Cosa ci fanno le truppe turche in Iraq?

Nella sfida in atto in Siria e Iraq, ormai quasi un tutti contro tutti tra i protagonisti regionali e globali, la Turchia rilancia e ribadisce il suo ruolo nel conflitto mediorientale inviando in Iraq un reggimento meccanizzato senza neppure avvisare il governo iracheno.

Il 4 dicembre 1.200 militari , sembra con due dozzine di carri armati M-60A3, cingolati da combattimento e semoventi d’artiglieria M-109 ,sono penetrati in territorio iracheno nella regione autonoma curda schierandosi a una trentina di chilometri da Mosul, da oltre un anno saldamente nelle mani dello Stato Islamico intorno alla quale si stanno raccogliendo milizie scite, esercito iracheno, e truppe curde per preparare l’offensiva che dovrebbe liberare la città.

Gli Stati Uniti hanno ammesso di essere informati della presenza di truppe turche nell’Iraq settentrionale, precisando però che queste non fanno parte della Coalizione guidata da Washington.

Il quotidiano turco Hurriyet ha reso noto che il dispiegamento delle truppe nell’area di Bashiqa, è frutto di un accordo con il governo della regione autonoma del Kurdistan iracheno e sarebbe stato pianificato il 4 novembre scorso durante il colloqui a Erbil tra l’allora ministro degli Esteri turco, Feridun Sinirlioglu, e il presidente curdo-iracheno Massud Barzani.

Spiegazione credibile che giustifica anche la dura reazione del governo iracheno. Il presidente Fouad Massoum, ha condannato la “violazione delle regole e del diritto internazionale” mentre il ministro della Difesa, Khaled al Obeidi, ha intimato alla Turchia di ritirare immediatamente i suoi militari dal nord dell’Iraq mostrando scetticismo circa il fatto che un numero così elevato di truppe abbia solo compiti addestrativi.

Il ministro degli Esteri, Ibrahim al Jaafari, minacciando di sollevare la questione davanti al Consiglio di Sicurezza dell’Onu e il premier Haider al-Abadi ha denunciato una violazione della sovranità che non sembra casuale considerato che il 3 dicembre lo stesso Primo Ministro aveva ammonito gli Stati Uniti dal dispiegare forze speciali per compiti di combattimento in territorio iracheno dichiarando di considerare una minaccia la presenza di truppe straniere.

Difficile definire una semplice coincidenza il monito di Baghdad (che vorrebbe dalla Coalizione solo forze aeree ma non terrestri) e lo schieramento di un reggimento turco nella provincia di Ninive accampato presso il campo militare di al-Zalkan, presidiato da milizie turcomanne, la minoranza di origine turca che vive tra Kirkuk, Mosul ed Erbil.

Con un gesto distensivo il premier turco Ahmet Davutoglu ha scritto ad al-Abadi affermando che “non schiereremo altre truppe a Bashiqa finché le vostre preoccupazioni sulla questione non si saranno placate” sottolineando la volontà di rispettare la sovranità e l’integrità dell’Iraq ma al momento le truppe in Iraq non sembrano ripiegare mentre alcuni reparti dislocati alla frontiera sono stati fatti retrocedere.

Per dirimere la questione il capo dei servizi d’intelligence turchi, Hakan Fidan, e il sottosegretario agli Esteri, Feridun Sinirlioglu, si sono recati a Baghdad il 10 dicembre.

Anche se  questa non è certo la prima operazione militare turca in Iraq Settentrionale (ma le precedenti non si spinsero mai così in profondità e furoino limitate a colpire i santuari del PKK) la presenza militare turca si presta a diverse valutazioni e interpretazioni.

Da un lato si inserisce nei crescenti dissidi tra Baghdad e i curdi, divisi sui diritti di sfruttamento del petrolio come sulla conduzione della guerra allo stato Islamico. Baghdad vorrebbe che i curdi, freschi della vittoria nella regione yazida di Sinjar, partecipassero alla grande offensiva su Mosul ma i peshmerga sono resti a impiegare le proprie limitate forze fuori dai territori curdi e non intendono costituire “carne da cannone” per riconquistare Mosul, città araba.

L’appoggio dichiarato di Ankara ai curdi d’Iraq incrina il fronte curdo divenuto unitario con l’epopea di Kobane e la minaccia del Califfato. Oggi Ankara sostiene in armi i curdi di Massud Barzani mentre dal 22 luglio, giorno in cui cominciò l’offensiva ufficialmente rivolta a colpire l’Isis, bombarda i curdi del PKK e anche i loro alleati siriani dell’Unione Democratica Curda, cioè i difensori di Kobane contro il Califfato.

Ankara dimostra di poter offrire garanzie e protezione all’autonomia dei curdi iracheni garantendosi con la presenza militare in quella regione dai rischi che lo sfaldamento di Siria e Iraq porti alla nascita di uno Stato curdo.

Il Partito Democratico Curdo di Barzani resta in ogni caso rivale dei comunisti del PKK, nemici di Ankara e vicini alle milizie dell’Unione Democratica che rappresenta i curdi siriani la cui posizione militare verrebbe compromessa dall’istituzione di una “zona cuscinetto” che dal confine turco si spinga in territorio siriano per 50 chilometri che Ankara vuole a tutti i costi e che si prepara a presidiare con un’intera divisione di oltre 10 mila soldati.

Non va poi sottovalutata l’esigenza di Ankara di sostenere i turcomanni che vivono in Siria settentrionale e nel cuore dell’area petrolifera del nord dell’Iraq, vera e propria testa di ponte per contrastare l’egemonia scita e iraniana in Iraq.
Inoltre la Turchia (e le monarchie del Golfo) non può permettere che a riconquistare Mosul, città sunnita, provvedano le milizie Badr irachene rinforzate dai pasdaran di Teheran come è già accaduto a Tikrit, anche oggi una città fantasma dove la popolazione sunnita ha paura a tornare.

Difficile comprendere quanto la strategia turca sia concordata o condivisa con Washington. Di certo l’intervento militare turco in Iraq ha fatto imbestialire il governo iracheno il cui premier, Haidar al-Abadi, aveva appena inveito contro l’invio di forze speciali americane rifiutando di accettare truppe straniere sul suo territorio.

Infine non si può escludere che l’obiettivo vero sia minare la residua credibilità dello Stato iracheno per frazionarlo in entità scita, sunnita e curda. Una deriva che Ankara avrebbe interesse a pilotare e monitorare per evitare alzate di testa curde. In tal senso la penetrazione turca in Iraq (e potenzialmente nel nord della Siria) potrebbe rientrare in un piano più ampio coordinato tra Ankara e le monarchie del Golfo per smembrare l’Iraq e occupare la Siria la cui esistenza è stata fatta balenare nei giorni scorsi viceministro degli Esteri emiratino, Anwar Qarqash, che all’agenzia di stampa nazionale Wam ha detto .che gli Emirati Arabi Uniti sono pronti a una missione di terra in Siria e a un intervento diretto nell’ambito di una coalizione internazionale, preferibilmente guidata da altri paesi arabi.

“Il nostro paese è pronto a partecipare ad un intervento di terra contro i terroristi – ha affermato il membro del governo di Abu Dhabi precisando che “il modello potrebbe essere l’alleanza araba guidata dall’Arabia Saudita che sta intervenendo in Yemen”. Cioè la guerra contro gli sciti di etnia Houthi.

Un progetto che, come è facile intuire, è difficile credere prenderà di mira “i terroristi dell’Isis” ma più facilmente le truppe di Bashar Assad e i loro alleati russi e iraniani. L’ipotesi che eserciti arabi penetrino in Siria da sud, dal confine giordano, e quello turco avanzi da nord e in Iraq settentrionale non è più incredibile di quanto non fosse fino a una settimana or sono la presenza di un reggimento corazzato turco di fronte a Mosul.

Non a caso il 7 dicembre l’esercito siriano ha lamentato l’uccisione di 4 soldati e il ferimento al altri 13 ad opera di un attacco aereo della Coalizione nella base militare di Saeqa, presso la città di Ayyash, a circa due chilometri da un’area controllata dai miliziani jihadisti. Damasco ha protestato all’Onu e la Coalizione ha negato il coinvolgimento di propri velivoli nell’azione ma la notizia è stata confermata anche dall’Osservatorio per i diritti umani in Siria (Ondus), organizzazione con base a Londra vicina ai ribelli anti-Assad.

@GianandreaGaian

Foto AP, Reuters, Esercito Turco, Anadolu

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Giornalista bolognese, laureato in Storia Contemporanea, dal 1988 si occupa di analisi storico-strategiche, studio dei conflitti e reportage dai teatri di guerra. Dal 1991 al 2014 ha seguito sul campo i conflitti nei Balcani, Somalia, Iraq, Afghanistan, Sahara Occidentale, Mozambico e Sahel. Dal febbraio 2000 dirige Analisi Difesa. Ha collaborato o collabora con quotidiani e settimanali, università e istituti di formazione militari ed è opinionista per reti TV e radiofoniche. Ha scritto diversi libri tra cui "Iraq Afghanistan, guerre di pace italiane", “Immigrazione, la grande farsa umanitaria” e "L'ultima guerra contro l’Europa". Presso il Ministero dell’Interno ha ricoperto dal 2018 l’incarico di Consigliere per le politiche di sicurezza di due ministri e un sottosegretario.

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