GLI ITALIANI IN LIBIA? SOLO COL CASCO BLU E SE CE LO CHIEDE L'ONU

Roma potrebbe inviare truppe in Libia ma solo per una missione di pace gestita dalle Nazioni Unite. Lo hanno evidenziato nel giro di pochi giorni prima in un’intervista a La Repubblica il ministro degli Esteri Paolo Gentiloni, poi in un‘intervista televisiva a Rai 2 il ministro della Difesa, Roberta Pinotti.

“Un intervento di peacekeeping” in Libia, ha detto Gentiloni, “rigorosamente sotto l’egida dell’Onu, vedrebbe l’Italia impegnata in prima fila”. L’intervento militare, secondo il titolare della Farnesina, dovrebbe però essere “preceduto dall’avvio di un percorso negoziale verso nuove elezioni” in Libia “garantito da un governo di saggi” senza il quale la missione “rischia solo di peggiorare la situazione”. Affermazione curiosa tenuto conto che in Libia si è votato il 25 giugno e anche se l’affluenza è stata solo del 25% per cento a causa di scontri armati e disordini il suo esito è stato riconosciuto finora dalla comunità internazionale.

“Su mandato Onu siamo sicuramente disponibili ad interenire in Libia”, per contrastare possibili degenerazioni nel paese e il prevalere di spinte estremistiche. Ha detto il 2 dicembre Roberta Pinotti,  rimarcando l’estendersi del rischio del cosiddetto Stato Islamico.

“Il nostro primo obiettivo è che la Libia non si divida perché sarebbe un gravissimo errore. Già oggi vi sono due parlamenti e due governi, ma per intervenire occorre farlo col piede giusto, quindi, la prima decisione dovrà arrivare dall’Onu mentre, altro elemento, sarà quello di un dialogo con almeno una delle parti in lotta”.

Dichiarazione che sembra mettere sullo stesso piano il governo legittimo insediatosi a Tobruk e quello degli islamisti (Fratelli Musulmani più milizie salafite più milizie tribali di Misurata) insediatosi a Tripoli dopo averla espugnata strappandola alle milizia filo governative di Zintan.

Difficile capire dalle parole dei due ministri da che parte sta l’Italia nella guerra civile libica. Ufficialmente sosteniamo, come tutto l’Occidente, il dialogo portato avanti dall’ONU finora senza molto successo.

Le parti dovrebbero riunirsi il 9 dicembre ma finora non é stato possibile neppure instaurare una tregua. Del resto non si combatte solo tra fronte islamista ”Alba della Libia” e governativi guidati dal generale Khalifa Haftar ma, in Cirenaica, anche tra questi ultimi e i qaedisti del gruppo Ansar al Sharia e le forze del Califfato di Derna che hanno giurato fedeltà all’Stato Islamico di Iraq e Siria.

In questo contesto fa sorridere che Pinotti e Gentiloni abbiamo sottolineato che il possibile intervento italiano sarò inquadrabile solo in un’azione di peacekeeping. “Vogliamo, come Italia, giocare un ruolo da protagonista per la pace in Libia ma non lo possiamo fare da soli.

Per questo ne parlerò il 10 dicembre prossimo a Granada nel corso di un incontro interministeriale tra i cinque ministri della Difesa dei Paesi europei che si affacciano sul Mediterraneo e cinque colleghi dei paesi del Nord Africa.

In Libia c’è la guerra civile, nessuna pace da mantenere, e dobbiamo ancora discutere con i partner regionali se sia il caso o no di intervenire?

E per fortuna che per Gentiloni la Libia è una spina nel fianco che rappresenta per l’Italia “un interesse vitale per la sua vicinanza, il dramma dei profughi, il rifornimento energetico”. Se sono questi i riflessi e la tempistica con cui difendiamo gli interessi nazionali prioritari c’è da stare allegri…..

Perché l’Italia aderisce a una Coalizione che in Iraq e Siria non attua di certo una missione di peacekeeping ma dichiara di voler combattere i jihadisti e in Libia non dovremmo fare altrettanto? Solo perché dovremmo farlo da soli, o quasi, o senza la “tutela” statunitense o della Ue?

Perché aiutiamo con armi e mezzi il corrotto governo sciita iracheno ma non, con gli stessi mezzi, il legittimo governo libico, peraltro laico, che si oppone a islamisti di ogni risma?

Le parole di Gentiloni e Pinotti hanno confermato la linea italiana basata come sempre sull’opportunismo. Attendiamo gli eventi per vedere cosa succederà dimenticando che nella primavera scorsa il Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio con delega ai servizi segreti, Marco Minniti (nella foto qui sotto) , uno dei pochissimi esponenti di spicco per competenza e capacità dell’attuale governo, aveva ammonito che avevamo sei mesi per evitare che la Libia ci esplodesse in faccia.

Il tempo è scaduto ma invece di schierarsi e contribuire con decisione a stabilizzare la Libia a Roma sembrano preoccuparsi di non scontentare i Paesi coinvolti in questa crisi sulla nostra ex quarta sponda, tutti nostri clienti.

In Libia si combattono per procura Egitto e Qatar. Il primo, insieme a sauditi ed Emirati Arabi Uniti, sostiene con armi e aiuti  il governo di Tobruk come sembrerebbe fare con meno pubblicità anche l’Algeria.

Il secondo appoggia, insieme alla Turchia, gli islamisti libici anche con l’obiettivo di colpire l’Egitto. Il Qatar del resto sostenne anche il governo egiziano della “fratellanza” di Mohanmed Morsi deposto dall’attuale presidente, il  generale al-Sisi.

Se ci schierassimo contro gli islamisti libici avremmo il plauso di Emirati ed Egitto ma non certo di Qatar e Turchia con cui abbiamo un importante interscambio commerciale e a cui cerchiamo di vendere armi anche di valore strategico. Senza dimenticare che il Qatar è uno dei maggiori investitori stranieri in Italia dove compera proprietà e aziende.

Così restiamo a guardare i nostri interessi nazionali e i nostri soldi investiti in Libia andare in fumo (o trasformarsi in interessi di qualche altra Nazione) fingendo di attendere una “missione di pace” dei caschi blu che in realtà nessuno sembra volere per la semplice ragione che i soli Paesi a subire danni dalla situazione libica sono quelli confinanti.  Italia, Egitto, Algeria e Paesi del Sahel che non a caso premono da anni per un intervento internazionale, non di pace ma contro gli islamisti.

Non ci sono segnali che Onu, Ue e Nato intendano mobilitarsi in armi, anzi, Stati Uniti e Gran Bretagna sembrano premere sugli alleati per scoraggiare ogni intervento esterno.  In ogni caso, visti i precedenti recenti meglio non attendersi aiuti dai nostri “alleati”.

Le condizioni per un intervento ipotizzate da Gentiloni e Pinotti ben difficilmente si concretizzeranno anche perché nessuno dei contendenti (e dei loro sponsor esterni)  sembra cercare davvero il negoziato e poi non si vedono proprio i “saggi” (ammesso che ne esistano in Libia) a cui Gentiloni vorrebbe affidare un governo di transizione in un Paese in mano a milizie, criminali ed “eserciti tribali”.

A fine settembre il fronte islamico “Alba della Libia” aveva respinto ogni ipotesi di dialogo dichiarandosi convinto che “l’unica soluzione per combattere chi ostacola la rivoluzione sia quella militare”.

Anche le forze governative guidate dal generale Khalifa Haftar (nella foto a sinistra) puntano sulle armi avanzando a Bengasi e minacciando Tripoli grazie all’appoggio ricevuto dall’Egitto che da mesi chiede invano all’Italia di sostenere militarmente il governo legittimo.

Se in Libia vogliamo difendere i nostri interessi meglio farlo al più presto e accettare che dovremo farlo da soli, magari coordinandoci con i partner africani. Meglio così che con “alleati” come francesi e anglo-americani dai quali incassiamo, come dai tedeschi, solo sonore fregature.

Continuiamo a schierare truppe nei Balcani, in Libano, in Afghanistan e ora di nuovo in Iraq, dove non siamo e non saremo mai protagonisti, ma non le impieghiamo dove sono in gioco i nostri interessi.

Se davvero volessimo combattere lo Stato Islamico avremmo schierato a Tobruk il dispositivo dislocato in Kuwait per la guerra in Iraq, ancor meglio se con bombardieri Tornado armati di bombe e missili. Dovrebbe preoccuparci di più il Califfato a Derna (500 chilometri dalle coste italiane) che quello a Mosul e Raqqa.

Con le stesse forze aeree (droni, bombardieri e tanker) e terrestri (istruttori e consiglieri  militari) potremmo contribuire direttamente e con costi minori alla guerra contro jihadisti e islamisti in Libia affiancando l’Egitto nel sostenere il governo legittimo libico.

Solo così, non accodandoci a una eventuale missione dell’ONU, potremmo recuperare quel ruolo di potenza regionale nel Mediterraneo a cui stiamo gradualmente abdicando dopo la sconfitta umiliante rimediata nel 2011 quando fummo costretti dai soliti “alleati” a combattere contro Muammar Gheddafi tradendo il Trattato bilaterale di amicizia italo-libico.

Recuperare quel ruolo di potenza regionale oggi servirebbe anche a bilanciare il peso crescente della spregiudicata Turchia, certo più povera dell’Italia in termini di PIL ma con una classe dirigente di spessore così elevato da tenere testa agli Stati Uniti nel perseguire gli  interessi nazionali.

Invece di tutelare i nostri interessi nazionali continuiamo a buttare forze e denaro in missioni che servono solo ai nostri “alleati” dai quali dovremmo invece diffidare. Dopo la decisione russa di rinunciare al gasdotto South Stream il presidente del Consiglio Matteo Renzi ha detto che per noi quel canale di approvvigionamento non era più strategico poiché puntiamo su Caucaso e Africa.

Tutte aree certo piuttosto turbolente (inclusa l’Algeria che combatte da oltre 20 anni contro estremismo e terrorismo islamico) e di sicuro meno affidabili della Russia che abbiamo trasformato in nemico in ossequio ai “diktat” dei nostri “alleati”. Se è in Nord Africa la nostra “ultima spiaggia” energetica meglio prepararsi a prendere quanto meno il controllo dei terminal petroliferi libici e del gasdotto che da Melitha raggiunge Gela sotto il Canale di Sicilia.

E già che ci siamo potremmo impiegare finalmente la flotta per bloccare i porti da cui salpano i barconi di immigrati diretti in Italia che da troppo tempo arricchiscono mafie e politicanti arabi ma anche nostrani, come sembrano dimostrare le ultime inchieste giudiziarie.

Invece di continuare a fare le comparse in un’improbabile missione dell’ONU o i vassalli delle ambigue missioni a guida USA faremmo meglio ad assumerci qualche responsabilità nel “nostro” Mediterraneo a tutela dei nostri interessi oggi che la Libia ci esplode in faccia. Del resto non c’è bisogno di tornare ai tempi dell’Impero per trovare esempi di interventi italiani di stabilizzazione.

Nel 1997 ci assumemmo l’onere di stabilizzare l’Albania sprofondata nel caos varando l’operazione “Alba” che ci vide guidare una missione a cui parteciparono anche piccoli contingenti di altri Pesi europei. Certo all’epoca l’Italia era un’altra Nazione rispetto a oggi. Tanto per cominciare avevamo un governo il cui premier, Romano Prodi, per governare aveva dovuto vincere le elezioni.

Certo oggi può apparire incredibile ma nel 1997 potevamo ancora stampare moneta, le tanto disprezzate lire che ci hanno garantito a lungo la libertà finanziaria, godevamo ancora di una sovranità nazionale ma soprattutto a Roma c’era una più ampia consapevolezza degli interessi nazionali.

Foto: Reuters, Difesa.it, Esteri.it, Lettera 35

Gianandrea GaianiVedi tutti gli articoli

Giornalista bolognese, laureato in Storia Contemporanea, dal 1988 si occupa di analisi storico-strategiche, studio dei conflitti e reportage dai teatri di guerra. Dal 1991 al 2014 ha seguito sul campo i conflitti nei Balcani, Somalia, Iraq, Afghanistan, Sahara Occidentale, Mozambico e Sahel. Dal febbraio 2000 dirige Analisi Difesa. Ha collaborato o collabora con quotidiani e settimanali, università e istituti di formazione militari ed è opinionista per reti TV e radiofoniche. Ha scritto diversi libri tra cui "Iraq Afghanistan, guerre di pace italiane", “Immigrazione, la grande farsa umanitaria” e "L'ultima guerra contro l’Europa". Presso il Ministero dell’Interno ha ricoperto dal 2018 l’incarico di Consigliere per le politiche di sicurezza di due ministri e un sottosegretario.

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