BLOCCO NAVALE? MEGLIO I “RESPINGIMENTI ASSISTITI”
L’ennesima tragedia nel Canale di Sicilia ha sollevato le consuete polemiche tra i fautori dell’accoglienza generalizzata “senza se e senza ma” e i sostenitori del blocco dei flussi migratori favorevoli all’attuazione di un blocco navale alle coste della Libia.
Da un lato ormai è evidente che non è più possibile continuare ad arricchire trafficanti, malavitosi e terroristi islamici accogliendo flussi migratori che non avranno mai fine e che non sono più sostenibili in termini sociali e finanziari. Lo ha detto lo stesso direttore di Frontex, Fabrice Leggeri, che in un’intervista a Le Figaro ha affermato che “si deve portare soccorso a chi è in pericolo” e “accordare diritto d’asilo” ma “non si deve fare il gioco degli spietati trafficanti d’uomini, disposti a obbligare i migranti a imbarcarsi con il mitra puntato alla schiena”. Leggeri ha aggiunto che “i migranti che intraprendono la strada libica ormai arrivano dall’ Africa, non più dalla Siria o dall’Iraq” e per lo più “partono per problemi economici, e possono e devono essere rispediti a casa loro”.
La stessa linea approvata dall’Unione Europea nei suoi dieci punti include l’incremento delle forze navali assegnate all’operazione Triton (che resta però una missione di sorveglianza non di soccorso, compito quest’ultimo che, come ha ricordato lo stesso Leggieri, spetta ai singoli Stati) ma anche la lotta ai trafficanti con la distruzione preventiva dei barconi.
La legittimità dell’azione contro i trafficanti è fuori discussione dal momento che la Libia è nel caos e provoca danni agli interessi nazionali dei suoi vicini e confinanti. Inoltre il “governo” libico che gestisce le coste della Tripolitania tra Zawya, Zuara e il confine tunisino da cui salpano i barconi, l’esecutivo islamista di Tripoli, non è riconosciuto dalla comunità internazionale. Eventuali azioni militari lungo la costa sarebbero quindi più che legittime in base alla necessità di tutelare la sicurezza nazionale, compito che l’Italia non dovrebbe delegare alla Ue.
Non è un caso che il governo legittimo di Tobruk abbia duramente preso posizione contro i “traghettatori della morte” e anche il governo islamista di Tripoli (Fronte Alba della Libia) abbia “espresso la propria disponibilità a cooperare con l’Unione europea per combattere l’immigrazione illegale e il terrorismo che minaccia la sicurezza dell’area nel quadro di un rispetto della sovranità dello Stato della Libia”.
D’altra parte evocare un blocco navale non ha senso poiché la misura, di carattere bellico, è volta a impedire l’entrata e l’uscita di navi mercantili nei porti di uno Stato nemico. Neppure nei confronti dei porti della ex Jugoslavia durante le guerre etniche degli anni ’90, venne attuato un blocco navale ma solo un embargo sulle forniture di armi, peraltro in vigore oggi nei confronti della Libia. Il blocco navale, che in termini giuridici è un atto di guerra, sarebbe quindi superfluo dal momento che l’obiettivo non è impedire l’accesso o l’uscita di navi dai porti libici (a meno che non siano cariche di immigrati clandestini) ma solo bloccare i barconi di migranti appena sono salpati prima che raggiungano l’alto mare.
Distruggere i barconi
La Ue sembra pronta ad autorizzare la distruzione dei barconi ma l’operazione si presenta complessa e ambigua perché da un lato Roma e Bruxelles respingono l’ipotesi di un intervento militare sul suolo libico e dall’altro contemplano azioni che porteranno all’impiego di truppe, mezzi e armi su quella costa.
Già oggi le imbarcazioni utilizzate dai migranti vengono sequestrate o distrutte dalle autorità italiane ma colpirle sulle coste libiche prima che vengano messe in mare potrebbe risultare complicato. Ricognizione aerea e intelligence dovrebbero individuare i barconi, a scafo rigido o gommoni ma in ogni caso di dimensioni contenute e facilmente occultabili o mimetizzabili.
Per distruggere i barconi si possono impiegare raid aerei, incursioni a bassa quota di elicotteri armati, bombardamenti di precisione delle artiglierie navali e incursioni “mordi e fuggi” sulla costa di fanteria e forze speciali. Opzioni che non possono escludere il rischio di provocare danni collaterali tenuto conto che le milizie dei trafficanti punteranno a nascondere le loro preziose barche vicino a obiettivi civili per scoraggiare gli attacchi.
L’impiego di ordigni lanciati da aerei o elicotteri, così come l’utilizzo delle artiglierie navali rischierebbe di provocare “danni collaterali”, cioè di distruggere i barconi danneggiando abitazioni o uccidendo e ferendo innocenti. Leonardo Tricarico, presidente della Fondazione ICSA, ha proposto l’impiego dei droni per distruggere i barconi ma, come dimostra l’intenso impiego dei droni nelle operazioni antiterrorismo statunitensi, neppure i velivoli teleguidati riescono a evitare di provocare vittime innocenti.
Inoltre i Predator A e B acquistati dall’Italia sono ancora disarmati e Washington non si è ancora decisa a vendere a italiani, francesi e olandesi i kit necessari ad armarli concessi solo ai “super alleati” britannici .
L’impiego di forze militari sulla costa comporta invece il rischio di coinvolgimenti in scontri a fuoco che potrebbero determinare perdite e richiederebbero l’approntamento di un vasto dispositivo aereo e navale per recuperare le truppe a terra ed evacuare feriti. I rischi più elevati sono di trovarsi con le truppe coinvolte in scontri a fuoco con le milizie dei trafficanti strettamente colluse con i gruppi terroristici islamici incluso lo Stato Islamico.
Difficile conciliare questi scontri con la decisione di non inviare truppe sul territorio libico e con la scarsa tolleranza alle perdite in battaglia di governi e società europee.
Del resto si può stare certi che le organizzazioni malavitose in Libia non esiterebbero a posizionare le barche vicino agli alloggi dei migranti e a farsi scudo dei civili anche tenendo conto di quanto vengano considerati preziosi i barconi dai trafficanti sia perché generano a ogni viaggio circa mezzo milione di euro di incasso sia perché il loro scarso numero costituisce oggi l’unico motivo che impedisce ai criminali di ingigantire ulteriormente i flussi migratori verso l’Italia.
L’esempio della distruzione dei barchini dei pirati somali dalle forze dell’Operazione europea Atalanta nell’Oceano Indiano, evocato negli ambienti europei, dovrebbe in realtà costituire un monito più che incoraggiare azioni di attacco alle imbarcazioni dei trafficanti libici.
Gli elicotteri delle flotte europee distrussero sulle spiagge diversi barchini ma dovettero cessare le operazioni quando i pirati minacciarono di uccidere i marinai delle navi catturate se vi fossero starti altri attacchi. Facile quindi immaginare che anche i trafficanti libici non esiterebbero a minacciare di uccidere dei migranti (probabilmente quelli i cristiani) in caso di attacchi alle loro imbarcazioni.
I respingimenti assistiti
L’unica opzione ragionevole sembra essere quella dei “respingimenti assistiti”, sostenuta da Analisi Difesa fin dall’avvio di Mare Nostrum.
Respingimenti che sarebbero possibili impiegando una mezza dozzina di unità della Marina Militare a ridosso della costa della Tripolitania occidentale, da dove salpano i barconi, per soccorrere immediatamente i migranti appena salpati evitando altre tragedie e naufragi per poi sbarcarli con i mezzi militari e sotto scorta sulla costa libica.
Un’operazione non certo priva di rischi ma gestibile con una nave da sbarco portaelicotteri classe San Giorgio e 5 tra fregate, corvette e pattugliatori con elicotteri, droni dell’Aeronautica, aerei da pattugliamento marittimo per localizzare immediatamente i barconi in partenza e qualche centinaio di fucilieri di Marina. Assetti peraltro già assegnati ora all’operazione Mare Sicuro che opera però al largo delle coste libiche.
I migranti raccolti in mare appena salpati, i quali non sarebbero provati da giornate di navigazione in condizini disumane, potrebbero venire concentrati sulla spaziosa unità classe San Giorgio e poi riportati a terra con i mezzi da sbarco sotto la scorta dei Fucilieri di Marina. Questa pratica consentirebbe di trattenere feriti o malati da sottoporre a cure e fornire generi di prima necessità ai migranti prima di sbarcarli trattenendo sul suolo libico le truppe italiane solo il tempo strettamente necessario alle operazioni di sbarco da effettuare in aree costiere sotto la protezione deterrente delle artiglierie navali.
Il dispositivo necessario sarebbe poco più consistente di quello impiegato oggi per l’operazione Mare Sicuro e avrebbe costi solo di poco superiori. L’operazione “respingimenti assistiti” consentirebbe comunque di recuperare i barconi e affondarli ma in più ridurrebbe in breve tempo i flussi migratori poiché nessuno rischierebbe più la vita e pagherebbe migliaia di euro ai trafficanti sapendo che si ritroverà sulla costa africana del Mediterraneo.
In questo modo si salverebbero migliaia di vite umane azzerando gli incassi dei trafficanti e dei terroristi islamici e diffondendo un chiaro messaggio che l’Italia e l’Europa non sono più disponibili ad accogliere migranti che si affidano a malavita e terrorismo. Un’iniziativa che inoltre costringerebbe le Nazioni Unite, oggi restìe a impegnarsi in Libia, a intervenire per assistere e rimpatriare i migranti come fece nel 2011 in Tunisia attuando un ponte aereo internazionale per riportare nei loro Paesi d’origine oltre un milione di lavoratori stranieri fuggiti dalla Libia in guerra.
Una misura simile ai “rimpatri assistiti” è stata recentemente caldeggiata dall’ammiraglio di squadra britannico, Chris Parry, già comandante del Gruppo Anfibio della Royal Navy e oggi affermato opinionista strategico. Parry (nella foto a sinistra) ha auspicato il 21 aprile in un’intervista alla BBC un intervento delle Nazioni Unite per bloccare i barconi in partenza e obbligarli a tornare indietro in Libia.
Di fronte alle coste del paese nord africano dovrebbe essere costituito una “zona marittima a giurisdizione speciale” gestita dall’Onu. I barconi devono essere fatti tornare indietro in questo spazio, in cui si procederà alle verifiche sui loro occupanti e sul fatto che siano migranti o rifugiati, in quanto lo status legale è diverso. “Dobbiamo evitare che prendano il mare – ha detto l’ammiraglio – e ricattino le navi mercantili e militari, obbligandole a prenderli a bordo Parry senza fornire molti dettagli.
I “respingimenti assistiti” costituiscono quindi l’unica iniziativa in grado di risolvere l’emergenza immigrazione e come tali provocherebbero reazioni tra i trafficanti che cercherebbero in ogni modo di attuare provocazioni e ricatti con la loro consueta brutalità e senza alcun rispetto per la vita dei migranti.
Da quanto si evince per ora i trafficanti non sembrano prendere troppo sul serio le iniziative annunciate dall’Europa. “Stanno solo mentendo, sono dei bugiardi. E non è la prima volta. L’anno scorso successe la stessa cosa quando ci furono altre tragedie. La gente dei diritti umani si mise a fare discorsi e i politici si riunirono e dissero che avrebbero fatto qualcosa.
Ma non successe nulla. Sarà lo stesso oggi” ha detto Hajj (appellativo di fantasia dietro al quale si cela uno dei principali trafficanti di esseri umani di Zuara) al Guardian. Forse ha ragione Haji ma se davvero Italia ed Europa vogliono fare sul serio per combattere questi farabutti meglio prepararsi a fare sul serio tirando fuori un po’ di pelo sullo stomaco e rinunciando a buonismi e linguaggio “politicamente corretto”.
Foto: Marina Militare, Aeronautica Militare e BBC
Gianandrea GaianiVedi tutti gli articoli
Giornalista bolognese, laureato in Storia Contemporanea, dal 1988 si occupa di analisi storico-strategiche, studio dei conflitti e reportage dai teatri di guerra. Dal 1991 al 2014 ha seguito sul campo i conflitti nei Balcani, Somalia, Iraq, Afghanistan, Sahara Occidentale, Mozambico e Sahel. Dal febbraio 2000 dirige Analisi Difesa. Ha collaborato o collabora con quotidiani e settimanali, università e istituti di formazione militari ed è opinionista per reti TV e radiofoniche. Ha scritto diversi libri tra cui "Iraq Afghanistan, guerre di pace italiane", “Immigrazione, la grande farsa umanitaria” e "L'ultima guerra contro l’Europa". Presso il Ministero dell’Interno ha ricoperto dal 2018 l’incarico di Consigliere per le politiche di sicurezza di due ministri e un sottosegretario.