MEGLIO POTERCELA CAVARE DA SOLI, ALMENO NEL "GIARDINO DI CASA"
In attesa di vedere quali indicazioni scaturiranno dal Libro Bianco che il Ministero della Difesa avrebbe dovuto presentare al Parlamento in dicembre (ma di cui ancora non si sa nulla e persino negli Stati Maggiori nessuno sembra averlo visto) gli sviluppi delle crisi che coinvolgono l’Italia impongono alcune riflessioni e valutazioni sulle caratteristiche che in futuro dovremmo garantire alle nostre Forze Armate.
Al di là delle indicazioni emerse nelle Linee Guida, ancora in buona parte basate sui tradizionali punti di riferimento (NATO e Unione Europea) e improntate a valutazioni che cozzano con le risorse finanziarie in continuo ribasso, sempre più inadeguate e che in futuro difficilmente potranno subire forti incrementi (di certo non con l’attuale governo),occorre guardare in faccia una realtà che impone all’Italia scelte controcorrente rispetto al passato tese a garantirci la possibilità di difendere anche autonomamente gli interessi nazionali almeno nell’area mediterranea.
La guerra in Libia del 2011, l’emergenza immigrati, la crisi ucraina l’attuale situazione esplosiva determinata dalla penetrazione dello Stato Islamico nella nostra ex colonia dimostrano inequivocabilmente che sui nostri alleati non possiamo contare. Bene che vada non ci aiutano nelle difficoltà quando non sono proprio loro a metterci nei guai.
Gli interessi degli Stati Uniti, neo potenza energetica che nel 2020 sarà il primo esportatore mondiale di gas e petrolio, non coincidono più con quelli dell’Europa con cui ha condiviso, dopo la caduta dell’URSS, un’alleanza basata sull’interesse comune a mantenere stabili le aree energetiche necessarie a tutto l’Occidente.
Per noi mantenere la stabilità delle aree energetiche è ancora prioritario, per gli USA no e infatti il loro disimpegno da Iraq/Medio Oriente e Afghanistan/Asia Centrale e l’ambigua politica mediorientale coincidono con questa raggiunta autonomia energetica.
Anzi, Washington sembra avere interesse a favorire la destabilizzazione delle regioni caratterizzate dalla presenza di risorse energetiche o attraversate da gasdotti e oleodotti, fondamentali per le economie dei loro competitor globali (Europa, Giappone, Cina, India, “tigri asiatiche”…).
Per bilanciare il nuovo degli USA “potenza destabilizzatrice”, l’Unione Europea è ancora immatura e comunque incapace di darsi una strategia che accomuni realmente tutti i partners nonché una politica estera comune.
In ogni caso non ci sono indizi di un reale interesse dei nostri principali partner per le questioni mediterranee nè di una concreta solidarietà nei confronti dell’Italia per l’emergenza immigrazione. Se i nostri alleati sono troppo distratti, o persino ostili, occorre riconoscere che in termini di sicurezza dovremmo puntare a mantenere capacità militari, operative e di intervento oltremare nazionali.
Se le alleanze di cui l’Italia fa parte non garantiscono più la tutela dei nostri interessi nazionali occorre attrezzarsi per tutelarli anche da soli gestendo in autonomia operazioni oltremare invece di continuare a lamentare l’assenza o il disinteresse dei partner. Senza voler rispolverare ambizioni superiori alla nostra portata l’Italia dovrebbe mantenere la capacità di gestire nel tempo un intervento ad ampio respiro nell’area mediterranea dove Roma non può rinunciare a ritagliarsi un’area d’influenza nell’ambito della stabilizzazione regionale.
Ad esempio un intervento in Libia in grado di fermare i flussi di immigrati clandestini, mettere in sicurezza i terminal energetici attuando raid contro i jihadisti. Al tempo stesso le forze armate dovrebbero essere in grado di gestire un intervento limitato per intensità e/o durata oltre Suez e Gibilterra presumibilmente in un’area africana, del Medio Oriente o dell’Oceano Indiano come la missione anti pirateria nelle acque somale.
Uno strumento del genere dovrebbe avere e continuare a mantenere:
– ampie capacità marittime e aeronavali imposte non solo dall’estensione costiera del Paese ma anche dal fatto che l’80 per cento delle merci che l’Italia esporta e importa si muovono via mare e che la gran parte delle aree di interesse strategico per il nostro Paese sono bagnate dal mare.
– capacità aeronautiche complete e autonome, dai jet da combattimento ai cargo/tanker, dai velivoli radar (AEW) a quelli per la sorveglianza/intelligence (droni).
– forze terrestri da combattimento in grado di affrontare guerra convenzionale e operazioni di contro-insurrezione. Un mix bilanciato tra unità meccanizzate e corazzate pesanti e fanteria leggera estremamente mobile.
Le risorse finanziarie
Difficile ipotizzare che nei prossimi anni il Paese possa stanziare per la Funzione Difesa cifre superiori ai 13/14 miliardi di euro annui ai quali si aggiungono 2/3 miliardi di fondi provenienti da altri ministeri per sostenere l’acquisizione di mezzi e materiali e circa un miliardo per finanziare le missioni oltremare: un totale un massimo di 16/18 miliardi annui dei quali però più della metà (oltre 9,6 miliardi) sono assorbiti dal pagamento delle retribuzioni.
I fondi per le missioni in realtà pagano anche l’addestramento dei reparti destinati a operare all’estero che non viene certo garantito dagli stanziamenti destinati dalla voce Esercizio (addestramento, manutenzioni, carburante) del bilancio progressivamente mortificata e impoverita fino a scendere nel 2015 ad appena l’8,7 del bilancio della Funzione Difesa (1,14 miliardi di euro) mentre le spese per il personale hanno superato il 73% per cento del budget della Funzione Difesa.
In assenza di margini per aumentare i finanziamenti diventa imperativo costituire uno strumento militare sostenibile nel tempo. Inutile acquistare mezzi sofisticati e costosissimi che non avremo poi i fondi per mantenere in servizio. Al tempo stesso è necessario investire i pochi fondi per i nuovi equipaggiamenti favorendo l’acquisto di prodotti dell’industria nazionale o realizzati da consorzi con i partner europei in cui sono presenti con ruolo non marginale le aziende italiane.
L’obiettivo è favorire la ricerca e sviluppo nei settori trainanti dell’Hi-tech e per garantirci quell’autonomia industriale, strategica e operativa indispensabile a sostenere gli interessi nazionali evitando di porre le Forze Armate in una condizione di dipendenza dagli Stati Uniti o da altre potenze straniere.
Uno strumento sostenibile
Nei limiti di una trattazione di estensione limitata ecco alcuni spunti di discussione circa i provvedimenti che potrebbero contribuire a calibrare uno strumento efficiente e sostenibile per tutelare gli interessi nazionali anche con limitate risorse finanziarie.
– Potenziare lo Stato Maggiore Difesa accentrando il più possibile funzioni oggi coperte dai singoli Stati maggiori di forza armata: dai servizi amministrativi a quelli logistici, dagli approvvigionamenti al Comando delle forze speciali. Chiudere tutti i comandi territoriali delle singole Forze Armate e sostituirli con tre comandi interforze (Nord, Centro e Sud)
– Favorire arruolamenti per periodi limitati a 5/10 anni di giovani per evitare che la “Riforma Di Paola” che ridurrà da 185 mila a 150 mila i militari italiani entro il 2024 si completi lasciandoci forze armate composte da 50enni.
– Cessare ogni impiego dei militari in compiti impropri quali l’ordine pubblico, la raccolta dei rifiuti, la rimozione della neve e l’operazione Mare Nostrum: unico esempio nella storia di forze armate impiegate per garantire a chiunque paghi il “pizzo” a organizzazioni malavitose e terroristiche di penetrare illegalmente i confini nazionali.
– Ritirare i contingenti oltremare da missioni usuranti e costose in aree lontane dai nostri interessi nazionali come quella in Afghanistan (53 caduti, centinaia di feriti, 7 miliardi spesi finora senza nessun ritorno nazionale e senza aver vinto la guerra) o in Iraq dove in realtà fingiamo solo di combattere lo Stato Islamico con consiglieri militari e aerei/droni disarmati. Truppe e mezzi schierati in aree dove Roma non avrà mai una concreta influenza solo perché gli alleati o la “comunità internazionale” ce lo chiede. Da Herat ci ritireremo comunque entro l’estate mentre la missione in Iraq non ha attualmente una scadenza definita.
– Limitare le missioni all’area mediterranea e “Mediterraneo allargato” solo se necessarie a perseguire gli interessi nazionali superando finalmente il “complesso di Cavour” che ci ha sempre visto inviare truppe dove ce lo chiedono gli alleati o la “comunità internazionale.”
– Uscire dal programma F-35 o ridimensionarne la partecipazione a una ventina di velivoli della versione B necessari alla Marina per l’imbarco sulla portaerei Cavour poiché non esistono sul mercato altri velivoli con capacità di decollo corto e atterraggio verticale.
Per rimpiazzare Tornado e AMX dell’Aeronautica si potrebbe completare la commessa prevista inizialmente di 121 esemplari di Eurofighter Typhoon (poi scesi a 96), prodotto europeo in cui l’Italia è protagonista nella progettazione e produzione e sul quale abbiamo piena sovranità tecnologica a differenza del velivolo statunitense, per gestire e impiegare il quale saremmo sempre dipendenti dagli statunitensi con costi imprevedibili e sudditanze tecnologica e operativa imbarazzanti.
Per l’F 35 abbiamo già speso oltre 3 miliardi di euro in parte forse recuperabili cedendo gli 8 velivoli già acquistati e vendendo o affittando a Lockheed Martin o Pentagono gli impianti di manutenzione e assemblaggio di Cameri. Limitandoci ad acquistare i velivoli in versione B per la Marina risparmieremmo una decina di miliardi di euro ma si potrebbe anche scegliere di mantenere in linea gli AV-8B Harrier ancora un po’per poi acquisire gli F-35B in leasing dai Marines statunitensi, magari barattandoli con l’utilizzo delle basi statunitensi in Italia le cui condizioni andrebbero oggi riviste rispetto ai mutati interessi nazionali dei due Paesi.
Dopo gli ultimi drammatici tagli al bilancio della Difesa il dibattito tra pro e contro l’F-35 ci sembra ormai superato: se anche diventasse il più efficace ed economico aereo da combattimento della Storia non potremmo comunque permetterci di gestirlo sul piano finanziario. Con gli attuali bilanci una forza aerea con due diversi tipi di jet da combattimento (per di più costosi come F-35 e Typhoon) non è sostenibile e già ora molti Eurofighter restano negli hangar per mancanza di risorse per tenerli in linea.
Francia e Germania, che spendono per la Difesa più del doppio di noi, hanno impostato le forze aeree su un solo jet da combattimento (Rafale i francesi e Typhoon i tedeschi) riducendo così anche i costi logistici e di gestione. Il Typhoon del resto è in grado di affrontare a testa alta ogni avversario oggi presente al mondo sia in compiti da caccia che di attacco al suolo. Con 120 aerei da combattimento tutti dello stesso tipo, potremmo far fronte a tutte le esigenze oggi prefigurabili con una capacità compatibile con le possibilità del Paese. Del resto se la Germania prevede di avere una linea da combattimento basata su 160 Typhoon noi potremmo accontentarci di 120.
– Ristrutturare l’Esercito tagliando i comandi intermedi: Comfoter, Comando Truppe Alpine, 2° Comando Forze di Difesa (Fod) e i comandi di divisione Friuli e Tridentina. Il mantenimento del comando di proiezione Acqui, a livello divisione, è già sufficiente alle esigenze e capacità nazionali tenuto conto che abbiamo anche un comando proiettabile della NATO del tipo NRDC a Solbiate Olona. Impostare le forze terrestri su 6 brigate da combattimento (più una anfibia congiunta con la Marina Militare) contro le attuali 11 farebbe guadagnare risorse da assegnare all’addestramento, soprattutto quello al combattimento e all’ammodernamento dei mezzi e dotazioni. Mantenere forze operative più consistenti sarebbe anacronistico rispetto alle risorse finanziarie disponibili e comporterebbe ricadute negative in termini di addestramento e capacità operative.
– Attuare un programma di costruzione di grandi basi in aree esterne ai centri urbani per alloggiarvi unità a livello brigata con tutti i reparti dipendenti risparmiando i costi di gestione imposti oggi da tante strutture disseminate sul territorio, spesso vecchie e in pessime condizioni. Il programma andrebbe inserito nell’ambito delle grandi opere pubbliche da finanziare almeno in parte con la cessione di caserme ed edifici anche di pregio nei centri storici.
– Assicurare l’ammodernamento della Marina Militare con le nuove costruzioni previste per garantirci capacità navali superiori a quelle delle altre Marine del Mediterraneo, settore dove, per tonnellaggio, la flotta turca ha quasi raggiunto quella italiana e la Turchia ha aspirazioni di potenza regionale che collidono già in Libia con gli interessi italiani. Le costruzioni navali, quasi completamente incentrate su prodotti “made in Italy”, comportano inoltre un’importante ricaduta sull’industria nazionale in termini di ricerca, posti di lavoro e possibilità di export.
Queste iniziative potrebbero rivitalizzare lo strumento militare rendendolo più efficiente e sostenibile, evitando di sprecare risorse in missioni lontane dagli interessi nazionali e consentendo soprattutto di poter far fronte a quelle situazioni di crisi che per noi è prioritario risolvere e in cui gli alleati non intendono impegnarsi o sono pesantemente coinvolti in azioni di destabilizzazione contrarie ai nostri interessi.
Se fino agli anni ’80 siamo stati fruitori di sicurezza prodotta dagli Stati Uniti per poi divenire, dagli anni ’90, co-produttori della sicurezza globale, oggi è tempo di rendersi conto che è meglio avere mezzi e strumenti per potercela cavare da soli, all’occorrenza, perchè nessuno scenderà più in campo per difendere i nostri interessi.
Foto: Difesa.it, Lockheed Martin, Isaf, Stato Islamico, Alberto Scarpitta,
Gianandrea GaianiVedi tutti gli articoli
Giornalista bolognese, laureato in Storia Contemporanea, dal 1988 si occupa di analisi storico-strategiche, studio dei conflitti e reportage dai teatri di guerra. Dal 1991 al 2014 ha seguito sul campo i conflitti nei Balcani, Somalia, Iraq, Afghanistan, Sahara Occidentale, Mozambico e Sahel. Dal febbraio 2000 dirige Analisi Difesa. Ha collaborato o collabora con quotidiani e settimanali, università e istituti di formazione militari ed è opinionista per reti TV e radiofoniche. Ha scritto diversi libri tra cui "Iraq Afghanistan, guerre di pace italiane", “Immigrazione, la grande farsa umanitaria” e "L'ultima guerra contro l’Europa". Presso il Ministero dell’Interno ha ricoperto dal 2018 l’incarico di Consigliere per le politiche di sicurezza di due ministri e un sottosegretario.