevi a digerire il fatto che lo è anche l’Albania. Come abbiamo raccontato nei giorni scorsi, non senza un velo di ironica amarezza, anche Tirana ha impartito all’Italia una bella lezione rendendo noti i quantitativi di munizioni che fornirà ai curdi. Roma, che nega le stesse informazioni ai contribuenti italiani, li obbliga però a pagare anche il trasporto degli aiuti militari albanesi che verranno portati ai curdi con mezzi italiani e a spese nostre. Speriamo che in cambio del supporto logistico il ministro della Difesa albanese, la signora Mimi Khodeli (nella foto a sinistra), voglia prestare alla Pinotti i suoi esperti di comunicazione per tenere un bel corso sul tema “democrazia, informazione e trasparenza”, meglio se con stage pratico.

Già perché la censura sulla comunicazione della Difesa italiana posta dal ministero non riguarda solo le armi ai curdi ma tutte le informazioni importanti relative alle operazioni in atto. Ad esempio non ci sono dati circa i costi del ritiro di mezzi e materiali dall’Afghanistan che complessivamente richiederà, secondo le stime  pubblicate da La Stampa, 21 navi commerciali e un migliaio di voli di grandi velivoli cargo in gran part noleggiati. Poiché l’operazione è già stata compiuta per oltre due terzi è facile immaginare che un’idea più o meno precisa dei costi complessivi il ministro e il suo staff ce l’abbiano. Visto che paghiamo noi perché non dircelo?  Temono forse un calo di popolarità  e di consensi? Strano che si pongano questo problema, in fondo anche questo governo mica lo hanno scelto gli elettori.

Un altro esempio? Da inizio agosto sono basati a Gibuti 2 droni italiani Predator A Plus con 140 militari dell’Aeronautica che dovranno sorvegliare i movimenti dei pirati e dei miliziani somali. Questo riferiscono fonti ben informate ma dal Ministero nessuna notizia: nascondono persino le missioni e interi contingenti inviati all’estero.
Difficile quindi che le dichiarazioni di Arturo Parisi circa la belligeranza dell’Italia abbiano una vasta eco. Roma dovrebbe forse considerarsi in guerra con i jihadisti e rischiare ritorsioni terroristiche per un numero imprecisato di armi ai curdi che non solo non ha finora consegnato ma neppure spostato dai depositi?
Ma suvvia, i jihadisti dello Stato Islamico hanno cose più importanti di cui occuparsi come fare la guerra, allargare il Califfato, raccogliere schiave e mozzare teste. Non hanno certo tempo di giocare coi boy scout.

Foto: AP, Ministero Difesa tedesco, Internet, Stato Islamico, Reuters, www.difesa.it

Gianandrea GaianiVedi tutti gli articoli

Giornalista bolognese, laureato in Storia Contemporanea, dal 1988 si occupa di analisi storico-strategiche, studio dei conflitti e reportage dai teatri di guerra. Dal 1991 al 2014 ha seguito sul campo i conflitti nei Balcani, Somalia, Iraq, Afghanistan, Sahara Occidentale, Mozambico e Sahel. Dal febbraio 2000 dirige Analisi Difesa. Ha collaborato o collabora con quotidiani e settimanali, università e istituti di formazione militari ed è opinionista per reti TV e radiofoniche. Ha scritto diversi libri tra cui "Iraq Afghanistan, guerre di pace italiane", “Immigrazione, la grande farsa umanitaria” e "L'ultima guerra contro l’Europa". Presso il Ministero dell’Interno ha ricoperto dal 2018 l’incarico di Consigliere per le politiche di sicurezza di due ministri e un sottosegretario.

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