Strategia e realtà’
di Alberto Negri da Il Sole 24 Ore del 16/10/15
Gli Usa hanno annunciato che resteranno in Afghanistan oltre il 2016, data prevista del ritiro nelle basi aeree. Le truppe afghane, dicono i rapporti degli ufficiali americani, dimostrano un elevato grado di impreparazione e scarsa affidabilità: a Kunduz prima di passare alla controffensiva, i soldati hanno lasciato arrivare i talebani alle porte della città poi si sono dispersi perché non avevano nessuna intenzione di combattere contro la guerriglia.
Gli eventi drammatici di Kunduz stanno minando la fiducia nelle forze governative da parte della popolazione che in alcuni casi è incline ad accettare la presenza dei talebani in cambio della sicurezza, come già avvenne nel 1996 quando i seguaci del Mullah Omar si impossessarono di Kabul quasi senza combattere.
La presa di Kunduz, occupata sia pure soltanto per qualche giorno da parte dei Talebani – la prima città importante conquistata dalla guerriglia in 14 anni – è stato l’ultimo segnale d’allarme di una situazione che rischia di travolgere la presidenza del debole Ashraf Ghani, ancora più inefficace del suo predecessore Hamid Karzai, che oltre ad avere esaurito il mandato, durante il quale aveva favorito gli affari del suo clan, non andava più a genio a Washington per le sue critiche ai metodi delle forze armate Usa e i buoni rapporti intrattenuti con l’Iran per bilanciare l’onnipresente influenza del Pakistan.
Con i suoi servizi segreti (Isi), Islamabad spalleggia da sempre la guerriglia talebana e manovra i gruppi islamici radicali sin dai tempi della guerra anti-sovietica facendo leva sulle rivalità locali, mai sopite, tra l’etnia maggioritaria dei pashtun e le altre componenti della società afghana.
E i talebani sfruttano le logiche tribali per trasformare il conflitto su base etnica e minare la stessa compagine governativa di Kabul, caratterizzata da forti attriti tra il presidente Ghani e il suo vice, il tagiko Abdullah Abdullah.
Nonostante gli enormi aiuti americani alle forze afghane – 65 miliardi di dollari per rimettere in piedi l’esercito – i Talebani e l’Isis, abile a sfruttare le divisioni interne alla guerriglia, sono capaci di controllare ampie zone del Paese e minacciare Kabul.
Sotto la guida di Akhtar Mohammad Mansur, che ha sostituito il Mullah Omar morto in un ospedale di Karachi nel 2013, i talebani hanno guadagnato terreno in tutto l’Afghanistan come mai era accaduto dal 2001: nell’ultimo rapporto dell’Onu si afferma che almeno 27 provincie su 34 sono sotto minaccia talebana compresa la capitale.
Nelle aree di Helmand, Urozghan e Farah, le forze di Kabul controllano, e a fatica, solo gli edifici governativi: in pratica qui comandano i talebani.
L’arco della crisi mediorientale, dal Mediterraneo all’Afghanistan, mette a dura prova la dottrina americana che si basa su due pilastri: il primo è l’uso dei raid aerei e della guerra dei droni al posto delle truppe per contrastare i talebani in Afghanistan e nel Levante arabo Al Qaeda e il Califfato; il secondo è armare e addestrare le forze locali per combattere sul terreno.
Più si va avanti e più si capisce che i raid americani sono inefficaci mentre le forze armate locali si disfano alla prima seria offensiva, in Afghanistan come in Iraq, dove i jihadisti hanno preso Mosul un anno e mezzo fa senza sparare un colpo. Le uniche forze valide a opporsi all’Isis sono le milizie sciite e i curdi.
In Siria si è passati adesso a una seconda fase: fallito il training dei ribelli, gli Stati Uniti stanno rifornendo i gruppi armati dell’opposizione dei missili Tow, un po’ come fecero con i mujaheddin in Afghanistan negli anni 80 ai quali vennero consegnati gli Stinger da usare contro l’Armata Rossa. Vedremo se questa volta funzionerà meglio di qualche decennio fa ma c’è da dubitarne perché ognuno usa le armi contro il “suo” nemico non quello voluto da noi occidentali: di errori se ne sono fatti tanti e ora con l’intervento russo si possono anche moltiplicare come in una sorta di nemesi circolare della storia.
Foto: AP, Reuters e Isaf
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