DONETSK: VOLONTARI ITALIANI CON I FILO-RUSSI DEL DONBASS

REPORTAGE da Donetsk

Dall’aeroporto di Donetsk da mesi passa la linea del fronte. Da una parte le forze di Kiev costituite sia dall’esercito governativo che dalle varie unità della Guardia Nazionale, i volontari nazionalisti di estrema destra sostenitori dell’Euromaidan. Dall’altra i combattenti dell’autoproclamata Repubblica Popolare di Donetsk, la “opolcénie”, i cosiddetti “miliziani filorussi”.

L’aeroporto è uno dei punti più caldi, il fulcro di questo fronte congelato su posizioni che in sostanza rimangono immutate da mesi. Per tal ragione l’aeroporto di Donetsk è diventato il simbolo e l’icona della guerra civile del Donbass. E proprio perché trasformatosi ormai in simbolo che nessuno dei due schieramenti vuole perdere la battaglia per il suo controllo.

Da un punto di vista strategico per le forze Kiev l’aeroporto rappresenta una posizione avanzata sulla città di Donetsk e tale prossimità permette loro di tenere il centro urbano sotto la pressione delle proprie artiglierie; per la “opolcénie” rappresenta una fondamentale linea difensiva per evitare una penetrazione delle forze avversarie verso i quartieri cittadini.

Tutti lo chiamano ancora “aeroporto” ma in realtà ora è solo un immane cumulo di macerie. Era una struttura nuova, modernissima, terminata in occasione dei Campionati europei di calcio 2012, ora è solo rovine e distruzione.

Ogni suo settore, dal terminal agli hangar adiacenti, è stato sistematicamente bombardato e crivellato di colpi e tutto il perimetro circostante è disseminato di carcasse di automezzi aeroportuali, blindati, autocisterne….

Il terreno è un susseguirsi di crateri, di detriti, di rottami costellato da bombe inesplose di mortaio conficcate nel terreno mentre tutti gli spazi aperti sono costantemente esposti al fuoco dei cecchini delle contrapposte posizioni.

I miliziani filorussi arrivano a controllare la struttura a più piani del terminal, camminare all’interno della quale rappresenta già di per sé un’impresa faticosa: a parte la scarsità di luce, la pavimentazione è uno scivoloso strato di detriti e di bossoli.

Oscuri cunicoli che collegano i vari androni portano alle varie postazioni difensive, dove i miliziani sono appostati attorno a mitragliatrici pesanti russe KORD (calibro 12,7). Qui si combatte una guerra di postazione, logorante e sfiancante dove in ogni momento può arrivare una granata o un colpo mortale di cecchino.

Tutti i miliziani imbracciano il kalashnikov o mitragliatrici PK, hanno un’età varia, dai più giovani ai più attempati, tra di loro anche diverse ragazze. I loro sguardi sono stanchi, provati dalle settimane di permanenza in prima linea.

Non a caso descrivono quest’ambiente come un “ad” che in russo significa inferno. Nonostante le privazioni e i sacrifici è fermissima la loro convinzione che indietro non si tornerà, ma che si combatterà fino alla completa pabeda (vittoria).

Le forze combattenti della Repubblica Popolare di Donetsk sono costituite da volontari, la maggior parte sono locali, gente del Donbass, che ha lasciato le proprie attività per imbracciare le armi e difendere la loro terra. Molti sono accorsi dalla Russia a difendere il Donbass, che loro definiscono: “la prima linea di difesa della Russia”.

Si rendono conto che se il Donbass cadrà nulla potrà ostacolare l’attacco delle forze ucraine appoggiate dall’Occidente sulla Crimea, il che equivarrà ad un attacco diretto contro la Russia con le ben ipotizzabili possibilità di un escalation del conflitto sicuramente a livello continentale se non addirittura globale.

I russi che partecipano al conflitto e che abbiamo incontrato (meglio sottolinearlo ulteriormente onde evitare fraintendimenti) sono dobrovolzi, “volontari”, e in quanto tali espressione di libere scelte individuali, che è diverso dal sostenere che l’esercito russo sia presente nel Donbass.

Considerando la loro età, molti sono reduci della guerra in Cecenia, sono quindi abili combattenti e lo si vede da come si muovono sul terreno, ma non rappresentano le forze armate della Federazione Russa.

Tutti i volontari che costituiscono l’opolcénie sono inquadrati in battaglioni. Sulle divise non portano gradi, nemmeno amano le patacche, se non qualche stella rossa di sovietica memoria. L’unico elemento distintivo è il nastrino di San Giorgio dai colori nero e arancione (il simbolo della vittoria durante la Grande Guerra Patriottica) cucito o annodato sulla mimetica.

Chi comanda è sempre in prima fila, ed è riconoscibile dal rispetto che gli viene tributato dai combattenti che ha intorno. Si tratta di un’armata popolare ben distante dagli standard tipici degli eserciti convenzionali definiti da rigide strutture gerarchiche.

Qui, tra questi miliziani, il comandante condivide con i propri uomini gli stessi disagi e gli stessi sacrifici senza disporre di nessun particolare privilegio gerarchico.

Nel Donbass le forze di Kiev nella loro cosiddetta ATO (Operazione Anti Terrorismo) hanno colpito numerose città e villaggi. Sono state distrutte abitazioni civili, scuole, fabbriche, ospedali… Ora la regione versa in piena emergenza umanitaria ulteriormente aggravata dalle rigide condizioni climatiche della stagione invernale. Scarseggiano viveri e medicinali, spesso mancano i servizi essenziali di gas, acqua, energia elettrica, sanità, pensioni.

È da questa situazione di crisi che si sta riformulando un senso di collettività e di cooperazione d’eredità sovietica.

Unità, come ad esempio il Battaglione Vostok nella Repubblica Popolare di Donetsk e il Battaglione “umanitario” cosacco Georgievskij nella Repubblica Popolare di Lugansk, non solo sono dislocate in prima linea ma si dedicano anche ad attività di aiuto umanitario: distribuzione di viveri e medicinali, supporto agli ospedali e agli orfanatrofi, elargizione di sussidi alle persone più bisognose…

Oltre ai numerosi volontari russi tra la opolcénie ci sono pure diversi volontari caucasici, tra di loro, numerosi sono i ceceni e gli osseti, ho incontrato anche degli abkhazi.

Tra i volontari stranieri al di fuori delle ex-repubbliche sovietiche gira voce vi siano serbi, francesi, spagnoli. Ho incontrato un afgano, un tedesco e tre volontari italiani: due lombardi e un sardo.

I due ragazzi lombardi dai nomi di battaglia Spartak e Arkanghel (nella foto d’apertura) sono già in prima linea, il sardo Luigi invece (nella foto sotto), è ancora in fase di ambientamento alla nuova realtà anche linguistica.

Tutti sono convinti di far “qualcosa di buono”. I due ragazzi lombardi dicono che “siamo qua perché è giusto starci. Siamo qua a dare una mano ai russi…siamo venuti ad aiutare, ce n’era proprio bisogno, in Italia si stava male!”.  Anche il ragazzo sardo spiega il perché della sua scelta: “Sono venuto qui perché è da un bel po’ di tempo che seguivo questa vicenda.A luglio ho perso il lavoro, non avevo altro da fare, potevo dedicarmi a fare qualcosa di utile per questa gente che, molti non lo sanno in Italia e in Europa, è vittima di crimini di guerra.

Quindi per una volta nella vita ho voluto fare qualcosa di utile nel mio piccolo, perché io sono una goccia nel mare, sono venuto qui, farò quello che mi è possibile”.

Al di la delle posizioni ideologizzate, non bisogna dimenticare che la maggior parte della popolazione del Donbass è costituita da russi che vivono qui da secoli. I libri di storia ci dicono che questi territori erano una parte vitale e integrante dell’Impero zarista.

D’altro canto l’Ucraina fino al crollo dell’Urss non è mai esistita come entità indipendente statuale (tranne che per i tre anni della Repubblica Popolare Ucraina dal 1917 al 1920).

A Donetsk come a Lugansk si dice che da giorni gli aeroporti di Dnepropetrovsk e di Kharkov sono interessati da un intenso traffico militare statunitense che ha bloccato i voli civili. Si dice che gli Stati Uniti stiano trasferendo i loro mezzi dall’Afghanistan all’Ucraina. Semplice scalo “tecnico” o forniture alle forze di Kiev di mezzi e armi ritirati da Kabul e ormai surplus per forze statunitensi?

Quanti e quali mezzi per ora non si sa, ma se le voci corrispondono al vero lo si saprà presto.

Nessuno nel Donbasssi fa grosse illusioni. Tutti ritengono che il significato della tregua in atto stia esattamente nel dar la possibilità a Kiev di riorganizzarsi e di preparare un’imponente offensiva contro i baluardi difensivi delle due autoproclamate Repubbliche Popolari di Donetsk e di Lugansk. Un’offensiva che, si ritiene, non si farà attendere a lungo.

Se la politica non si affretterà presto a risolvere questa crisi, c’è il rischio concreto che questa guerra, fin ora confinata a livello regionale possa presto deflagrare in un conflitto dalle dimensioni ben più vaste.

Eliseo BertolasiVedi tutti gli articoli

Laureato con lode in Lingue e Letteratura straniere araba e russa all'Università di Sassari e in Scienze antropologiche ed etnologiche all'Università di Milano Bicocca. Ha conseguito un Diploma in Emergenze e interventi umanitari all'ISPI. E'ricercatore associato e analista all'Istituto di Alti Studi in Geopolitica e Scienze Ausiliarie (IsAG) di Roma, redattore della rivista Geopolitica. Corrispondente dal Donbass per "Voce della Russia – Italia". Ex-parà della Folgore ha inoltre conseguito la qualifica di Paracadutista alla Scuola Superiore delle Aviotruppe russe a Rjazan. Pilota privato d'aereo, pilota commerciale d'elicottero.

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