L’Italia potrebbe anche dire no, qualche volta
di Giuseppe Cucchi da Affari Internazionali
Commentando le conclusioni del vertice della Nato, alcuni notano che, per l’Italia, sarebbe forse bene concentrare attenzione e risorse su problemi di suo reale interesse, come la Libia, anziché disperderli a pioggia sull’intero ventaglio delle crisi.
Sul Corriere della Sera, Francesco Battistini si meraviglia del fatto che il nostro paese si sia impegnato a lasciare ben ottocento soldati in Afghanistan, con compiti di addestramento, nel periodo successivo alla conclusione ufficiale della operazione Nato-Isaf, e dopo che molti dei principali protagonisti, primi fra tutti gli Usa, avranno definitivamente chiuso quella avventura. Battistini definisce il nostro impegno in Afghanistan “generosita” senza contropartite”, ricorda il pesante costo della operazione in vite italiane (più di cinquanta morti!) e pone un interrogativo estremamente delicato: ne è valsa la pena?
Abbiamo giocato la carta militare
Per molte ragioni, in un periodo di crisi economica e di eclissi politica del nostro paese, le Forze Armate erano rimaste più o meno l’unico gettone valido che l’Italia poteva spendere con onore sui tavoli della politica internazionale. Negli ultimi trenta anni noi abbiamo quasi sempre risposto sì a tutte le richieste di partecipare a forze di peace-keeping o a coalitions of the willing che ci sono state rivolte.
Il processo è iniziato con le due operazioni in Libano dell’inizio degli anni Ottanta,è proseguito con lo sminamento degli sbocchi del Canale di Suez e con la prima di quelle operazioni nel Golfo Persico che sono poi cresciute di importanza negli anni successivi, ed ha continuato in crescendo sino a portarci oggi ad essere “fra i maggiori contributori di truppe per le necessità delle Organizzazioni Internazionali”.
Una frase che a prima vista suona come un riconoscimento positivo, e che certamente lo è per tutti i militari che in questi trenta e passa anni di impegno hanno lavorato all’estero con silenziosa efficienza contribuendo a ricostruire una immagine dell’Italia che altri avvenimenti ed altri protagonisti si accanivano invece a tentar di distruggere. Un bilancio serio della nostra partecipazione alle avventure militari “oltralpe ed oltremare” non è però mai stato fatto. Allorché se ne parla le risposte restano sempre molto vaghe.
Siamo andati per solidarietà, perché non potevamo lasciare soli i nostri alleati, perché c’erano violazioni intollerabili dei diritti umani, perché l’incendio nel campo del vicino avrebbe potuto estendersi, perché il rifornimento di energia doveva essere garantito, perché altrimenti non avremmo partecipato alla spartizione della torta della ricostruzione, perché non si poteva lasciare un paese nel medio evo alla vigilia del XXI secolo, perché ce lo imponevano i trattati, perché ci eravamo già impegnati in altra sede e via di questo passo.
Una serie di affermazioni abbastanza generiche, tali da a giustificare anche le scelte più assurde.
Sono stati commessi errori
Un esempio: la scelta di partecipare alla guerra del Kosovo, con cui abbiamo ribaltato una politica che era stata valida per cento anni ed aveva visto Italia e Francia alleate alla Serbia nello sforzo di fermare all’altezza della Croazia la penetrazione della influenza tedesca nei Balcani.
Come risultato finale di quel conflitto ora l’influenza tedesca si estende sino alla Turchia e noi siamo tra quelli che più hanno pagato e più stanno ancora pagando (quante truppe italiane rimangono oggi nei Balcani?) per questa estensione.
Oppure la scelta di associarci alla guerra contro Gheddafi, dimenticando trattati internazionali firmati poco tempo prima, rifiutando di vedere come il Colonnello (pur con tutti i suoi imperdonabili peccati di dittatore) fosse ormai divenuto un elemento di stabilità per il Maghreb e il Sahel.Queste scelte sono state effettuate senza avere una visione complessiva dei problemi. Una dimostrazione di come, in questo settore, l’Italia stia pagando l’assenza di quel National Security Council di cui, purtroppo senza alcun risultato, è stata più volte richiesta la costituzione. È giunto però il momento in cui si impone anche in questo settore una seria “spending review “.
Costi più che benefici?
Le missioni all’estero costano care, non solo in termini di sangue, ma anche in termini economici. Un documento serio a riguardo non è mai stato pubblicato.
Esiste la documentazione ufficiale che viene presentata al Parlamento in occasione del voto per il finanziamento delle missioni, che copre una parte della realtà. Manca però la parte che riguarda il logoramento di uomini e mezzi nonché il calcolo di altre spese indirette. C’è la naturale tendenza a minimizzare i totali nella paura che il budget non venga approvato.
Altrettanto assente è la valutazione di quanto abbiamo, o non abbiamo, guadagnato dalle missioni. Pochissimo certo in campo economico, poiché non abbiamo mai pienamente partecipato ad una supposta spartizione della “torta della ricostruzione” (a fronte di altri alleati più forti e preparati).
Dal punto di vista politico il bilancio è più complesso, anche se a volte abbiamo dovuto ricorrere addirittura alle maniere dure per farci riconoscere quanto ci spettava. Per entrare nel “Gruppo di contatto” per la Jugoslavia Susanna Agnelli, allora ministro degli Esteri, dovette minacciare di interdire al rischieramento della flotta aerea Nato il nostro territorio nazionale. Nel complesso però un bilancio serio risulterebbe probabilmente in pari, anche se evidenzierebbe impietosamente come alcune delle operazioni siano state ad essere ottimisti superflue e pesino quindi sui conti soltanto dal lato delle uscite.
Infine il bilancio militare, positivo come già detto per molti aspetti, ha evidenziato i soldati italiani come i migliori peace-keepers del mondo. Per partecipare alle operazioni oltremare le nostre Forze Armate hanno però dovuto dimenticare tutto il resto, penalizzando le spese di addestramento ed esercizio. In sostanza, questi impegni stanno da troppo tempo drenando le risorse disponibili, a scapito degli altri settori di interesse.
Si può continuare così? È arrivato il momento di domandarsi se valga la pena continuare come si è fatto sino ad ora, rispondendo prontamente si ad ogni richiesta e mantenendosi pronti a partire per difendere interessi spesso soltanto o principalmente altrui anche su fronti lontani e per noi trascurabili.
O se non sia invece arrivato il momento di fare scelte precise, di chiederci chi siamo e cosa vogliamo. E di decidere di conseguenza avendo la dignità ed il coraggio di rispondere di no ogniqualvolta ciò si riveli necessario.
Il generale Giuseppe Cucchi (nella foto d’apertura) è stato Rappresentante militare permanente presso la Nato e l’Ue e Consigliere militare del Presidente del Consiglio dei Ministri.
Foto: Isaf, Stato Islamico, Reuters, Aeronautica Militare
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