Dottori: pressioni USA dietro la guerra di Ankara

Intervista a Germano Dottori

da Il Corriere del Ticino del 5 agosto 2015

“Non sono del tutto sicuro che quanto sta accadendo dipenda interamente dal Presidente turco, ho la netta impressione che Erdogan stia subendo le decisioni che gli vengono attribuite”. Germano Dottori , analista e docente di Studi strategici presso l’università a LUISS-Guido Carli di Roma, offre un’interpretazione dell’interventismo di Ankara che rispecchia la complessità degli scenari.

Cosa ha spinto a suo avviso Erdogan a rompere gli indugi ed entrare in guerra con ISIS e PKK?

La mia sensazione è che la Turchia si trovi in una situazione molto delicata tanto dal punto di vista esterno quanto da quello interno.

Sul piano internazionale, Ankara è contesa. Da un lato, c’è chi, come i sauditi, la vorrebbero al loro fianco per bilanciare la prevedibile ascesa di un Iran da pochi giorni riabilitato dall’Occidente.

Dall’altro, vi sono invece coloro che vedono la Turchia come il canale naturale per far giungere il metano persiano all’Europa, in modo tale da depotenziare la valenza strategica del gas russo. Questa è la visione di Washington.

Che ha quindi bisogno di una leadership turca affidabile nei confronti dell’Europa e riallineata in senso ostile a Mosca. Io penso che Erdogan e Davutoglu stiano quindi reagendo ad una fortissima pressione americana. Poi, c’è il problema interno. Dopo le recenti elezioni, l’Akp non può più governare da solo.

Il Presidente Erdogan vorrebbe portare subito la Turchia a nuove votazioni, magari dopo aver bandito il partito dei curdi, per recuperare il pieno controllo della situazione.

Ma il Premier Davutoglu ha un’occasione straordinaria per emanciparsi dal suo capo.

Sta quindi trattando una soluzione con i kemalisti e da qualche giorno anche con i nazionalisti per salvare la legislatura e mettere nell’angolo il suo Presidente, ormai da più parti ritenuto incontrollabile.

Gli americani sarebbero lietissimi di un rientro dei kemalisti nella stanza dei bottoni – un po’ meno dell’arrivo dei nazionalisti – e sicuramente li incoraggiano a cercare un compromesso. Una politica estera anti-curda e di rottura con lo Stato Islamico potrebbe facilitare l’accordo.

 Si può combattere l’ISIS e al tempo stesso i curdi che sono i più fieri avversari dello Stato Islamico?

Lo si può fare, a patto che il sedicente Stato Islamico sia veramente abbandonato da chi lo ha aiutato a divenire ciò che è, offrendogli copertura logistica e vie di transito attraverso le quali esportare petrolio e tesori archeologici.

Quanto ai curdi, mi sembra che i turchi stiano conducendo una campagna selettiva, che penalizza il Pkk ed i curdi siriani, con i quali i rapporti non sono stati mai buoni, evitando di mettere apertamente nel collimatore anche i peshmerga di Barzani.

Quest’ultimo ha appena intimato ai seguaci di Ocalan giunti nel Kurdistan iracheno per aiutarlo di andarsene quanto prima: un segno evidente del fatto che i curdi iracheni non vogliono rompere con Ankara, anche se gli attacchi di questi giorni sono destinati a lasciare strascichi.

Hanno pesato più valutazioni di sicurezza nazionale o il calcolo politico di sbarazzarsi del partito filo curdo HDP?

Hanno certamente pesato le forti pressioni di Washington, che si dice abbia presentato alla dirigenza turca le prove inoppugnabili del suo appoggio al Califfato.

Chi vuol salvare l’esperimento del governo islamico turco deve aver tratto la conclusione di non poter più andare avanti sulla strada tracciata da Erdogan. Che peraltro fa buon viso a cattivo gioco per mascherare il suo indebolimento.

La verità è che con le scelte degli ultimi giorni il progetto neo-ottomano di Ankara è naufragato, probabilmente per sempre, mentre sta riaffiorando il più moderno e pragmatico nazionalismo turco. Non c’è più spazio per protettorati di fatto di Ankara in Siria ed Iraq. Ecco perché i kemalisti potrebbero recuperare terreno ed essere cooptati in un nuovo governo che nascerebbe solo per fermare Erdogan, con il beneplacito degli Stati Uniti.

Usa ed Ankara sembrano d’accordo nell’imporre sul nord della Siria una zona cuscinetto/no fly- zone. Ma per il diritto internazionale non sarebbe necessaria una risoluzione dell’ONU per sottrarre la sovranità di Damasco su un pezzo di Siria?

Ciò cui si pensa sembrerebbe esser molto di più di una no-fly zone. Una Risoluzione del Consiglio di Sicurezza sarebbe quindi certamente opportuna. Ma non mi stupirei se all’improvviso qualcuno affermasse che in realtà gli strumenti di diritto internazionale messi in campo per combattere lo Stato Islamico bastano ed avanzano.

Comunque la zona cuscinetto servirebbe anche ad impedire ai curdi siriani di mantenere la continuità territoriale appena conquistata e di consolidare i ponti gettati verso il Kurdistan iracheno e quello anatolico. Erano vicini come non mai al doppio traguardo dell’unità e dell’indipendenza. Non è difficile immaginare che il risentimento dei curdi aumenterà.

Forse si volgeranno verso Mosca. O forse verso Israele. L’attacco del Pkk ad Agri potrebbe anche esser stato un segnale in questa direzione, avendo bloccato per tre giorni l’unico gasdotto che colleghi al momento Turchia ed Iran.

La guerra all’ISIS è sempre più ambigua. Ormai quasi tutti i membri della Coalizione hanno obiettivi diversi e a volte contrapposti alla distruzione del Califfato. Così non si corre il rischio di far esplodere tutta la regione?

Finora, la campagna imbastita contro il Daesh ha avuto come obiettivo il suo contenimento, piuttosto che lo sradicamento auspicato da tutti. A tratti, si è persino avuta l’impressione che con degli omicidi mirati se ne volesse pilotare dall’esterno la trasformazione in un’entità meno indigesta.

Anche se si vuol portare il metano persiano sul Mediterraneo, la logica dell’equilibrio che gli americani hanno abbracciato anche in Medio Oriente esige che l’Iran sia territorialmente separato dal Libano e da Israele. Non escludo che lo Stato Islamico sia considerato da alcuni utile in questa prospettiva.

Lo sono in fondo, e per la stessa ragione, pure i ribelli di al-Nusra, dichiaratamente affiliati ad al-Qaeda, eppure indirettamente beneficiari di aiuti anche occidentali.

La disponibilità della base di Incirlik farà la differenza nella finora blanda campagna aerea degli USA?

Dicono tutti di sì, perché operando di lì vengono sensibilmente ridotte le distanze che gli aerei debbono percorrere prima di poter raggiungere i loro obiettivi. Io però preferisco aspettare di verificare i primi dati sul numero delle missioni mensili per capire come stanno davvero le cose.

Se si fa davvero sul serio contro lo Stato Islamico, oppure se ciò che conta è il cedimento politico della Turchia agli Stati Uniti. L’apertura di Incirlik ai caccia statunitensi, in effetti, restaura in qualche modo le credenziali atlantiche di Ankara, che per molti erano ormai in dubbio.

E marca una discontinuità con le politiche di distanziamento dall’America iniziate nel 2003 con il rifiuto di Erdogan di concedere al Pentagono la possibilità di attaccare l’Iraq di Saddam anche da nord. Non poco, specialmente se si crede che l’obiettivo di tutto questo sia normalizzare la Turchia.

Foto: US DoD, Getty Images, AP, Anadolu, Forze Armate Turche

Gianandrea GaianiVedi tutti gli articoli

Giornalista bolognese, laureato in Storia Contemporanea, dal 1988 si occupa di analisi storico-strategiche, studio dei conflitti e reportage dai teatri di guerra. Dal 1991 al 2014 ha seguito sul campo i conflitti nei Balcani, Somalia, Iraq, Afghanistan, Sahara Occidentale, Mozambico e Sahel. Dal febbraio 2000 dirige Analisi Difesa. Ha collaborato o collabora con quotidiani e settimanali, università e istituti di formazione militari ed è opinionista per reti TV e radiofoniche. Ha scritto diversi libri tra cui "Iraq Afghanistan, guerre di pace italiane", “Immigrazione, la grande farsa umanitaria” e "L'ultima guerra contro l’Europa". Presso il Ministero dell’Interno ha ricoperto dal 2018 l’incarico di Consigliere per le politiche di sicurezza di due ministri e un sottosegretario.

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