TERRORISMO ISLAMICO: UNA GUERRA SU PIU' FRONTI

Gli spietati attacchi degli uomini dello Stato Islamico a Parigi hanno riaperto il dibattito su come fronteggiare la crescente emergenza terrorismo in Europa soprattutto ora che sembra consolidarsi la tendenza dei jihadisti a colpire non più obiettivi simbolici o di valore ideologico-politico, ma di uccidere chiunque, inclusi gli avventori di locali pubblici, discoteche e ristoranti.

Una tattica certo non nuova ma che consente non pochi vantaggi allo Stato Islamico i cui uomini, votati comunque alla morte, possono provocare un numero elevato di vittime agendo di fatto indisturbati, senza incontrare resistenza e generando nell’opinione pubblica la sensazione che le istituzioni e le forze di polizia non siano in grado di fornire nessuna protezione contro queste azioni.

Inoltre, rispetto all’attacco a obiettivi sensibili e quindi protetti dalla polizia, operazioni del genere possono venire pianificate in brevissimo tempo se si dispone già di armi, munizioni e miliziani pronti all’azione.

All’inizio di novembre era trapelato un rapporto dell’intelligence francese (di cui Analisi Difesa si era occupata) in cui si prefiguravano attacchi di vasta portata eseguiti da cellule “trasversali” cioè jihadisti non residenti in Francia che colpiscono oltre confine per sfuggire al controlli dei servizi di sicurezza. Ipotesi confermata dalla pista belga emersa dopo la “strage di venerdì 13” e che evidenzia la necessità di una maggiore cooperazione tra i servizi di sicurezza europei.

La tendenza a scaricare le responsabilità di quanto accaduto sull’intelligence appare però fuorviante e soprattutto puzza di capro espiatorio per la politica che in tutti i Paesi europei ha pesanti responsabilità di fronte a una minaccia terroristica che può apparire una novità solo a chi ha voluto dimenticare gli attentati qaedisti a Madrid e Londra e persino quello più recente di Parigi del dicembre scorso.

Jihadisti, foreign fighters rientrati in Europa e simpatizzanti dichiarati dell’Islam estremista sono ormai talmente tanti (e probabilmente quelli non noti come tali ancora di più) da rendere impossibile un controllo efficace e completo. In Francia, Belgio, Germania, Gran Bretagna i reduci dei conflitti siriano, iracheno e afghano sono centinaia ma molte migliaia sono gli estremisti che gravitano loro intorno cresciuti a Corano e jihad nelle tante moschee e “centri culturali” europei infiltrati da imam e ideologi legati alle diverse anime dell’estremismo islamico.

Solo in Italia ve ne sono oltre un centinaio Secondo lo studio di Michele Groppi realizzato per il Centro Militare di Studi Strategici (Cemiss) di cui Analisi Difesa si è occupata nei mesi scorsi.
In Europa combattiamo il terrorismo islamico ma non l’estremismo che ne costituisce la culla e il terreno fertile. Inutile uccidere o arrestare chi compie la strage a Parigi se non si sradica l’estremismo propagato da imam e agitatori nelle periferie delle nostre città, in molte moschee e nei centri culturali gestiti da salafiti, wahabiti e altri movimenti jihadisti attraverso il web.

Estremisti che vivono in molti casi a carico del nostro welfare, che educano nuove generazioni di fanatici che poi acquisiranno capacità di combattimento e l’abitudine ad uccidere frequentando “stage” in Siria, Iraq, Yemen, Afghanistan o Somalia prima di tornare in Occidente pronti a colpire.

Per opportunismo, ragioni elettorali o perché proni a ideologie buoniste e multiculturali, governi e amministrazioni locali hanno tollerato gli abusi dell’ideologia islamica e la violazione di molte nostre leggi accettando che interi quartieri delle nostre città finissero fuori dal controllo delle autorità. Luoghi dove violenze, abusi e tutte le violazioni dei diritti umani previste dalla sharia venissero praticate alla faccia delle nostre leggi ispirate a quella Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo che nessun Paese islamico ha mai sottoscritto.

Tollerare predicatori d’odio, poligamia, bambine date in sposa ad adulti, mutilazioni genitali e discriminazioni in nome del multiculturalismo ci ha reso più vulnerabili facendoci percepire deboli dal mondo islamico e accentuando l’inevitabile collisione tra una società basata su diritti e libertà e un’ideologia che si richiama alla “sottomissione”, significato della parola “Islam”.

Sul fronte interno occorre agire con durezza reprimendo ogni forma di estremismo islamico con l’espulsione e il carcere per chiunque sostenga, propagandi o giustifichi il terrorismo jihadista.

Invece di continuare a sostenere che “l’Islam è una religione di pace” sarebbe meglio accettare l’evidenza che il terrorismo oggi ha solo quella matrice e che gode di ampi consensi e giustificazioni nelle comunità islamiche che vivono in Europa come hanno dimostrato molti casi registrati dalle cronache nei giorni scorsi, anch’essi tollerati.

L’appello lanciato in giugno dal presidente egiziano Abdel Fattah al Sisi all’università al-Azhar, fulcro teologico dell’Islam sunnita, per una riforma urgente della religione islamica non è stato raccolto dal clero.

Il terrorismo costituisce quindi solo l’aspetto più sanguinario di un processo in cui l’Europa non sembra in grado di reagire con determinazione neppure davanti ai fatti di Parigi.

Le colpe, che la politica cerca cdi scaricare sui servizi di sicurezza, sono gravissime e sono da attribuire alla miopia dei nostri governanti. Troppa tolleranza nei confronti dell’estremismo islamico.

Troppi inciuci con le monarchie del Golfo che finanziano tutti i movimenti più reazionari dell’Islam e che con gli investimenti miliardari nelle nostre economie (armi, immobili, squadre di calcio, aziende…) sembra abbiano comprato anche le coscienze dei nostri leader, sempre pronti a genuflettersi di fronte a emiri che considerano spazzatura i valori fondanti della nostra società.

L’Europa ha accettato senza reagire per oltre due anni che i volontari del jihad raggiungessero la Siria per combattere Bashar Assad, fenomeno di cui ha iniziato a preoccuparsi solo dopo aver compreso che i reduci tornavano a casa (nostra) imbevuti di ideologia jihadista e con idee bellicose. A quel punto tutti i servizi segreti europei hanno chiesto aiuto e informazioni all’intelligence siriana che di jihadisti stranieri ne aveva uccisi feriti o identificati parecchi.

Nonostante questo non abbiamo capito che il regime di Damasco andava sorretto e non contrastato per il solo fatto che ogni alternativa ad Assad è peggiore per la Siria e per i nostri interessi.

Né sul fronte interno abbiano attuato un reale giro di vite contro i jihadisti di casa nostra, in molti casi ignorati come se non fossero un pericolo oppure considerati soggetti a recuperare socialmente quasi fossero dei tossicodipendenti, come fa il governo danese che ai foreign fighters rientrati dalla Siria offre corsi di formazione professionale pagando loro persino l’università.
Nei summit previsti nei prossimi giorni si discuterà di come combattere il terrorismo ma è difficile attendersi sviluppi concreti.

Quale credibilità può avere sul versante della sicurezza un’Europa incapace persino di difendere le sue frontiere attraversate da centinaia di migliaia di persone, quasi tutti musulmani, che in buona parte non si sono fatte identificare ne hanno accettato di farsi rilevare le impronte digitali?

Per farli entrare in Europa a queste condizioni i nostri governi hanno mobilitato flotte ed eserciti e ora gli stessi leader che hanno favorito il radicarsi dell’Islam in Europa ci vogliono convincere che dobbiamo rinunciare a un po’ dei nostri diritti e della nostra privacy per avere più sicurezza.

Prima fanno entrare in Europa chiunque, perdono il controllo di jihadisti ed estremisti islamici ma vogliono intercettare le nostre comunicazioni e violare la nostra privacy e per dimostrarci che è necessario farlo schierano truppe in assetto di combattimento nelle città e nelle metropolitane giusto per creare la necessaria psicosi collettiva.

Del resto che i leader occidentali sono incapaci  di combattere i jihadisti (o non hanno interesse a farlo) è evidente anche dalla finta guerra allo Stato Islamico.

Negli ultimi giorni della parola guerra si è abusato, soprattutto in Francia, ma non saranno certo sufficienti un po’ di bombe d’aereo in più a distruggere il Califfato ma occorrerà anche schierare un consistente dispositivo terrestre.

E poi la guerra alo Stati Islamico non l’avevamo tutti dichiarata nell’estate del 2014 con la costituzione della Coalizione che fece seguito alla proclamazione del Califfato?

Pochi sembrano ricordarlo forse perché in 16 mesi di finta guerra non abbiamo combinato nulla (per non offendere sauditi ed emirati che vedono nella sconfitta dell’Isis la vittoria degli odiati sciti?) rafforzando la “narrativa” di Abu Bakr al-Baghdadi che lotta da solo contro il mondo e vince.

Lasciare che il Califfato, contro cui si può scatenare  una guerra convenzionale, sopravvivesse e si rafforzasse è stato un errore gravissimo perché ha consentito alla propaganda jihadista di conquistare i cuori e le menti di milioni di islamici e di rafforzare la percezione della debolezza dell’Occidente.

Dopo che Francois Hollande ha parlato esplicitamente di “guerra” aggiungendo che “saremo spietati” (l’ex presidente Nicolas Sarkozy ha parlato addirittura di “sterminio”) l’Europa, forse spaventata da queste parole bellicose, si è nei fatti sottratta alla chiamata alle armi di Parigi mentre gli Stati Uniti come al solito si defilano tra mille ambiguità.

Resta da vedere se la nuova alleanza tra Francia e Russia riuscirà a raccogliere e supportare le forze siriane, curde e irachene per chiudere il conto con il Califfato.

Foto: Ap, AFP, Reuters, DPA, EMA, Esercito Italiano, Stato Islamico

@GianandreaGaian

 

 

 

 

 

 

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Giornalista bolognese, laureato in Storia Contemporanea, dal 1988 si occupa di analisi storico-strategiche, studio dei conflitti e reportage dai teatri di guerra. Dal 1991 al 2014 ha seguito sul campo i conflitti nei Balcani, Somalia, Iraq, Afghanistan, Sahara Occidentale, Mozambico e Sahel. Dal febbraio 2000 dirige Analisi Difesa. Ha collaborato o collabora con quotidiani e settimanali, università e istituti di formazione militari ed è opinionista per reti TV e radiofoniche. Ha scritto diversi libri tra cui "Iraq Afghanistan, guerre di pace italiane", “Immigrazione, la grande farsa umanitaria” e "L'ultima guerra contro l’Europa". Presso il Ministero dell’Interno ha ricoperto dal 2018 l’incarico di Consigliere per le politiche di sicurezza di due ministri e un sottosegretario.

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