Crisi Libica: quali prospettive?
ANALISI DIFESA pubblica questo documento di base di un più articolato ed approfondito elaborato in corso di approntamento da parte della Fondazione I.C.S.A. (Intelligence Culture and Strategic Analisys), in cui verrà delineato il ruolo dell’Italia per ogni possibile tutela degli interessi nazionali in Libia.
Premessa storico-etnica
Il mosaico etnico-tribale, tenuto insieme per poco più di 42 anni dal colonnello Muammar Gheddafi, si articola in inestricabili divisioni etniche – nell’ambito di circa 140 tribù – che possono essere poste a premessa della cause principali della rivolta contro il Rais.
La Libia non è mai stato un Paese unitario e il territorio libico, non meno frammentato della popolazione, è articolato in tre grandi aree: Tripolitania, Cirenaica e Fezzan. Tripolitania – già area berbera e già Maghreb – e Cirenaica, appendice dell’Egitto, sono due regioni diverse, fra le quali c’è la Sirte, un deserto che separa queste due realtà, abitate da tribù differenti.
Tripolitania e Cirenaica fanno parte della fascia mediterranea verdeggiante ed abitabile, mentre il Fezzan è posto al centro del deserto del Sahara insieme al quale costituisce la linea di demarcazione fra “Africa bianca” ed “Africa nera”. La prima si estende dallo stretto di Gibilterra al canale di Suez, affacciandosi sul Mediterraneo, mentre l’altra si colloca a sud del deserto sahariano. La fascia mediterranea è ovviamente quella più fertile ed ospitale, mentre l’area meridionale è aspra ed inospitale.
Le due etnie principali del popolo libico sono gli arabi (circa 4.500.000) e i Berberi (circa 500.000), gli uni suddivisi in miriadi di confraternite islamiche, gli altri in clan molto spesso in forte contrasto fra loro. Una terza etnia è costituita dai Tebu, (circa 200.000), sparsi in un’area ai margini del Sahara che abbraccia Niger, Ciad e Libia e circa un milione di stranieri fra sudanesi, egiziani, nigeriani, maliani, ecc..
I Tebu – i cui usi familiari e sociali sono strettamente regolati dall’Islam – appartengono al gruppo etnico sahariano, ceppo etiope: sono pastori nomadi che impiegano soprattutto i dromedari, abitano in grandi tende smontabili e percorrono ampi spazi alla ricerca dei pascoli.
Per fare chiarezza sull’attuale intricata ed ingovernabile situazione libica occorre tracciarne una breve sintesi storico-etnica anche per comprendere le istanze della popolazione ed individuare gli sponsor esteri che ne alimentano le rivalità.
Cirenaica
La regione è abitata prevalentemente da arabi che, giunti nell’area intorno al VII secolo d. C., hanno islamizzato il Maghreb. Sono essenzialmente di fede sunnita e sono organizzati in tribù fra cui i Qadhafa, tribù alla quale apparteneva Muammar Gheddafi.
Fra i principali diffusori dell’islam nell’area va annoverato Muhammad ibn Ali al-Sanusi (Algeria 1787 – Libia 1860), denominato al Sanusi da un suo maestro mussulmano. Sanusi faceva risalire la sua discendenza da Faṭima, figlia di Maometto e studiò in una madrasa di Fez (Marocco) per poi iniziare a viaggiare facendo il predicatore. Nel corso delle sue peregrinazioni approdò all’università religiosa al-Azhar de Il Cairo, ove divenne un consapevole critico degli ulema egiziani che giudicava troppo ossequiosi nei confronti delle autorità ottomane.
Dall’Egitto passò in Arabia Saudita ove allacciò stretti contatti con i wahhabiti, all’epoca attivi contro l’Impero Ottomano, attirandosi le attenzioni ed i sospetti di quelle autorità. Sentendosi eccessivamente controllato ritornò verso la terrai origine e nel 1843 si stabilì vicino Derna costituendo la confraternita della Sanussiyya ed espandendo le sue teorie religiose – basate su austerità e semplicità di vita – in tutto il Maghreb.
La sua dottrina attrasse numerose tribù beduine il cui sistema di vita, semplice e spartano, non era cambiato molto rispetto ai primi insegnamenti del profeta Maometto.
La confraternita si compone di diverse zawiya (che significa “angolo” ovvero punto di incontro di due linee). E’ una comunità di fedeli disponibili a creare convergenze fra culture differenti in cui si ritrovano persone che si distinguono per superiorità d’ingegno, destinate a costituire la futura classe dirigente del paese. Sulle zawiya, che assolvono anche le funzioni di madrase, ospedali e luoghi di accoglienza peri viaggiatori, Idris fondò la sua autorità in Cirenaica.
Il fondatore della senussiya – Muhammad ibn Ali al-Sanusi – era un mistico, un sufi, un uomo che asseriva di essere in contatto con Dio, dotato di grande autorità derivante dalle numerose capacità attribuitesi e cioè: legittima guida spirituale, attività psicoterapeutiche, baraka, ovvero potere di impartire la benedizione di Dio, potere di operare grazie e miracoli.
Per queste asserite doti era ritenuto uno dei pochi eletti da Dio ed inoltre, in quanto sufi, nel comunicare ai devoti (solo a coloro giudicati degni) la via per raggiungere Allah attraverso la preghiera, veniva investito anche del titolo di Scheik. Egli gestì sapientemente questi fattori religiosi anche in politica, tant’è che solo lui poteva vantare in Libia una così imponente autorità politico-religiosa.
Nel 1855 al Sanusi si sottrasse ulteriormente dalla diretta sorveglianza delle autorità ottomane e si spostò ad al-Jaghbub (attuale Giarabub), a pochi chilometri dal confine egiziano ove morì nel 1860, lasciando suoi eredi i figli, Muḥammad Sharif e Muḥammad al-Maḥdi, ai quali affidò la successione della confraternita. Negli anni successivi, dopo l’insediamento di Derna e di Giarabub, fiorirono numerose altre zawiya: soprattutto a Misurata, a Benghazi ed a Zuila (Fezzan). L’attività di proselitismo dei numerosi ed intraprendenti adepti della confraternita si estese sia nella maggior parte delle città della Libia sia in regioni (vilâyet) ad di fuori di essa: verso il Nord del Ciad e del Niger, verso l’Ovest dell’Egitto ed il Nord del Sudan, nonché verso il Sud della Tunisia e dell’Algeria.
Nel 1911 ambizioni coloniali italiane spinsero il “governo Giolitti“ a tentare la conquista della Cirenaica e della Tripolitania, ultime province ottomane nel nord Africa non ancora occupate dalle potenze europee. Negli ultimi anni del 19° secolo, il dominio turco sulla Tripolitania é stato rivendicato dall’Italia e nel 1887 i Britannici, allo scopo di stornare le ambizioni di Roma sull’Africa Orientale e, nel contempo, limitare quelle francesi per un’espansione a sud del Mediterraneo, favorirono il progetto italiano di espansione in Libia. Nel 1902, anche la Francia lasciò le mani libere all’Italia, in cambio del riconoscimento dei suoi diritti sul Marocco.
La guerra durò un anno e nel 1912 venne firmato un trattato di pace a Losanna con il quale le parti convenivano l’annessione della Tripolitania e della Cirenaica all’Italia che vi avrebbe esercitato l’amministrazione militare e civile mentre la Turchia ne manteneva quella giuridica e religiosa.La resistenza della popolazione al dominio italiano fu notevole e divenne ancora più pressante quando l’Italia nel 1914 entrò in guerra a fianco della Triplice Intesa e contro l’Impero Ottomano.
Nel 1916 la responsabilità della Senussyya passò nelle mani di Sidi Muhammad Idris al-Mahdi al-Senusi, (Giarabub, 1890 – Il Cairo 1983) – dopo la rinuncia dello zio Muhammad al-Sharif al-Senusi – che sobillò tutte le tribù arabe in una sanguinosa guerriglia contro l’occupazione italiana, fomentato dalla Turchia.
Alla fine della prima guerra mondiale, nel 1920, Idris venne riconosciuto dagli Italiani come capo della confraternita con il titolo di Emiro della Cirenaica e della Tripolitania, affiancati in questo riconoscimento dai Britannici che intendevano mantenere tranquilli i senussi dell’area occidentale egiziana.
In qualità di emiro, Idris cercò di negoziare l’indipendenza della Cirenaica e della Tripolitania, ma nel 1922, quando gli Italiani cominciarono ad occupare militarmente anche i territori del Fezzan, si ritirò in esilio in Egitto, base dalla quale organizzò la guerriglia contro il governo coloniale italiano.
Nel corso del periodo di dominazione italiana (1911-1943) la confraternita senussita ha giocato il ruolo di “aggregante nazionale” alla stregua di un movimento nazionalista. Per questo motivo Idris el Senusi è stato considerato come il “padre fondatore” della nazione, perlomeno nella Cirenaica e nel Fezzan. Durante la seconda guerra mondiale, i Senussi adottarono un atteggiamento strumentalmente filo-britannico per impedire che la Cirenaica cadesse nuovamente in mano italiana ed Idris nel 1942, dopo la sconfitta dell’esercito italo-tedesco, fece ritorno a Bengasi, dove formò un governo ufficiale, sotto il protettorato britannico ed a partire dal 1943, con le forze dell’Asse respinte verso la Tunisia, iniziò ad amministrare la Cirenaica e la Tripolitania, mentre la Francia, da parte sua, occupava il Fezzan.
Da Bengasi, Idris stesso guidò la delegazione che trattò con il Regno Unito e le Nazioni Unite l’indipendenza libica, ottenuta il 24 dicembre 1951 quando fu proclamato Re della Libia col titolo di Idris I.
La Libia, ottenne l’indipendenza il 10 agosto 1952 con l’evacuazione francese del Fezzan, riunificando tre entità autonome in uno stato federale e costituzionale.
La concessione dell’indipendenza, a uno Stato non in grado di finanziarsi autonomamente, è equivalso a porlo sotto il controllo di USA e Gran Bretagna – infatti, re Idris consentì una presenza militare delle due potenze in cambio di aiuti finanziari – con esclusione dell’Italia e della Francia dal controllo del territorio libico, tentato dal fallito compromesso Bevin-Sforza. Inoltre l’indipendenza della Libia, segna la dominazione della Cirenaica sulla Tripolitania ed il re Idris incentra la sua monarchia costituzionale sulla sua tribù, i Barasa, alleata con le altre tribù della Cirenaica, invece che sulla confraternita senussita.
Nel periodo 1951 – 1954:
– con i Britannici fu firmato un trattato di alleanza militare, in virtù degli speciali rapporti da sempre intercorsi con re Idris risolutamente filo-inglese;
– con gli Statunitensi – verso cui il re e gli ambienti politici libici nutrivano una maggiore diffidenza- non si andò oltre un semplice accordo per l’affitto della base aerea di Wheelus Field (Tripoli). Per tale motivo gli stessi Statunitensi saranno sempre contrari a un completo ritiro inglese dalla Libia e non potranno mai sostituirsi completamente alla Gran Bretagna nello scacchiere libico.
In conformità con la Costituzione, il regno aveva un governo federale con tre Stati autonomi: Cirenaica, Tripolitania e Fezzan e due città-capitale Tripoli e Bengasi. Tale struttura governativa fu abolita nel 1963 ed il territorio venne riorganizzato in 10 governatorati.
La politica di allineamento del nuovo regno con l’Occidente generò la contestazione popolare che si estese progressivamente a macchia d’olio, alimentata da tre principali correnti di pensiero: baathista, nasseriana ed islamista (Fratelli mussulmani). Inoltre, gli introiti della vendita del petrolio oltre a far venir meno la necessità degli aiuti economici alla Libia, rendevano anche poco opportuna oltre che pericolosa la presenza militare anglo-americana sul suolo libico.
Nel 1969 Re Idris fu indotto ad abdicare in favore di Sayyid Ḥasan che, come nuovo re di Libia e capo della confraternita della Sanūsiyya, fu monarca per brevissimo tempo in quanto il 5 settembre 1969 fu incarcerato da Gheddafi e detenuto per lunghi anni. Tuttora la sede della ṭarīqa dei Senusi, che si presenta come un movimento politico-religioso moderato, è a Londra.
Tripolitania
Il nome deriva dal greco Tripolis (cioè tre polis), le tre principali città di origine punica della costa occidentale della Libia Oea (attuale Tripoli), Sabratha e Leptis Magna. In origine, la regione era abitata dai Berberi che nel VII secolo a.C. furono conquistati dai fenici, poi passarono sotto il controllo dei cartaginesi e più tardi dei romani che fecero della Tripolitania un’area molto prospera. A partire dal V secolo d.C. l’area fu invasa da vandali e bizantini che, mescolandosi con la popolazione autoctona, ne hanno alterato notevolmente la fisionomia etnica, spingendola anche al nomadismo, tant’è che molte tribù berbere si trovano anche nell’area sahariana.
L’entità numerica dei libici che appartiene a questa etnia – maggiormente diffusa in Marocco, Algeria e Tunisia – è difficile da quantificare, ma secondo recenti stime si aggira tra il 10 e il 23% della popolazione.
La maggior parte di essi appartiene alla setta religiosa kharigita, una frangia oltranzista dell’Islam definita eretica da sciiti e sunniti. La loro particolare interpretazione dell’Islam non viene accettata dalle due correnti maggioritarie in quanto:
• conferiscono particolari ed innovative interpretazioni all’istituto califfale (non previsto né dal Corano, né dalla Sunna) accettando espressamente una guida politica e militare anche da parte di una donna;
• indicano come buon musulmano colui che non pecchi per non perdere la sua qualifica e la vita e sia irreprensibile sotto il profilo morale a prescindere dal gruppo etnico, dallo statuto giuridico e dal sesso.
Non mancano al loro interno anche tribù di fede cristiana, convertiti nell’ultimo secolo da missionari cattolici.
Il termine “Berberi” – che nella loro a lingua vengono chiamati Imazighen (al singolare Amazigh), cioè “uomini liberi”, deriva dal termine francese berbère, tratto a sua volta dall’arabo barbar, che probabilmente riproduce la parola greco-romana barbaro (chi non parlava il latino o il greco) – contraddistingue una popolazione che non ha mai effettuato guerre di conquista ma solo subito dominazioni altrui che spesso ha contrastato aspramente ed efficacemente.
La popolazione berbera nell’area del Maghreb è emarginata dai governi arabi e gli Europei, che nei Berberi vedono soprattutto pittoreschi elementi folkloristici, utili per attirare i turisti, si adeguano ai cliché offerti da questi governi. Per uscire dallo stato di emarginazione e rappresentare le istanze, unitamente agli interessi ed ai diritti negati, sono sorte molte associazioni culturali berbere che, dal 1997, hanno dato l’avvio ad un’organizzazione sovrannazionale indipendente denominata “Congresso Mondiale Amazigh”, che mira a rappresentare, con una voce unica a livello internazionale le associazioni culturali berbere sorte in ogni parte del mondo. Il Congresso è una organizzazione non governativa nata nell’estate del 1994 a Douarnenez, in Bretagna (Francia), dove erano convenuti i rappresentanti di molte associazioni, per partecipare al 17º festival del Cinema di Douarnenez (21-28 agosto), dedicato quell’anno alla cultura dei Berberi. Il congresso si concluse con una “Dichiarazione di Douarnenez sui diritti identitari, culturali e linguistici degli Imazighen” e con l’impegno di fondare un Congresso Mondiale Amazigh, che ha visto la luce nel settembre 1995 a Saint-Rome-de-Dolan, un piccolo borgo nel sud della Francia, costituito come associazione retta dalle norme giuridiche del diritto francese. La sua sede è stata fissata a Parigi, presso i locali dell’Associazione Tamazgha.
Fezzan
E’ una regione posta nel cuore del deserto del Sahara, confinante a ovest con l’Algeria, a sud col Niger e il Ciad, tutte aree disseminate da jihadisti. La maggior parte del territorio è un deserto di sabbia, ciottoli e rocce, con oasi abitate da Berberi (imazighen), Tebu e Tuareg, popolo di origine berbera. La Libia ha cercato di sviluppare la sedentarietà della popolazione (circa 500.000) creando infrastrutture e impianti di irrigazione in questa regione con l’aiuto della rendita petrolifera, ma l’irrigazione artificiale rappresenta un rilevante pericolo di salinizzazione del suolo.
Le tribù Tuareg sono di natura nomade e vivono soprattutto nel deserto. Sono anche chiamati ‘gli uomini blu del Sahara’ per il colore del caratteristico turbante che indossano.
Le tribù Tebu vivono soprattutto nella zona meridionale delle montagne Harouj (un grande campo vulcanico che si estende per circa 45 mila km quadrati al centro della Libia), nell’est del Fezzan e nell’area vicina al confine con l’Algeria.
Tutte e tre le etnie, dedite alla pastorizia e al nomadismo, sono islamizzate anche se la loro fede non è fortemente radicata tant’è che sussistono anche correnti animiste e pagane.
Risorse
Fino al 1950 la Libia era considerata uno dei paesi più poveri del mondo, a causa della scarsa produttività del territorio, ma nel 1959, in seguito alla scoperta ed allo sfruttamento di giacimenti di petrolio, nazionalizzati dopo il 1970, ha registrato nel 1977 il reddito annuo pro capite più elevato del continente africano.
La Libia possiede circa il 3,5% delle riserve mondiali di petrolio, più del doppio di quelle degli Stati Uniti e, con 46,5 miliardi di barili di riserve accertate, (10 volte quelli d’Egitto), supera la Nigeria e l’Algeria (Oil and Gas Journal).
Le sue riserve di gas a 1.500 miliardi di metri cubi, ma la sua produzione è stata tra 1,3 e 1,7 milioni di barili al giorno, ben al di sotto della capacità produttiva secondo i dati della National Oil Corporation (NOC) che ha come obiettivo a lungo termine tre milioni di b/g ed una produzione di gas di 2.600 milioni di piedi cubi al giorno (23 marzo 2011 dematawordpress.com).
La Libia che non disponeva né di mezzi, né di tecnologie, né di esperienze estrattive dovette ricorrere ai Britannici e l’esportazione del petrolio libico ebbe inizio nel 1959 prevalentemente sotto monopolio inglese ed americano che avevano ottenuto anche la concessione di basi militari – rispettivamente “El Adem” a Tobruk (Gran Bretagna), “Wheelus Field” Tobruk a Tripoli (Stati Uniti) – gestendo anche i posti chiave dello Stato. L’avvento del regime di Gheddafi, oltre a nazionalizzare le risorse petrolifere e le attività produttive, investì anche nell’industria leggera e nella modernizzazione dell’agricoltura, favorendo contestualmente l’immigrazione, per sopperire alla scarsità di manodopera.
L’agricoltura non è sufficientemente sviluppata, sia per la limitata superficie coltivabile sia per la scarsità di acqua, anche se sono state effettuate operazioni di bonifica dei terreni agricoli e di incremento delle risorse idriche con opere di sbarramento e con l’utilizzo di acque fossili.
Il decaduto regime ha cercato anche di sviluppare una rete di servizi alle imprese, alla finanza, al commercio interno ed alla persona ma con scarso successo.
Pertanto buona parte delle ricchezze del Paese risiede nei proventi dell’esportazione di petrolio e gas naturale, di cui la Libia è il secondo produttore del continente africano dopo la Nigeria, destinati soprattutto all’Italia (39%) ed inoltre a Germania, Spagna, Turchia, Francia, Svizzera. Vengono in cambio importati beni industriali e alimentari, principalmente dall’UE, Italia in testa.
Situazione attuale
Le premesse della situazione attuale vanno ricercate agli inizi delle cosiddette “primavere arabe” quando, con un effetto domino, i paesi della sponda sud del Mediterraneo furono scossi, quasi contemporaneamente, da una serie di proteste violente, organizzate con l’impiego di social network (Facebook e Twitter) e con i “network della moschea o del bazar”, a dispetto dei tentativi di repressione statale.
Molte sono state le cause che hanno favorito le ribellioni e fra le principali vanno annoverate: le precarie condizioni di vita che in molti casi rasentavano la povertà estrema, la crescita del prezzo dei generi alimentari che ha portato alla fame, la corruzione, l’assenza di libertà individuali e la violazione dei diritti umani.
Le proteste sono cominciate il 18 dicembre 2010 in seguito all’estremo gesto del tunisino Mohamed Bouazizi – si è dato fuoco per i maltrattamenti subiti da parte della polizia – che ha scatenato alla fine di dicembre la “rivoluzione dei gelsomini”.
In Algeria, all’inizio di gennaio 2011, l’impennata dei prezzi di prima necessità – tra cui pane, olio e zucchero – la corruzione, la disoccupazione giovanile e la povertà hanno provocato proteste e scontri con la polizia, nei quali hanno perso la vita due persone e diverse sono state ferite. Il governo è intervenuto con una serie di iniziative fra cui misure economiche e sociali, per combattere la disoccupazione giovanile, impegnandosi a sostenere la realizzazione di posti di lavoro e la costruzione di migliaia di alloggi.
In Giordania le manifestazioni violente sono iniziate il 14 gennaio per protestare contro la corruzione, la povertà, la fame e la disoccupazione chiedendo le dimissioni del governo. Per evitare una deriva violenta della protesta, nei primi di febbraio il re ha deciso un cambio al vertice governativo, affidando al nuovo incaricato il mandato di avviare un processo di riforme per un miglioramento economico e sociale.
In Yemen, a partire dal 18 gennaio 2011, sono esplose manifestazioni contro il regime che poi si sono estese rapidamente a tutto il Paese a causa dell’aumento del carovita e dello stato di povertà della popolazione, causando una ventina di morti. I disordini più violenti sono stati registrati nella capitale Sana’ ed in altre località, dove predomina l’egemonia dell’opposizione secessionista che ha chiesto la ricostituzione dello Yemen del Sud. Le manifestazioni, avvenute nella capitale il successivo 18 marzo, sono state represse nel sangue ed il presidente Saleh ha sciolto l’esecutivo per procedere alla formazione di un nuovo governo.
A giugno il presidente è rimasto vittima di un grave attentato e dopo essere guarito ha negoziato una tregua con i ribelli del sud, peraltro infiltrati da elementi di al-Qaeda, promettendo elezioni anticipate, un governo di coalizione ed una riforma istituzionale. Ma gli scontri nel sud non sono ancora terminati.
In Siria il 26 gennaio 2011, Hasan Ali Akleh da Al-Hasakah (siriano di origine curda) si è versato addosso benzina e si è dato fuoco in segno di protesta contro il governo siriano. Inizialmente si sono sviluppate proteste pacifiche via via aggravatesi, a causa della risposta dura e violenta del regime, in una ribellione popolare, poi precipitata in guerra civile ancora in atto.
Nel Sahara Occidentale, a partire dal 2 febbraio 2011, si sono verificate manifestazioni contro il Marocco per il controllo politico dell’area occidentale e contro la gestione dell’estrazione delle risorse naturali, che hanno fatto registrare atti di vandalismo, violenti incidenti e feriti.
Il 16 febbraio 2011 a Bengasi, Libia, sono avvenuti scontri fra manifestanti – amareggiati per l’arresto di un attivista dei diritti umani – e la polizia, sostenuta da militanti del governo. La repressione dura ha fatto dilagare, il giorno successivo, la protesta nel paese innescando un conflitto del tutto simile alla guerra civile – tuttora in corso – che ha provocato la cattura e l’uccisione di Muammar Gheddafi il 20 ottobre 2011.
Il 20 febbraio 2011, migliaia di persone hanno manifestato a Rabat, Casablanca e in altre città del Marocco per chiedere riforme democratiche, protestando contro il governo del paese. Le proteste sono state organizzate da gruppi di giovani che mediante Facebook hanno lanciato inviti alla dimostrazione. L’intervento delle forze di sicurezza e l’avvio del dialogo con emissari governativi che hanno promesso “riforme politiche, economiche e sociali”, poi confermate dal sovrano, hanno fatto rientrare i disordini.
Il 25 febbraio 2011 a Il Cairo, Egitto, si sono verificati violenti scontri fra polizia e manifestanti, protrattisi fino all’11 marzo con le dimissioni del presidente Hosni Mubarak.
Anche l’Arabia Saudita non è rimasta esente da proteste avviate, nei primi di febbraio, dalla minoranza sciita ubicata nelle aree petrolifere orientali, mettendo in atto una manifestazione pacifica per chiedere la liberazione di attivisti reclusi.
A tali manifestazioni si è aggiunto, a fine febbraio, il lancio su internet di un appello di intellettuali che hanno chiesto riforme politiche, economiche e sociali e la creazione di una “monarchia costituzionale” con la “separazione dei poteri”. Le promesse di riforme da parte del re Abdallah e gli interventi delle autorità saudite hanno via via anemizzato il contenzioso.
La contestualità temporale di tali eventi, accaduti si può dire secondo un “effetto domino”, associata alla medesima identità degli ispiratori, promotori e fomentatori – individuabile nei “Fratelli Mussulmani” – nonché ai collegamenti ed alle connessioni dei vari leader rivoltosi con medesimi sponsor esteri, consentono di dubitare della loro spontaneità inducendo a pensare che abbiano subìto un periodo di incubazione.
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Primavere arabe
██ Allontanamento o morte del capo di stato (Tunisia)
██ Conflitti armati e cambiamento nel governo (Libia , Egitto,Yemen)
██ Cambiamento del primo ministro (Marocco, Giordania, Oman, Kuwait)
██ Proteste maggiori (Algeria, Iraq)
██ Proteste minori (Arabia Saudita, Sudan, Somalia, Mauritania, Sahara Occidentale)
██ Proteste collegate (in grigio scuro)
██ Assenza di proteste (in grigio chiaro)
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Secondo alcune fonti, infatti, le rivolte sarebbero state pianificate dal Dipartimento di Stato americano assieme ad alcuni dissidenti dei vari governi arabi, ben prima del loro scoppio allo scopo di democratizzare i regimi di quei paesi. A sostegno di tale ipotesi vengono posti:
– il discorso di Barack Obama tenuto a Il Cairo il 4 giugno del 2009 indicato dalla stampa col titolo ” Con l’Islam un nuovo inizio”, nel quale rivolgendosi al mondo arabo e islamico, auspicava sostanzialmente un grande piano di collaborazione e rinnovamento politico-democratico dei paesi mediorientali;
– la presenza, durante le sommosse e nei cortei pacifici di dissidenti locali, addestrati, armati e finanziati da organizzazioni legate al Dipartimento di Stato americano fra cui la Freedom House (organizzazione indipendente dedicata all’espansione della libertà in tutto il mondo) e il Fondo nazionale per la democrazia (noto come National Endowment for Democracy, NED, una fondazione privata – senza scopo di lucro – dedicata alla crescita e al rafforzamento delle istituzioni democratiche in tutto il mondo);;
– l’esistenza di una fondazione in Serbia, denominata Canvas, (Centre for Applied Non Violent Action and Strategies), legata al Dipartimento americano, che addestra giovani rivoluzionari all’uso dei metodi non violenti e che – ironia della sorte – ha la sua sede in Ulica Gandjieva, ovvero viale Gandhi, a Belgrado;
– le intese a Londra, sotto gli auspici britannici, fra Fratelli Mussulmani libici colà rifugiati e Sayf Gheddafi per convincere il padre – Muammar Gheddafi – ad instaurare buoni rapporti con la Fratellanza per un nuovo corso in Libia;
– l’annuncio fatto il 2 novembre del 2010, da Francia e Gran Bretagna riguardante lo svolgimento di giochi di guerra (war games) nel corso dell’operazione militare congiunta denominata “Southern Mistral 2011”, contro un nemico virtuale, a cui fu dato il nome di Southland, cioè “terra del sud”, verosimilmente la Libia. Lo scenario previsto nei war games – mai effettuati – è stato il medesimo di quello attuato da Francia e Gran Bretagna nel corso del loro intervento in Libia del marzo 2011.
“A pensar male si fa peccato, però ci si azzecca sempre”, per cui queste evidenze appaiono non più come strane coincidenze ma come progettualità per la realizzazione di due opposte strategie: la ricomposizione del disfatto Impero Ottomano – da una parte – secondo il progetto del grande califfato sognato da Osama bin Laden, ad opera dell’ala estremista dei Fratelli Mussulmani, unitamente alle confessioni ad essa collegate, dall’altra quella del Grande Medio Oriente già tentata dalla Nato (soprattutto USA e GB) nel 2004 e respinta sdegnosamente dai Paesi arabi-islamici e disapprovata dall’ONU.
In Libia, con gli eventi del 17 febbraio 2011 si è scatenata la rivolta della Cirenaica, avviata da un attentato suicida contro una caserma di Bengasi, seguito da un’insurrezione guidata da jihadisti, ben presto affiancata da una gran parte della popolazione, che non aveva dimenticato la repressione del 1993. In tal modo Gheddafi perse il controllo della Cirenaica, ma mantenne le alleanze tribali della Tripolitania e del Fezzan, che gli rimasero fedeli e con l’appoggio di queste ripartì alla conquista della provincia ribelle, così come era già avvenuto nel 1993.
Ma la Francia, in primis, seguita dall’Inghilterra e dagli USA e poi dall’alleanza occidentale, giustificarono il rispettivo intervento con la scusa della libertà e della democrazia. Ma, più probabilmente, con la recondita motivazione di ridimensionare una posizione economica di privilegio dell’Italia nella regione, decisero che il colonnello libico era ormai arrivato al capolinea.
Gli interessi nazionali in Libia, in quel periodo, erano:
• Eni, ex Ente Nazionale Idrocarburi, presente in Libia dal 1959 quando l’Agip ottenne dallo Stato libico la concessione ’82 nel deserto del Sahara Sud-orientale;
• numerose aziende italiane, fra cui: Bonatti, Garboli-Conis, Maltauro, Trevi e l’Anas che si era aggiudicata la gara per il servizio di advisor per la realizzazione dell’autostrada Ras Adjir-Emsaad, lunga 1750 chilometri (dal confine tunisino a quello egiziano) attraversando completamente tutto il territorio libico; Finmeccanica, società aerospaziale italiana, che aveva firmato nel 2009 un accordo di cooperazione in ambito aerospaziale, con la Libya African Investment Portfolio creando una joint-ventures 50-50.
Inoltre, Finmeccanica aveva siglato un contratto con la Libia per la costruzione di linee ferroviarie;
• grandi imprese di telecomunicazioni come la Sirti, che insieme alla francese Alcatel, era stata ingaggiata per la realizzazione di 7000 chilometri di cavi di fibre ottiche; la società̀ milanese, Prysmian Cables & Systems, che si era aggiudicata un contratto da 35 milioni di euro per la messa in posa di cavi a banda larga nella rete del GPTC (General Post and Telecommunication Company) libico;
• interessi finanziari della Unicredit che aveva fra i principali azionisti libici la Central Bank of Libya e la Libyan Investments Authority e partecipazioni azionarie della Libyan Arab Foreign Investments Company (Lafico) – banca statale libica – poi sostituita dalla Libyan Investments Company (LIC) nel gruppo automobilistico FIAT.
Dopo poco più di 42 lunghi anni di potere cadde un rais arabo che, bene o male, aveva mantenuto unite tre entità territoriali etnicamente, storicamente e politicamente diverse.
L’ odierna “rivoluzione” libica, quindi, non è né democratica né spontanea: la scintilla della rivolta è scoccata mediante l’invito alla sollevazione, per il giorno 17 febbraio, diffuso sulla rete, in concomitanza degli scontri del precedente giorno 16 fra polizia e manifestanti, scontenti per l’arresto di un attivista dei diritti umani – al quale hanno aderito un gran numero di giovani libici – ed in sincronia con le altre manifestazioni in corso nel mondo arabo.
La “rivoluzione” sembra quindi costituire la materializzazione sul terreno di queste opposte progettualità, alle quali occorre aggiungere anche una sorta di rivalsa della confraternita senussita – emarginata dalla rivoluzione di Gheddafi – finalizzata ad instaurare in Libia quell’islam radicale combattuto dal Rais. In sostanza: Cirenaica contro Tripolitania e strutture militari lealiste contro entrambe nel tentativo di ripristinare una parvenza di legalità, con completo abbandono del Fezzan a se stesso, divenuto ormai crocevia di associazioni criminali e jihadisti, nonché serbatoio utile per alimentare, con armi e droga, opposti estremismi.
La disgregazione delle forze militari del regime di Gheddafi ha favorito la formazione di milizie ribelli che hanno occupato città e porzioni di territorio, assurgendo – con il passare delle settimane – a gruppi di potere locali ed esercitando un controllo territoriale circoscritto. Non essendo state rapidamente disarmate ed inglobate in un esercito nazionale, hanno poi costituito entità̀ autonome di governo in territori strategici e nelle città occupate, come la capitale e l’aeroporto di Tripoli, svolgendo di fatto un ruolo di mantenimento dell’ordine ma al di fuori di un univoco e consolidato quadro giuridico.
Queste milizie, pur garantendo l’ordine e sostituendosi alle forze di polizia o all’esercito nella gestione dei loro territori, impediscono però al Consiglio Nazionale di Transizione (CNT) di avere il legittimo monopolio dell’uso della forza e di svolgere efficacemente un’azione di governo.
Il disegno appare confermato dall’autoproclamazione, nel decorso mese di ottobre, di Derna a Stato Islamico della provincia orientale di Barqa (vecchia denominazione della Cirenaica prima del 1951), unitamente alle milizie alleate, nonché dal completo controllo di Tripoli e del suo aeroporto internazionale ad opera del gruppo estremista islamico “Fajir Libia” (Alba della Libia), diventato snodo di transito per i jihadisti.
La Libia ha sempre visto l’esistenza di due territori importanti come la Tripolitania e la Cirenaica ed una terza, un po’ negletta, il Fezzan, tutte con culture ed ideologie completamente diverse, anche se si è cercato di considerala come una nazione, amalgamata da invasioni, sottomissioni e dittature.
Il vero ed unico collante – difficilmente individuabile per i ”non addetti ai lavori” – che, per quasi due secoli ha tenuto insieme, ma non unificato, queste diverse realtà etnico-tribali, è rappresentato da quel credo religioso diffuso nell’area dalla Senussiya. La confraternita è tuttora detentrice di una fede ispirata non solo ai principi ed ai valori dell’Islam sunnita (“scuola” malikita – confessione in cui si riconosce la maggioranza dei maghrebini), ma anche ad un’esclusiva “lettura” ed interpretazione di tale confessione, professata e diffusa da una tariqa mistico-propagandista-militante.
La confraternita, infatti, non predica soltanto il ritorno dei fedeli al Corano ed alla Sunna ma rifiuta l’“imitazione” (taqlid) degli insegnamenti dei principali e tradizionali Saggi dell’Islam.
Inoltre, esige che vengano seguite – senza discuterle – le decisioni della sua Autorità religiosa nei vari campi, sulle quali non ammette critiche né discussioni. Questa concezione e questa pratica dell’Islam sono state contestate (o quanto meno biasimate), dalla maggioranza dei teologi delle altre “scuole” sunnite nonché da quelli della “scuola” malikita.
La conduzione politico-culturale-religiosa della confraternita ha assunto, in Libia, fin dall’inizio un carattere tipicamente dinastico e gerarchico, mantenuto successivamente da tutti i naturali discendenti del primo fondatore.
La setta si è strutturata secondo un’organizzazione gerarchica che, ancora oggi – pur se proibita in Libia durane il regime di Gheddafi – è composta da:
– lo Sheikh Supremo (o Sceicco, detentore della “Santa Barakah, il potere di impartire la benedizione di Dio)
– ”), ovvero il vertice. Carica e responsabilità tuttora rivestite dall’ultimo rampollo, in ordine di tempo, della famiglia del primo fondatore: cioè, da Sayyed o Sidi Muhammad bin Sayyed Hasan ar-Rida al-Mahdi al-Sanûsi o al-Senussi (1992 – fino ad oggi) che continua a dirigere la confraternita con molta discrezione e diplomazia, dal suo confidenziale esilio di Londra;
– tre alti dignitari: il Gran Khalifa (o Vicario dello Sceicco), l’Ukil o l’Uqil (o Amministratore/Tesoriere) ed il Responsabile dei tolba (gli studenti coranici) delle zawiya della setta, che seguono subito dopo;
– una serie di Sheikh el-zawiya, cioè di responsabili – ufficiali e qualificati – dei diversi Centri religiosi regionali della confraternita, subalterni ai precedenti tre;
– una moltitudine di medi e piccoli Mokkaddem (direttori o soprintendenti), dislocati nelle diverse regioni e province di maggiore interesse della senussiya, sottomessi ai precedenti, con l’incarico speciale di svolgere la delicata ed aggregante mansione di predicatori itineranti.
Al più basso “gradino” di quest’ordine gerarchico si trovano gli affiliati alla setta che, a loro volta, sono differenziati – a seconda della loro personale sensibilità, del livello di convinzione e della preparazione spirituale – in responsabili di cellula, militanti e semplici aderenti o simpatizzanti.
Tutti i dignitari – per rivestire le cariche ed esercitare le mansioni attribuite – devono essere in possesso del “diploma mistico” (Ijéza o Igéza), che viene conseguito esclusivamente all’interno della setta, frequentando e superando lunghe, esigenti ed intransigenti procedure ideologico-teologico-religiose.
Questa peculiare comunità di fedeli si presenta come un’organizzazione di iniziati ideologico-religiosi (khuan) particolarmente ordinata, affiatata e strutturata come un organismo “para-militare”, per cui i singoli membri non sembrano essere solo degli inoffensivi adepti che obbediscono alle prescrizioni religiose (hadrah) di ogni Venerdì, ma anche una struttura strettamente gerarchizzata, predisposta sia ad obbedire ciecamente agli ordini dei superiori sia a difendere, contro chiunque e con qualsiasi mezzo, la particolare dottrina dell’Islam nella quale ognuno di loro si identifica. Il fattore che conferma questa valutazione di soggetto politico paramilitare, si rinviene nel suo impiego in attività di guerriglia condotte contro L’Italia dal 1911 al 1943.
Da quanto precede si desume che le varie entità tribali libiche sono profondamente permeate e condizionate dalla Senussiya e dalla sua organizzazione – soprattutto lo Scheik – che mediante lo strumento religioso, ha non solo islamizzato l’intera area in cui esse sono dislocate, ma anche personalizzato ed accentrato il potere a tal punto da renderlo – ricorrendo ad una nota metafora – un mantello indosso ad uno e ad uno soltanto: si tratta di una strategia originata certamente durante la presenza coloniale italiana, rafforzatasi attraverso una progressiva legittimazione di Idris quale guida politica del fronte indigeno indipendentista ed il sodalizio maturato con Londra nel secondo dopoguerra.
L’attuale lotta fratricida libica, quindi, presenta tutte le caratteristiche di un conflitto asimmetrico tra la popolazione della regione di Tripoli contro quella dell’area di Bengasi e delle regioni limitrofe. Lo scontro, tuttavia, è sempre esistito in modo sotterraneo o a bassissima intensità.
Infatti, i Tripolitani sono culturalmente attratti dal potere politico centrale della capitale, legame reso evidente durante la dittatura di Gheddafi, mentre i Cirenaici (provincia orientale di Barqa) sono molto legati alla tradizione locale ed alla senussiya, si sentono soffocati dagli ideali centralistici della Tripolitania e non si considerano rappresentati da Tripoli.
Sicché le condizioni attuali della Libia possono essere riassunte sulla base delle tre seguenti evidenze – un governo impossibilitato a governare, un’economia frammentata e paralizzata e l’ordine pubblico gestito ad “usum delfini” e nel caos – nelle quali si ritrovano:
– altezzosità ed inettitudine di politici, associate a presunzione e millanterie di militari;
– rivalità e conflitti di interesse tra le varie milizie che culminano in scontri efferati;
– commistione di organizzazioni criminali e jihadiste, che alimentano estremismi religiosi ed opportunismi delinquenziali;
– permanenti contatti fra elementi di al Qaeda rientrati in Libia ed esponenti dell’IS per trasferire in loco il “brand” dello Stato Islamico, riorganizzare gli estremisti e procedere – con la conversione forzata e la pulizia etnica – verso la costituzione di “aree islamizzate”;
– ambizioni mai sopite dei simpatizzanti del vecchio regime, in maggior parte rifugiati all’estero e capeggiati da Sayf Gheddafi – rifugiato a Londra – che hanno continuato a sovvenzionare clandestinamente progetti ed azioni volte ad impedire il funzionamento delle Istituzioni nate dalla rivoluzione;
– vantaggi per le organizzazioni criminali che condividono l’interesse a destabilizzare per impedire il controllo del territorio nazionale da parte di legittime Autorità, ostacolando la ricostruzione di istituzioni forti, in grado di stabilire un clima di sicurezza soddisfacente e funzionale;
– mentalità burocratica e deresponsabilizzazione tipiche del “divide et impera”, sistema con cui Gheddafi ha governato la Libia per quarant’anni,
tutti fattori nei quali non si riescono a trovare punti di contatto per una efficace mediazione.
In tale quadro si avanzano seri dubbi sulla possibilità di tenere assieme – da parte di un potere centrale – forze storicamente centrifughe, specie in presenza di interferenze esterne (Francia, Inghilterra e USA), mosse da rilevanti “appetiti petroliferi.
Non a caso, Sayyid Idris bin Sayyid Abdullah al-Senussi (Idris al Senussi), Gran Senusso e presunto (ex) erede al trono, ha lavorato con Condotte, Ansaldo Energia, Eni e Snamprogetti, si è distinto per una azione di lobbing su ben 41 parlamentari britannici, ma è stato anche Director of Washington Investment Partners and China Sciences Conservational Power Ltd. ed ha interessi plurimilionari nel settore petrolifero, come li ha il suo lontano parente Ahmed Abd Rabuh al-Abar, noto businessman di Bengasi.
La caduta di Gheddafi ha soltanto schiuso il vaso di Pandora del più fanatico degli integralismi che si è saldato con gli immensi appetiti che inevitabilmente suscita l’economia di un Paese che tuttora si basa al 95% sugli introiti e sulla redistribuzione della rendita petrolifera. Riserva di petrolio fra la Tunisia e l’Egitto, la Libia costituisce una posta in gioco mondiale nel quale anche la Francia, per lungo tempo esclusa, é oggi pienamente coinvolta
Secondo alcuni osservatori geopolitici l’operazione militare del 2011 avrebbe avuto come scopo, “a lungo termine”, quello di ristabilire l’egemonia anglo-statunitense nel Nord Africa, una regione storicamente dominata da Francia e in misura minore, da Italia e Spagna.
Il disegno di Washington sarebbe stato quello di indebolire i legami politici di Tunisia, Marocco e Algeria verso la Francia cercando di instaurare nuovi regimi politici con un rapporto stretto con gli Stati Uniti. Infatti, la Libia confina con molti paesi che sono sfera d’influenza della Francia tra i quali anche Niger e Ciad: ed Exxon, Mobil e Chevron hanno interessi nel sud del Ciad, tra cui un progetto di gasdotto che arriverà fino alla regione sudanese del Darfur, ricco di petrolio.
Va aggiunto che anche la China National Petroleum Corp (CNPC) ha firmato un accordo di vasta portata con il governo del Ciad nel 2007 e la strategia statunitense mira anche ad escludere la Cina dalla regione. Sempre ai confini della Libia c’è il Niger che possiede ingenti riserve di uranio, attualmente controllate dal gruppo francese Areva nucleare, precedentemente conosciuto come Cogema, ed anche la Cina ha una partecipazione nell’estrazione di questo uranio.
Dunque, il confine meridionale della Libia è strategico per gli Stati Uniti nel suo tentativo di estendere la sua sfera di influenza nell’Africa francofona, una regione che faceva parte degli imperi coloniali di Francia e Belgio.
el quadro delineato, non appaiono casuali sia l’improvvisa e generalizzata “rivolta delle popolazioni libiche” sia la successiva, aggressiva e sproporzionata solerzia con la quale la Francia (Total-Fina) in primis, Gran Bretagna (British Petrleum e Shell) e Stati Uniti (Exxon, Mobil, Chevron e Occidental Petroleum) hanno caratterizzato la frettolosa e drastica iniziativa di intervenire militarmente, come vere e proprie parti in causa nella “guerra civile” che tuttora sta vivendo la Libia dal febbraio 2011. (www.mirorenzaglia.org/2011/03/libia-evviva-i-“buoni”).
Inoltre, la partenza prematura d’intermediari internazionali, imposta dalla miope retorica nazionalista e/o populista dei vari leader rivoluzionari, ha reso estremamente difficile la costruzione di nuove istituzioni politiche nazionali, marginalizzando la partecipazione alle scelte politiche di gran parte della popolazione che rimane schierata con il processo di transizione verso la democrazia ed è alla ricerca di sicurezza e stabilità. Inoltre, gran parte della società civile, che rappresenta il futuro del paese, dopo oltre quattro decenni di dittatura, non ha alcun desiderio di ritrovarsi nuovamente ghettizzata sia economicamente sia politicamente.
Ed è proprio questo malcontento del popolo che deve essere opportunamente convogliato per replicare alle sfide che lo stesso sta affrontando, che determineranno il successo o il fallimento della transizione verso la democrazia.
L’excursus sopra riportato, mostra a chiare note l’impossibilità di una soluzione militare, tenuto conto che nessuno è abbastanza forte per controllare da solo il paese, neppure con l’aiuto di un energico sponsor esterno. La responsabilità, pertanto, va ricondotta nelle mani delle forze politiche che, attraverso un energico e credibile processo di mediazione già in corso di attuazione – con il sostegno dell’Italia – da parte dell’ONU, si riapproprino del processo decisionale, superando divisioni e contrasti per ritrovare coesione e forza necessarie a dare impulso alle riforme di cui il paese ha disperatamente bisogno.
Per un aggiornamento della situazione, appare utile sottoporre all’attenzione una serie di eventi del 2015 che stanno aggravando il teatro degli scontri, fra i quali risalta la perdita di un’irripetibile occasione che avrebbe potuto rafforzare l’embrionale processo di mediazione dell’ONU da parte dell’Italia, cui il governo di Tobruk – l’unico riconosciuto dalla comunità internazionale a guidare la Libia – ha richiesto aiuto per scongiurare un disastro economico e ambientale nel Mediterraneo.
Il giorno di Natale, i ribelli islamici di “Alba della Libia” hanno incendiato parte dei depositi del terminal di Sidra, importante porto petrolifero libico, che ha provocato un rogo che ha bruciato milioni di barili di greggio, privando quel governo di importanti risorse finanziarie. La richiesta dell’urgente intervento di aerei della protezione civile italiana per spegnere l’incendio è stata sottoposta a condizioni di sospensione dei combattimenti, mentre poteva essere accettata e poi barattata con l’avvio di un dialogo. Non è nostra intenzione sindacare né criticare le scelte politiche, ma solo attirare l’attenzione su metodi alternativi per la soluzione di problemi complessi. L’idea va interpretata come una proposta per l’impiego di strumenti Intelligence (diplomazia parallela) che, in situazioni conflittuali, possono conseguire maggiori successi di quelli politici.
Ciò anche nella considerazione che, dopo il rifiuto italiano, gli eventi susseguitisi hanno ulteriormente complicato il contesto:
– sono stati sferrati, nei primi giorni di gennaio 2015, da parte del governo libico riconosciuto internazionalmente, una serie di attacchi aerei sul porto di Derna, che hanno colpito la petroliera greca Araevo, provocando un incidente diplomatico fra i due Paesi;
– sono stati decapitati, nel corso della prima settimana del 2015 – a Sebha, da milizie jihadiste seguaci dello Stato Islamico dell’Emirato di Derna – una diecina di militari libici, a dimostrazione di una saldatura fra estremisti libici e quelli siro-irakeni;
– è giunto, lunedì cinque gennaio, il rinvio “sine die” da parte dell’ONU il tentativo di mediazione che il suo emissario, Bernardino Leon, aveva appena iniziato ad esplorare;
– sono riaffiorate le velleità francesi di un intervento diretto in Libia, fatto dal Ministro della difesa Jean-Yves Le Drian – che ha fatto conoscere che la Francia non potrà mai “accettare” che la Libia si trasformi in una “roccaforte terrorista” – peraltro non chiaramente ridimensionate dall’intervento da parte del Presidente della Repubblica francese apparso sulla stampa del 6 gennaio;
– sono stati compiuti gravi attentati a Parigi (8 e10 gennaio) che hanno scosso l’opinione pubblica mondiale.
A fronte di eventualità interventiste, che sembrano oramai rese più probabili dal precipitare degli eventi sopra riportati, alcuni organi di stampa hanno recentemente auspicato la possibilità che il processo di mediazione venga guidato dalla confraternita dei Senussi.
Tale confraternita – per la sua storia, le sue credenze religiose lontane sia dal wahabismo, sia dalla salafia, sia dall’estremismo dei Fratelli Musulmani – potrebbe fungere da catalizzatore degli opposti interessi in conflitto nonché trovare sostegno nelle parole pronunciate dal presidente egiziano Al Sisi durante il suo discorso rivolto a tutto l’Islam, tenuto il 1 gennaio all’Università Al Azhar del Cairo, che peraltro non sembra sia stato adeguatamente pubblicizzato ed accolto.
In effetti, per un lungo periodo la confraternita ha costituito il riferimento etico e comportamentale della popolazione libica, sia stanziale sia nomade, radicandosi nella convinzione religiosa delle sue comunità. Va ancora aggiunto che la monarchia senussita ha realizzato e governato un regno con una costituzione federale che unificava tre stati indipendenti (Cirenaica, Tripolitania e Fezzan) dal 1951 al 1969, stabilendo un equilibrio tribale poi rotto dal colpo di stato di Gheddafi.
Per conseguire l’arduo obiettivo della pacificazione e sostenere il popolo libico nella ricostruzione politica ed economica del Paese, a prescindere dal tipo di governo se monarchico o repubblicano, si ritiene necessario proseguire sulla strada della mediazione, mediante:
– coinvolgimento del clan senussita nell’opera di mediazione, anemizzandone la latente sponsorizzazione inglese con un’iniziativa a guida UE, qualora l’ONU non riapra la mediazione;
– invito, a tutti gli attori internazionali, a congelare temporaneamente i loro rispettivi interessi, cessando di sostenere e di alimentare con armi e denaro le varie fazioni che sponsorizzano;
– orientamento del processo di mediazione, verso il disfatto stato federale e la Costituzione del 1951, che ne era alla base, con gli eventuali aggiornamenti delle istanze attuali;
– rimozione di veti per interessi incrociati di potenze estere, ivi comprese quelle europee che, nonostante il regime dispotico di Gheddafi, hanno continuato a gravare sull’area sotto forma di protettorato latente. La “deriva” attuale è anche conseguenza della loro miopia strategico-politica e della loro insaziabilità – per anni si sono contese il dominio coloniale dell’area mediterranea – perché colpite anch’esse dalla crisi finanziaria del 2009, con il tentativo di sottrarre all’Italia risorse preziose per la sua economia cercando di targare “TOTAL” e “BP” le royalties detenute da ENI;
– ricerca ed acquisizione del consenso della popolazione – nessun compromesso può reggere qualora se ne calpestino le aspirazioni – al fine di convogliare opportunamente il malcontento per replicare alle sfide, che il popolo stesso sta affrontando, che determineranno il successo o il fallimento della transizione verso la democrazia;
– avvio del processo di riconciliazione nazionale, a premessa del dialogo per la riconciliazione politica, aggregando un’ampia coalizione delle varie forze politiche, per stimolare l’opinione pubblica a sostenere la pacifica risoluzione dei conflitti, la definizione di strutture formali dello Stato ed il rispetto dei diritti civili e umani fondamentali;
– recupero, nel più breve tempo possibile, della legittimità persa dando concreta attuazione a progetti esecutivi nei settori della sicurezza, della salute, dell’istruzione, delle infrastrutture e delle riforme politiche;
– sostegno, nei confronti delle associazioni e confraternite islamiche, degli elementi di conciliazione e pacifica convivenza propagandati da Obama nel suo discorso a Il Cairo del 4 giugno del 2009, peraltro ribaditi, al ritorno dal viaggio in Turchia, da Papa Francesco che rivolto ai leader politici e religiosi islamici ha – tra l’altro – detto: “Condannate chiaramente il terrorismo, l’Islam è un’altra cosa”. “Il Corano è un libro profetico di pace”, in modo che la politica torni a prevalere sulle milizie armate che al momento controllano la base sociale del Paese.
Immagini: Reuters, AP, AFP
Mappe e grafiche: Repubblica.it, Libero.it, wikipedia, www.rischiocalcolato.it
Luciano Piacentini, Claudio MasciVedi tutti gli articoli
Luciano Piacentini: Incursore, già comandante del 9. Battaglione d'Assalto "Col Moschin" e Capo di Stato Maggiore della Brigata "Folgore", ha operato negli Organismi di Informazione e Sicurezza con incarichi in diverse aree del continente asiatico. --- Claudio Masci: Ufficiale dei Carabinieri già comandante di una compagnia territoriale impegnata prevalentemente nel contrasto al crimine organizzato, è transitato negli organismi di informazione e sicurezza nazionali dove ha concluso la sua carriera militare.