REPORTAGE – IN PRIMA LINEA A DEBALTSEVE

Valentina Cominetti è tornata in prima linea visitando le aree più calde tenute dalle truppe di Kiev inclusa Debaltseve. Dallo stesso settore, ma visto dalle posizioni dei separatisti, pubblicheremo presto un reportage di Eliseo Bertolasi.     

“Sono contrario alla guerra, sono contrario alla carità, ma in questa situazione credo che questa sia la via migliore da seguire”. Siamo su un treno che porta da Kiev a Izyum. A parlare è Vitaly Deynega, fondatore dell’associazione no profit Povernys Zhyvim (tornare vivi a casa). Vitaly non è stato e non è un sostenitore della rivoluzione di Maidan ma quando, il 12 aprile scorso, è iniziata l’Operazione Anti Terrorismo (nome attribuito dal governo ucraino alle operazioni contro i separatisti del Donbass), ha preso le 10mila grivne che aveva da parte e ha fondato la sua organizzazione. Ora lavora con il Ministero della Difesa ucraino: “Non mi fido per niente di loro – dice – ma ci collaboro perché questo mi permette di muovermi più facilmente e di essere più utile”.

Vitaly punta a essere davvero influente sull’andamento del conflitto: “Noi non raccogliamo cibo, non forniamo elmi o giubbotti antiproiettile, non ci occupiamo di sostenere i reparti più scalcinati del nostro esercito. Forniamo principalmente termovisori monoculari Pulsar HD50S e Pulsar HD38S, prodotti in Russia, Bielorussia e Lituania.

Poi anche visori notturni, radiotrasmittenti e mirini di precisione per i fucili. Armi, purtroppo, non possiamo comprarne. Distribuiamo questo materiale in maniera molto mirata. Supportiamo soprattutto le forze speciali e d’élite regolari (paracadutisti e SWAT), reparti specializzati o battaglioni che si contraddistinguono per disciplina e coraggio. Non spediamo il materiale, che è troppo costoso e quindi appetibile per i generali che vendono le armi ai battaglioni di volontari e ai separatisti.

Ci occupiamo personalmente della distribuzione, visitiamo i vari reparti, passiamo del tempo con loro per verificarne la disciplina e l’operatività, e solo dopo decidiamo se è utile lasciar loro del materiale o meno. Spesso ci capita di lasciare a mani vuote soldati che versano in situazioni difficili, può sembrare spietato, ma il nostro primo scopo non è aiutare, è vincere”.

Sono le quattro del mattino quando arriviamo a Izyum. Ad aspettarci c’è Boris, della 95ma Brigata Paracadutisti. È lui a condurci a Slavyansk e a raccontarci di quanto la strada che percorriamo fosse pericolosa prima della liberazione della città: “Decine di chilometri da percorrere a velocità massima, rischiando di prendere colpi da entrambe le parti”.

In una mezz’ora arriviamo all’Ubelain Resort, vicino a uno dei laghi salati di Slavyansk. Questo edificio una volta era occupato dai separatisti e ora è il quartier generale  95ma Brigata.

Qui ci danno giubbotti antiproiettile, elmetti e una jeep per il viaggio. Decidono poi che abbiamo bisogno almeno di un uomo e di un kalashnikov come scorta. Ci presentano Dimitryi, paracadutista che sarà il nostro angelo custode per il resto del viaggio. Vitalyi ridendo, dice che con un cyborg accanto non ha nulla da temere.

Sentiamo degli spari in lontananza, chiedo come mai se Slavyansk è ormai in mano alle forze ucraine. Ci spiegano che comunque qualche gruppetto poco influente di separatisti è ancora sul territorio e attacca di notte, soprattutto la posizione sul monte Karachun, che visitiamo.

Qui c’è un reparto della Guardia Nazionale che, accanto all’antenna delle televisioni abbattuta dai  filorussi, sorveglia dall’alto la città. Il comandante dice che i suoi ragazzi sono snervati dalle provocazioni notturne dei separatisti: non hanno visori notturni, non sanno da dove vengono attaccati e non possono rispondere al fuoco. Vitalyi non è per niente toccato, lasciare materiale qui non servirebbe a nulla.

Tappa successiva Popasna. Lungo la strada ci fermiamo al posto di blocco che protegge la posizione strategica dell’esercito ucraino di stanza qui: un comandante della Guardia Nazionale consegna le medaglie al valore ad alcuni dei ragazzi, prima che tornino a casa in congedo.

Raggiungiamo poi le trincee. Sono su una collina di fronte a una foresta al di là della quale ci sono i separatisti. Uno dei soldati ci spiega che questa era una posizione importante anche nel 1944, quando a scontrarsi erano i tedeschi e l’armata rossa. Qui la situazione è particolarmente precaria, lo si vede dai volti provati dei soldati.

“Non dormiamo quasi mai – spiega uno di loro –  riceviamo attacchi soprattutto notturni, ma non riusciamo a individuarne l’esatta provenienza. Non possiamo nemmeno farci luce perché così alti e scoperti saremmo un bersaglio troppo facile”. Vitaly decide di lasciare qui un termovisore e due visori notturni.

Mi spiega che, nonostante i soldati non siano eccellentemente addestrati, conosce l’importanza di questa posizione. Ci spostiamo poi a Debaltseve, città circondata su tre fronti ormai da settimane: il via vai di mezzi militari e di ambulanze è continuo, il rumore di esplosioni è un sottofondo non troppo vicino.

Attendiamo a un posto di blocco un mezzo che ci scorta fino a un grosso deposito di armi: vietato fare foto, muoversi da soli per la base, fare troppe domande. Aspettiamo un comandante degli incursori che vuole parlare con Vitaly. Nel frattempo si avvicina spontaneamente a noi un soldato e con la scusa di offrirci un caffè dà sfogo a tutte le sue angosce.

Ci spiega che il Governo vuole perdere Debaltseve, che i soldati non possono rispondere al fuoco, che bisognerebbe demilitarizzare la zona o quantomeno spostare il deposito di armi e munizioni per evitare che finisca nelle mani nemiche. Gli errori strategici che si stanno commettendo sono chiari a tutti, ma per evitarli bisognerebbe disobbedire. “A Debaltseve – dice concitato – sta per accadere quello che è già successo a Ilovaysk il 24 agosto scorso, quando centinaia di soldati chiusi in una sacca sono stati trucidati dai nemici.

Anche lì c’era un grosso deposito di armi: tutte perse, anzi peggio, finite dall’altra parte. Ripetere lo stesso errore non vuol dire essere incapaci – si sfoga – ma avere la precisa volontà di perdere”.

Il comandante degli incursori che deve vedere Vitaly si presenta col volto coperto. Credo che sia perché ci sono io. I due hanno una fitta conversazione al termine della quale il volontario consegna una scatola piena di visori e mirini per fucili. Non saprò mai cosa si sono detti.
Passiamo la notte in una base militare a Uglegorsk. Non c’è luce, sono i separatisti a farla saltare; in attesa dei generatori, facciamo la doccia al buio, perché almeno l’acqua calda è rimasta. La mattina dopo nella sala delle colazioni c’è confusione, i soldati discutono nervosamente, imprecano. Durante la notte il posto di blocco che protegge la base è stato attaccato da un blindato, un BTR che ha sparato sei colpi. Sono riusciti a respingerlo senza distruggerlo ma trovano tutti assurdo che in nome degli accordi di Minsk non si possa nemmeno contrattaccare. “Non capisco come una risposta al fuoco possa essere considerata una provocazione”, grida il responsabile del posto di blocco.

Prima di ripartire facciamo una passeggiata fino al paesino accanto, Jenakievo. Vitalyi ha voglia di cibo diverso dal rancio militare a cui ci siamo quasi abituati. Lungo la strada notiamo una protesta davanti a un edificio. Sono donne, perlopiù anziane, alcune con dei bambini, che gridano contro qualcuno che non si presenta a rispondere.

Ci fermiamo per chiedere cosa succede. Ci rispondono in molte, quasi stordendoci. Jenakijeve è un paesino dipendente dalla città di Donetsk, ma dato che il suo territorio non è occupato dalle forze filorusse è rimasto senza un’amministrazione. Una giunta popolare si è autoproclamata e, anziché distribuire gli aiuti che arrivano tramite i volontari, li vende. “Manca anche il pane qui” dice una signora in lacrime rivolgendosi a Vitalyi che invece mi fa cenno di andarcene e che poi, di fronte al nostro piatto di Vareneky (ravioli tipici della cucina ucraina, ripieni di formaggio, carne, patate o verdura), mi dirà: “Io non posso mica occuparmi dei problemi di tutti”.

Questa volta il nostro percorso è breve. Ci fermiamo a Dzherzinsk, dove c’è una base molto grande che ospita due battaglioni: il Mirotvores, composto da 60 poliziotti mobilitati dal Governo per  pattugliare la zona e difendere la popolazione, e il 17mo Battaglione di volontari.

È quest’ultimo che interessa a Vitalyi perché composto da ex militari di professione, molti dei quali hanno prestato servizio nelle forze speciali. Arriviamo di sera, stanno cenando, ci uniamo a loro. Dopo il pasto veniamo invitati a una festa davvero particolare. Si beve e si suona perché sarebbe stato il compleanno di un commilitone deceduto durante la riconquista di Slavyansk.

Si chiamava Andreyi. Avrebbe compiuto trentadue anni. Sul tavolo c’è un bicchiere in più, anche quello pieno di Horilka (la vodka ucraina). Si brinda e si butta giù il bicchiere tutto d’un sorso e si tampona il bruciore mettendosi subito in bocca un pezzo di pane.

Anche sul bicchiere del festeggiato c’è un pezzo di pane con del salame sopra. Dopo molti altri bicchieri (dalla vodka si passa al cognac), e dopo aver ascoltato canzoni struggenti anche per chi come me non ne capisce le parole,  si esce e si lancia un razzo nel cielo buio: serve a liberare l’anima del soldato.

È mezzanotte, la festa finisce, ma il dovere no. Tutto il battaglione viene convocato per la ripartizione degli incarichi dell’indomani e per la scelta dei “fortunati” che passeranno la notte a presidiare il posto di blocco, godendosi i ¬21 gradi sotto zero della notte ucraina. Il comandante del 17mo era nei servizi segreti ucraini (SBU), ma li ha abbandonati quando è salito al potere Yanukovich perché, dice, con il nuovo governo non si sentiva più al servizio della sua nazione ma al servizio della Russia. Con l’Operazione Anti Terrorismo ha deciso di rimettere in gioco le sue competenze e il suo coraggio e ora dirige le operazioni a  Horlivka, uno dei punti attualmente più violenti e precari della linea del fronte nella regione di Donetsk.

La mattina dopo è proprio lì che andiamo. La missione è delicata perché si tratta di rifornire di munizioni le trincee. Indossiamo i giubbotti antiproiettile e gli elmetti e veniamo caricati sul retro di furgoni bianchi. Per raggiungere le posizioni bisogna attraversare una lingua di terra occupata. Passiamo al buio, in silenzio.

Pur non vedendo nulla ci accorgiamo dell’arrivo alle postazioni. Le esplosioni sono fortissime e la guida dell’autista si fa chiaramente più nervosa. Il battito cardiaco si accelera soprattutto per la mancanza di controllo della situazione. Una volta fermi, i soldati che ci aprono le porte ci conducono di corsa nel rifugio anti bomba e solo una volta dentro ci stringono la mano. Siamo nei sotterranei di un edificio dismesso. Il rifugio è lungo e stretto, affollato e concitato.

Militari entrano e escono in continuazione. Qui si combatte, giorno e notte, perché – anche se inquadrato nell’esercito – il 17mo battaglione è più libero dagli ordini dei comandi.

Ci sono anche molti volontari di Kerovograd, noti per il loro coraggio. Uno di loro, Ruslan, parla italiano e nella sua città ha una pizzeria “’O Vesuvio”. Ci invita nel suo locale quando sarà finita la guerra e intanto ci spiega quanto sia difficile la situazione a Horlivka per loro che non hanno artiglieria pesante a differenza dei separatisti che li attaccano. “Giusto perché siamo di Kerovograd resistiamo” – scherza.
“Certo meglio avere le munizioni che non averle, ma servono a poco. Ci sembra di star qui inutilmente, teniamo le posizioni ma non riusciamo ad avanzare”.

Una volta consegnato il materiale, aspettiamo un momento di relativa e apparente calma per uscire. Fuori vediamo l’ultima bandiera ucraina di  Horlivka: è su un cumulo di detriti alto almeno trenta metri, residuo di una vecchia miniera. Ci rendiamo poi conto che le trincee sono molto vicine a delle abitazioni. Qualche civile approfitta dello stop dei bombardamenti per affacciarsi fuori di casa. Una signora porta dei pacchi di caffè e dei biscotti ai soldati: “Non ho proprio modo di andarmene da qui” – spiega. “Non ho amici che possano ospitarmi, nessuno che mi aiuti. Ringrazio il battaglione che ci protegge e prego Dio che fermi tutto questo”.

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Nata a Roma nel 1989, si laurea con Lode in Scienze Politiche e della Comunicazione alla Luiss Guido Carli. Ha frequentato diversi master di giornalismo e collaborato con diverse testate e con Radio Vaticana. Si occupa di sicurezza e geopolitica, ha seguito sul campo il conflitto ucraino e ha realizzato reportage nell'area balcanica. Attualmente vive in Israele dove è ricercatrice presso l'International Institute for Counterterrorism.

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