Se lasciamo la Libia agli altri

da Nuova Bussola Quotidiana

La guerra allo Stato Islamico continua a rappresentare una lunga serie di lezioni non apprese o volutamente ignorate per l’Occidente. Dopo aver finto di combattere i jihadisti in Siria e Iraq per quasi un anno e mezzo la Coalizione ha ottenuto due risultati, entrambi negativi: il Califfato si è rafforzato e oggi conta adepti ovunque anche in Europa e Mosca ha avuto l’opportunità di intervenire in Siria ponendosi come potenza di riferimento nella regione.

In Libia stiamo commettendo gli stessi errori. In attesa di un accordo tra le diverse fazioni mediato dall’Onu abbiamo tollerato per un anno che lo Stato Islamico si insediasse a Sirte allargando progressivamente l’area sotto il suo controllo raccogliendo volontari locali e miliziani jihadiste africane. Ora che i report segnalano l’arrivo di 2 o 3 mila veterani africani e della guerra in Siria e Iraq ci si interroga su che fare, probabilmente perché l’afflusso dei rinforzi porta a 7/8 mila uomini la consistenza dell’esercito jihadista.

Una forza sufficiente ad attaccare le zone petrolifere nel Golfo della Sirte tra Agedabia e Brega. Numerose fonti locali, citate dal sito di informazione Alwasat, hanno infatti riferito che i terroristi stanno “trasportando armi pesanti e veicoli blindati verso est”, aggiungendo che “elementi della formazione pattugliano armati le strade principali, accompagnati dalla polizia islamica”

Il controllo delle risorse energetiche del Paese è strategico per il Califfato perché, proprio come in Iraq e Siria, consente di finanziare il jihad e la gestione dell’Emirato istituito in Siria.

Intanto Europa e Occidente continuano a sostenere l’accordo tra le fazioni targato Onu ormai fallito, come hanno capito tutti tranne forse il ministro degli Esteri italiano, Paolo Gentiloni, e il nuovo inviato del Palazzo di Vetro.

Il tedesco Martin Kobler (nella foto sopra)  nei prossimi giorni presenterà  una tabella di marcia per accelerare il processo politico e la firma dell’intesa che prevede la formazione di un governo di unità nazionale. Kobler si è detto  pronto ad accettare che l’intesa non venga firmata da tutti senza rendersi forse conto che senza il consenso generalizzato delle diverse fazioni libiche l’accordo non varrà nulla.

Del resto il governo islamista (sostenuto da Turchia e Qatar) di Tripoli non vuole firmarlo perché lo considera non imparziale e ne ha ben donde considerato che il predecessore di Kobler, lo spagnolo Bernardino Leon, ha mediato sfacciatamente in favore del governo di Tobruk ricompensato pubblicamente dagli Emirati Arabi Uniti con un incarico ad Abu Dhabi da 600 mila euro annui che infanga quel po’ che resta del prestigio delle Nazioni Unite.

Non è un caso che, schiaffeggiando le Nazioni Unite, i governi di Tobruk e Tripoli (o almeno una parte dei rispettivi parlamenti) pare vogliano concordare su un’intesa diversa da quella messa a punto dell’Onu.

Se l’Europa dorme, incapace di concretizzare una risposta militare all’Isis e timorosa di subire nuovi attentati, l’Italia gira la testa dall’altra parte quasi non la riguardasse il consolidarsi dello Stato Islamico a soli 400 chilometri dalle nostre coste.

Un intervento in Libia “non è all’ordine del giorno così come il nostro pese non pianificherà interventi militari in Siria senza una strategia politico-diplomatico complessiva“ ha detto martedì Matteo Renzi. Le strategie vanno però messe a punto e il tempo per farlo certo non è mancato come invece è mancato il coraggio di varare un’operazione militare immediata contro lo Stato Islamico a Sirte la cui presenza, vista come una minaccia sia dal governo laico di Tobruk che da quello islamista di Tripoli, avrebbe creato le premesse di un accordo di pace molto di più dei furbeschi pasticci di Leon e basato sulla necessità di muovere guerra al comune nemico.

Oggi invece la situazione è degenerata ed occorreranno sforzi ben maggiori per schiacciare i jihadisti in Libia specie se si completasse la saldatura tra Stato Islamico, Consiglio della Shura dei rivoluzionari e il movimento qaedista Ansar al-Sharia attivo in Cirenaica.

I report dai campi di battaglia sono infatti favorevoli alle forze del jihad e l’esercito di Tobruk ha perso solo ieri una trentina di soldati a Bengasi incluso il comandante dell’operazione Dignità varata l’anno scorso contro le forze jihadiste, il colonnello Ali Al Thamen.

La fiducia nell’Itala e nell’Europa è talmente bassa in Libia che il premier del governo legittimo (quello di Tobruk), Abdullah al-Thani, ha auspicato un intervento militare della Russia contro lo Stato Islamico assicurando che il suo governo è “pronto a coordinare i passi al più alto livello” come riporta l’agenzia russa Sputnik.

Il vuoto di potere lasciato da un’America riluttante e ormai dedita alla destabilizzazione e da un’Europa allo sbando rischia di venire riempito dai russi, ormai riconosciuti come gli unici a fare ciò che deve essere fatto contro i jihadisti e invitati dai governi siriano e libico ad aiutarli a combattere i terroristi.

A bilanciare il ruolo di Mosca, a sostegno del governo di Tripoli, è sempre più rilevante la presenza di Turchia e Qatar, quest’ultimo molto attivo anche nella regione sahariana fin dagli anni scorsi quando denaro e armi dell’emirato sostennero i qaedisti che presero il controllo del nord del Malì. La conferma più recente di come anche il Qatar (le cui truppe nel 2011 si mischiarono ai ribelli per prendere Tripoli) abbia raggiunto un livello di influenza in Libia ben maggiore dell’Italia o di altri Paesi europei è dimostrato dall’accordo di pace firmato (non solo annunciato come quello targato Nazioni Unite) dalla tribù araba Tebu  dai Tuareg.

Fazioni che si combattevano ferocemente nel sud della Libia dopo che i Tebu  (berberi originari del Ciad) si erano schierati col governo di Tobruk allargando l’ area operativa delle loro quattro brigate al territorio Tuareg e ad alcuni giacimenti petroliferi (quello di al-Fil ha una capacità di produzione di 200 mila barili giornalieri) nella regione desertica del Fezzan, attraversata anche dai traffici di armi e immigrati clandestini africani.

Al di là dei difficili equilibri etnici libici l’aspetto rilevante è che il conflitto tra Tebu e Tuareg si sviluppa fin da dopo la morte di Muammnar Gheddafi, nell’ottobre 2011, in una regione che dovrebbe essere di rilevante interesse strategico per l’Europa e l’Italia che però lasciano che a mediare questa crisi sia il Qatar che ha incassato un rilevante ritorno d’immagine internazionale organizzando la firma dell’intesa tra le fazioni libiche a Doha.

Di questo passo le potenze egemoni nel Mediterraneo saranno entro breve la Russia, la Turchia e le monarchie del Golfo Persico, che evidentemente hanno messo l’intervento nella crisi libica “all’ordine del giorno”.

@GianandreaGaian

Fot: AP, Reuters, AFP

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Giornalista bolognese, laureato in Storia Contemporanea, dal 1988 si occupa di analisi storico-strategiche, studio dei conflitti e reportage dai teatri di guerra. Dal 1991 al 2014 ha seguito sul campo i conflitti nei Balcani, Somalia, Iraq, Afghanistan, Sahara Occidentale, Mozambico e Sahel. Dal febbraio 2000 dirige Analisi Difesa. Ha collaborato o collabora con quotidiani e settimanali, università e istituti di formazione militari ed è opinionista per reti TV e radiofoniche. Ha scritto diversi libri tra cui "Iraq Afghanistan, guerre di pace italiane", “Immigrazione, la grande farsa umanitaria” e "L'ultima guerra contro l’Europa". Presso il Ministero dell’Interno ha ricoperto dal 2018 l’incarico di Consigliere per le politiche di sicurezza di due ministri e un sottosegretario.

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