A Mosca serve una strategia a lungo termine contro l’ISIS

AGI –  Mentre la Russia è impegnata a promuovere la sua iniziativa per una coalizione internazionale contro l’Isis e spinge per una maggiore cooperazione, in casa sembra non avere però una strategia a lungo termine per arginare il flusso di combattenti verso Siria e Iraq.

“Il terrorismo è solo una parte del più vasto problema del dialogo con gli islamisti, che oggi rappresenta una delle questioni più importanti nel Paese”, ha spiegato all’Agi Varvara Pakhomenko, analista dell’International Crisis Group (Icg) per l’Asia centrale ed esperta di conflitti in Caucaso.

A suo dire, le “maniere forti” che da tre anni a questa parte il governo è tornato a utilizzare contro i ribelli islamici, soprattutto in Daghestan, hanno contribuito ad accrescere il numero di militanti arruolatisi nell’Isis e a riportare la Russia stessa in cima all’agenda del jihad mondiale.

Secondo stime fornite di recente dal vice ministro degli Esteri russo con incarico alla lotta al terrorismo, Oleg Syromolotov, attualmente in Siria e Iraq combattono circa 2.200 persone provenienti dalla Federazione.

I servizi segreti (Fsb) stimano che i russi rappresentino l’8% dei militanti nello Stato islamico. La maggior parte di loro arriva dalla repubblica caucasica del Daghestan, “l’epicentro delle tensioni, la  regione piu’ grande e islamizzata” dell’area, fa notare la Pakhomenko, la quale pero’ ricorda che tra chi parte “vi sono anche molti ceceni della diaspora in Europa”.

Di recente, lo Stato islamico ha notevolmente potenziato la sua propaganda in russo, diventato la sua terza lingua dopo l’arabo e l’inglese, ha fatto notare Aleksei Malashenko, del Carnegie Center di Mosca. “E’ la lingua che unisce i fondamentalisti da tutto lo spazio ex sovietico”, ha aggiunto l’esperto di islam.

Grazie poi a ruoli di comando conquistati dai caucasici – uno su tutti, Omar al Shishani (georgiano di etnia cecena che ha combattuto in Cecenia contro Mosca) “la Russia è tornata nell’agenda degli islamisti, dopo essere rimasta relegata alla periferia del jihad mondiale, dalla fine degli anni ’90”.

L’anno scorso, Abu Bakr al Baghdadi ha attaccato direttamente il presidente Vladimir Putin per il sostegno al regime siriano, minacciando di portare la guerra nel Caucaso russo. A giugno, l’Emirato del Caucaso – principale gruppo di ribelli della regione – ha giurato fedeltà all’Isis.

Nonostante il presidente della repubblica cecena, Ramzan Kadyrov, sostenga che per i giovani lo Stato Islamico rivesta sempre meno interesse, il flusso di militanti dalla Russia ha subito un incremento dal 2013. A detta della Pakhomenko, è anche frutto delle politiche repressive nel Caucaso attuate da Mosca che hanno risultati solo sul breve termine, ma  non in prospettiva.

“Tra il 2009 e il 2010, c’era stato il tentativo di combattere ‘estremismo adottando un intero complesso di misure ‘soft’, al dialogo con i salafiti a una politica religiosa più liberale, in Daghestan e Inguscezia era stata creata la ‘commissione per l’adattamento’ dei militanti che volevano tornare a una vita normale”.

Tutto è finito nel 2012, quando alla vigilia delle Olimpiadi invernali di Sochi, si è ripreso a fare affidamento solo sulla soluzione militare (perquisizioni in moschee e mercati, arresti in casa, sparizioni, torture). “Questo ha aiutato a garantire la sicurezza dei Giochi, ma la repressione + stata motivo di un nuovo flusso di militanti verso la Siria”, ha fatto notare la Pakhomenko.

“Si è persa la fiducia che si stava appena creando tra islamisti e autorità, i leader che non sono morti si sono radicalizzati, alcuni di quelli che partecipavano al dialogo con le autorità sono passati dalla parte di Is, alcuni sono andati in Siria”, ha aggiunto l’analista. I servizi di sicurezza russi ritengono una “minaccia concreta” il rientro di questi militanti in patria.

“Il processo è già in corso – spiega Pakhomenko – ma per ora non è di massa e penso che non lo sarà”, finché combattere in Siria sarà più facile e redditizio, che non in Russia. Il problema, però, rimane: “Quelli che tornano hanno acquisito una forte esperienza in guerra, sono più radicali e hanno buoni contatti con il jihad mondiale e questo può influire molto sulla situazione della regione”, ha ammonito l’esperta dell’Icg.

“E’ dalla fine del 2000 che l’Fsb avverte della minaccia del ritorno di militanti russi da Medio Oriente e Afghanistan”, ha ricordato ad AGI Andrei Soldatov, esperto di servizi segreti e fondatore del sito Agentura.ru. “Sulla Siria è iniziato nell’estate del 2013, prima delle Olimpiadi di Sochi, l’Fsb aveva bisogno di una merce di scambio nei negoziati con gli americani nel campo delle azioni comuni nella lotta al terrorismo”.

Si tratta di un aspetto ancora oggi molto importante, ha fatto notare Soldatov: “L’Fsb e il suo direttore Aleksandr Bortnikov, sono interessati ad avere buone relazioni con gli Usa sulla Siria, in quanto permette loro di rimanere figure accettabili agli occhi degli americani nonostante l’Ucraina”.

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