L''Europa inetta semina caos e tensioni nei Balcani
Se l’Europa non è già morta a Prishtina come sostiene il colonnello francese Jacques Hogard nel suo libro dedicato all’intervento occidentale nell’ex provincia serba durante la primavera-estate del 1999, probabilmente quanto successo negli ultimi giorni nell’Europa sud-orientale le ha dato il colpo di grazia.
La gestione degli enormi flussi di richiedenti asilo e migranti economici, infatti, ha rappresentato una sfida che Bruxelles non è sembrata in grado di affrontare con successo, sia per l’oggettiva difficoltà nel mettere d’accordo interessi divergenti, sia per l’apparente scelta di non dare il giusto peso ad un fenomeno che rischia di creare delle cicatrici profonde nei rapporti fra Nazioni.
La fuga in massa dalla Siria e dalle altre zone coinvolte nel conflitto contro lo Stato Islamico è, ormai senza ombra di dubbio, frutto anche delle scelte errate di alcuni attori internazionali che, forse abbagliati dalla presunta fragilità del regime di Assad e convinti che l’area fosse pronta a “ricevere” la democrazia, hanno sottovalutato i rischi delle proprie azioni.
A pagare il prezzo maggiore di tale miopia, però, non sono quelli che hanno sostenuto i presunti ribelli moderati – poi passati in gran numero nelle file del Califfato – e che hanno anteposto i propri interessi alla stabilità del Mediterraneo, ma gli Stati che non hanno avuto né hanno tuttora voce in capitolo.
Tenendo fuori per un attimo l’Italia, la cui assenza alle riunioni che contano è ormai una triste consuetudine che pare immodificabile, le Nazioni che sono state maggiormente travolte dall’ondata umana sono quelle dell’area balcanico-danubiana.
Si tratta, senza voler generalizzare, di Paesi che attualmente non godono di una situazione economica particolarmente brillante e che, soprattutto, hanno svariati “traumi” pregressi che rischiano di trasformare ogni incomprensione diplomatica in un incidente ben più serio.
Tale aspetto è stato spesso ignorato in passato, poiché a farla da padrona è stata la convinzione che l’allargamento ad Est dei confini dell’Unione, visto come un’azione salvifica e non dettata da chiari interessi geopolitici, avrebbe automaticamente appianato ogni divergenza, senza bisogno di agire sulle cause profonde del malessere e degli astî mai sopiti.
Quella che si può considerare la “fase 1” del problema, visto il gran numero di disperati attualmente accampati in Turchia che ancora desiderano raggiungere l’Europa, ha dimostrato, ancora una volta, l’assoluta lentezza di Bruxelles nel reagire a quanto succede nella “periferia povera” dell’Unione, ma soprattutto la tendenza degli attori danubiano-balcanici a cercare di “far da sé”.
A conferma di ciò basti considerare che l’Ungheria di Viktor Orban (nella foto a lato), non appena accortasi della minaccia, senza consultare nessuno ha provveduto immediatamente a costruire un muro lungo la frontiera con la Serbia e, attualmente, sta realizzando una struttura analoga sul confine con la Croazia, mentre su quello con la Slovenia l’opera è stata rimossa poco dopo l’inizio dei lavori.
La UE ha espresso la propria perplessità per questa azione, ma non fatto nulla di concreto per impedire a Budapest di procedere né proposto alcuna soluzione alternativa che potesse andar incontro agli interessi dei Magiari e farli desistere da tale iniziativa.
Il livello delle relazioni bilaterali fra Stati dell’area è ben riassunto dalla dichiarazione del 18 settembre scorso del Ministro degli Esteri ungherese Péter Szijjártó, secondo cui il suo Esecutivo non intende dialogare con quello di Zagabria sul tema dei “migranti” poiché “le relazioni fra i due paesi sono pessime”. Come prevedibile, comunque, la chiusura del confine serbo-ungherese da parte di Budapest ha creato le basi per un altro scontro, questa volta ancora più aspro e imbarazzante in quanto vede coinvolto un Membro della UE.
La Croazia, infatti, divenuta destinazione privilegiata dei profughi (circa 59mila) che non potevano più dirigersi in Ungheria attraversando la Serbia, ha deciso, senza particolari problemi, di chiudere i confini con quest’ultima. Come se non bastasse, in contemporanea la Slovenia ha anche iniziato a rimandare verso Zagabria i “migranti” che non possiedono i documenti adeguati per entrare nel proprio territorio Nazionale.
La risposta di Belgrado alle azioni del Governo croato di Zoran Milanović (foto a sinistra), comunque, non si è fatta attendere, tanto che il primo ministro Aleksandar Vučić (foto sotto), dopo aver protestato con il proprio omologo, ha annunciato nei giorni scorsi che sarebbe stato bloccato l’import di merce proveniente dalla Croazia.
Richiamandosi a logiche appartenenti all’inizio degli anni ’90 piuttosto che al 2015, Milanović, per tutta risposta, ha decretato la chiusura del principale valico di confine fra Serbia e Croazia a tutti i veicoli con targa serba, scatenando l’ira dei vicini.
Questa decisione, sospesa solo nella serata di venerdì (forse anche perché l’UE ha espresso il proprio disappunto), ha comunque creato parecchio malumore in Patria, tanto che, come riporta il portale 24sata.hr., addirittura i Branitelji, i reduci della guerra contro la Jugoslavia del ’92-’95 attualmente accampati per protesta nella Savska Cesta di Zagabria, si sono schierati apertamente contro l’Esecutivo, mentre l’ex Presidente Mesić ha richiamato tutti all’ordine, condannando la retorica bellicista di alcuni politici.
Gli eventi, comunque, hanno rischiato di precipitare ulteriormente a causa di un’ingenua dichiarazione di Milanović. Durante una conferenza stampa sul tema dell’immigrazione e delle misure intraprese dal Governo per fronteggiare la crisi, infatti, il Primo Ministro croato ha affermato: “l’Ungheria costruisce un muro contro i barbari, contro i serbi, no?”.
La “gaffe” ha chiaramente scatenato l’ira della vicina Repubblica, ma per fortuna non ha dato luogo a sterili proteste o manifestazioni, come quelle che solitamente organizza Vojislav Šešelj. Milanović, comunque, ha cercato, a suo modo, di spiegare le proprie ragioni durante un’intervista esclusiva alla RTS, la RAI serba, riuscendoci solo in parte.
Dopo aver accusato i giornalisti di voler manipolare le sue parole (dimenticando che online è disponibile un video con la sua infelice uscita), egli ha invitato la Serbia a “non comportarsi come un Paese del III mondo”, ha negato che Bruxelles abbia fatto pressioni per risolvere la questione della chiusura del confine e avvertito che “la Croazia può fermare l’ingresso della Serbia nella UE”, pur non supportando personalmente questa eventualità.
Apparentemente risolta la crisi serbo-croata, che comunque rischia di riaprirsi in ogni momento, considerato che l’Esecutivo di Zagabria si riserva il diritto di chiudere nuovamente i confini, resta ancora difficile il rapporto fra quest’ultimo e il Governo magiaro.
Come riporta Tanjug, infatti, proprio ieri il già citato Péter Szijjártó ha attaccato nuovamente Milanović, sostenendo che “attacchi perfidi contro i paesi vicini, ricatti, violazione deliberata dei regolamenti UE sull’asilo e il trasporto di migliaia di migranti verso l’Ungheria sono azioni che a qualcuno sembrano inadatte alle norme [di comportamento] di un politico europeo civilizzato del XXI secolo.”
Rimasta in disparte fino ad ora, sul tema è intervenuta anche la Chiesa Ortodossa di Bulgaria che in lungo comunicato sottoscritto dal suo Patriarca, ha invitato con forza il proprio Governo a trovare una soluzione alla crisi in Medioriente, ritenendo che solo un intervento in quell’area possa fermare “l’invasione”.
Come si può constatare, quindi, l’assenza di una politica europea sul tema dell’immigrazione ha finito per far tornare nel passato i rapporti fra gli stati maggiormente esposti al problema.
Tale sconfitta risulta ancora più grave nel momento in cui a litigare e a insultarsi sono stati membri della UE, che invece dovrebbero fare del dialogo e della cooperazione la base per la soluzione dei problemi. Bruxelles, purtroppo, ha dimostrato poco interesse per i problemi dell’area, cominciando ad intervenire blandamente solo recentemente, dopo cioè che Bulgaria e Ungheria avevano già costruito le barriere lungo i propri confini e la maggior parte degli Esecutivi aveva ordinato alle proprie Forze Armate di pattugliare i confini (Sofia, ad esempio, ha recintato 32 km di confine con la Turchia e attualmente utilizza anche elicotteri e droni).
La mancanza di input provenienti dal centro, infatti, ha favorito la tendenza degli Stati a cercare di risolvere da sé i problemi, anziché in maniera collegiale, contribuendo a rendere ancora più permeabile il confine meridionale dell’Europa, un aspetto che danneggia tutti gli stati membri, non solo quelli dell’area.
A volte, infatti, pare che anziché cercare di gettare le basi per una vera politica comune che affronti con decisione le cause reali dell’ondata migratoria, gli alti funzionari della UE preferiscano esprimere i propri pensieri con tweet che richiamano alla cooperazione e alla tolleranza.
Non si tratta, però, né dello strumento migliore per comunicare con un’opinione pubblica sempre più sfiduciata e attratta dalle soluzioni politiche più estreme, né del linguaggio giusto per mandare un messaggio ai nemici dell’Europa che stanno devastando il Medioriente.
Foto: AP. EPA, Reuters, Medium.com, Novosti. Tanjug (vignetta di Alberto Scafella)
Luca SusicVedi tutti gli articoli
Triestino, analista indipendente e opinionista per diverse testate giornalistiche sulle tematiche balcaniche e dell'Europa Orientale, si è laureato in Scienze Internazionali e Diplomatiche all'Università di Trieste - Polo di Gorizia. Ha recentemente pubblicato per Aracne il volume “Aleksandar Rankovic e la Jugoslavia socialista”.