I paracadutisti italiani al fronte contro l'ISIS

 

di Fausto Biloslavo, da Il Giornale del 10 settembre 2015

Irak del Nord – «Questa è la direzione d’attacco contro l’Isis. Ok?», urla un paracadutista del 187° reggimento Folgore tracciando frecce e posizioni sulla sabbia. Le reclute curde in mimetica verde attorno a lui rispondono come un sol uomo: «Ok». E scattano a prendere posizione per l’addestramento a fuoco organizzato dai soldati italiani, in prima linea nel nord dell’Irak per arginare il Califfato.

Colpo in canna e sdraiati a terra i curdi cominciano a sparare verso delle sagome. Poi rotolano e si alzano avanzando di corsa in maniera alternata, come un vero assalto contro le bandiere nere. Alle spalle di ogni combattente curdo, i leggendari peshmerga, un basco amaranto della Folgore li incita e indica la direzione di tiro. Per la prima volta la Difesa apre le porte della missione di addestramento in Kurdistan iniziata a gennaio.

L’Italia comanda 600 militari europei, dall’Inghilterra alla Germania fino alla Norvegia, che hanno già formato 4mila combattenti curdi. I paracadutisti sono 231, schierati nell’operazione Prima Parthica dal nome della legione romana di Settimio Severo, che si spinse fino in Mesopotamia.

Il corso base, che dura da tre a sei settimane, è di fanteria. Il comandante della missione europea è un colonnello juventino degli alpini convinto che «dall’11 settembre la guerra al terrore non sia mai finita. L’Isis è un pericolo globale, non solo in Irak e Siria, ma nel Sinai, in Nigeria e in Libia, alle porte di casa nostra. Una minaccia contro la civiltà che va sconfitta».

I militari italiani hanno l’ordine di tenere un basso profilo. Niente nomi e davanti all’obiettivo si coprono il volto per non farsi riconoscere. La minaccia di rappresaglie, anche contro le famiglie in patria è concreta. Proibito postare foto su Facebook o twittare. Nel centro addestrativo di Benaslava le reclute gridano «viva Kurdistan, viva Italia».

I paracadutisti italiani li hanno appena fatti «pompare» con un po’ di flessioni.

«Li prepariamo a lottare contro l’Isis e sopravvivere al fronte», spiega Giampaolo, il giovane capitano con la barba, che comanda una quarantina di istruttori. I parà si lanciano armi in pugno con i curdi nei camminamenti e prendono posizione in trincea, come se fossero in prima linea. «Non vedono l’ora di andare a combattere.

Lo fanno per il Kurdistan, ma in fondo difendono anche noi», racconta Domenico, veterano della Folgore. In Afghanistan è saltato su una trappola esplosiva lungo la 517, «l’autostrada per l’inferno».

Il parà si è ritrovato con le vertebre schiacciate, insensibilità su due dita di un piede e sordo da un orecchio. Il 2 giugno gli hanno consegnato la medaglia come vittima (…)(…) del terrorismo. Poi è partito per l’Irak. Gustavo è soprannominato il messicano per i baffi da sparviero.

Urla gli ordini alla sua squadra di reclute anche in curdo, con termini misti: «Magazine per caricare l’arma, zamen per la sicura, boro per andare avanti e zigo zago per farli muovere su due file».

Michele, nome in codice Sax, accompagnava gli afghani durante le operazioni: «In Kurdistan, al posto dei villaggi di fango e paglia, vedi sfrecciare le Porsche. Di un peshmerga, però, mi è rimasto impresso lo sguardo spento. Gli avevano massacrato tutta la famiglia».

Alla fine dell’addestramento a fuoco, i parà versano il tè alle reclute curde e distribuiscono il pane piatto come la nostra pizza. Assad Murad, che parla bene inglese e porta un paio d’occhiali da sole trendy, non ha dubbi: «Combatto l’Isis per salvare la nostra terra e la mia famiglia».

La squadra dei combattenti curdi avanza lentamente e guardinga ai due lati della pista sabbiosa fra le colline di Hatrush, nel nord dell’Irak. Il primo peshmerga non fa in tempo ad alzare il pugno chiuso verso l’alto e gridare «stop», che si accende un fumogeno rosso fra le sterpaglie. «È saltato su una mina.

Addestrarli a individuarle è fondamentale. L’Isis è abilissimo a trasformare il campo di battaglia in un reticolo di trappole esplosive», spiega il sottufficiale dei guastatori paracadutisti, che li guida sul terreno.

Più avanti c’è un curdo che sembra morto, ma sotto il giaccone ha dei candelotti di esplosivo. «Imbottiscono di tritolo i corpi degli animali oppure i terroristi suicidi fanno finta di essere cadaveri e saltano in aria quando il plotone si avvicina», racconta il parà.

I bombaroli dell’Isis minano addirittura i rubinetti dell’acqua. Chi li apre, esplode. «Osservate, controllate», urla di continuo il guastatore paracadutista alle reclute curde. Nella gran parte dei casi si sono comprati di tasca propria i kalashnikov.

Uno dei peshmerga, soprannominato per scherzo tip-tap, è venuto a sparare con i mocassini.

«Dateci più munizioni e armi nuove, non obsolete. Stiamo combattendo anche per voi italiani, per l’Occidente contro una minaccia che riguarda il mondo intero. E dopo vogliamo diventare un Paese indipendente», dichiara, sudato come una fontana, Abdul Salam Razak della compagnia Leoni.

Il veterano della guerra in Kuwait, Abdullah Hussein, sostiene che «questo conflitto è peggiore, orribile e senza pietà. Piuttosto che finire nelle mani dei tagliagole mi sparo l’ultimo colpo in testa»

.L’età dei combattenti curdi varia dai vent’anni ai 60 di Ahmed Abdullah, che spera: «Inshalla (se Dio vuole) questa sarà l’ultima guerra».

A Bagdad abbiamo un manipolo di carabinieri che addestra la polizia e da ottobre diventeranno un centinaio. Sul fronte dell’Irak sono dispiegati in tutto 500 italiani. In Kuwait l’aeronautica ha schierato 4 caccia bombardieri Tornado e dei velivoli senza pilota.

Niente bombardamenti, ma solo voli di ricognizione per individuare gli obiettivi, che verranno colpiti dagli alleati. «Ringraziamo gli italiani per l’appoggio e l’addestramento, ma 18 giorni sono troppo pochi per trasformare una recluta in soldato», sottolinea il colonnello Shukur Ghasem, comandante di un battaglione yazida, la minoranza religiosa massacrata dal Califfato.

I suoi uomini sono dispiegati in alcuni campi trincerati in mezzo al deserto, a otto chilometri dal confine siriano. Uno dei combattenti, con il kalashnikov puntato oltre i sacchetti di sabbia, mostra con orgoglio il tesserino che certifica l’addestramento con gli italiani.

Dall’altra parte della montagna corre la linea del fronte più dura nella città fantasma yazida di Sinjar, ripulita etnicamente. I peshmerga della 4ª brigata sono a 200 metri dagli uomini neri del Califfo, nella «cittadella» alla periferia. Attraverso le feritoie ricavate fra i sacchetti di sabbia, i curdi sparano verso le rovine sottostanti.

Per spostarci lungo il fronte i peshmerga mettono a disposizione l’unico scassato gippone blindato americano. «Abbiamo bisogno disperato di blindati e visori notturni – dichiara il colonnello Isa Zewey -. Le armi arrivate dall’Europa non bastano.

Talvolta le mandano con munizioni insufficienti» .A Sinjar i curdi hanno utilizzato il razzo controcarro Folgore degli italiani, ma dopo 15 colpi si è inceppato. Sulla collina trincerata che domina la città, ridotta a uno scheletro di cemento armato, il maggiore Hoswar Hakim Shaban fa notare che gli uomini neri «ci attaccano giorno e notte.

Si nascondono in scuole, ospedali e moschee perché sanno che così gli aerei alleati non li bombarderanno». Non finisce la frase che due granate di mortaio esplodono con fragore sinistro a quaranta metri da noi. L’ufficiale si lancia sulla trincea gridando «Isis siamo qui per combattervi. Andate a fare in c…».

Poi piazza in spalla un Rpg e spara un razzo che ci avvolge in una nuvola di fumo. Lo Stato islamico risponde con i mortai pesanti. Alte colonne di fumo bianco si alzano sempre più vicine al posto di comando che trema sotto le esplosioni.

La misura è colma e il colonnello curdo chiede l’appoggio aereo. Una sagoma bianca solca il cielo azzurro preceduta da un rombo cupo. In un attimo i caccia alleati sganciano due bombe che centrano le postazioni dell’Isis in città. Si alzano alte colonne di fumo grigio e nero, che significa obiettivo colpito e in fiamme. Gli uomini neri del Califfo non mollano e con il buio tutto il fronte si infiamma.

Dietro i sacchetti di sabbia sentiamo le pallottole fischiare e i traccianti solcano il cielo stellato. I peshmerga rispondono al fuoco urlando improperi al nemico. E si scatena l’inferno. La battaglia si placa con l’arrivo di un’impetuosa tempesta di sabbia, che sconvolge le trincee della guerra dimenticata nel nord dell’Irak.

Foto: Operazione Prima Parthica/SMD, AP e Reuters

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