Terrorismo: quale difesa per i “soft target”?
Riflettendo a caldo sui sanguinosi fatti di Parigi viene spontanea la domanda se sia giusto l’approccio in atto per la difesa dei soft target, o più propriamente dei loro frequentatori.
La loro uccisione è diventato ormai il vero obiettivo, a differenza di un passato in cui la presa di ostaggi era un passaggio intermedio per il raggiungimento di altri scopi, dal clamore mediatico alla liberazione di detenuti.
Al Bataclan tre terroristi mediamente equipaggiati, mediamente addestrati, ci sono potuti impadronire agevolmente di un teatro pieno di giovani e hanno continuato ucciderli di relativa tranquillità per più di due ore prima che un intervento armato li potesse neutralizzare.
Nessuno all’interno dell’edificio è stato in grado di contrapporsi ad essi e almeno apparentemente l’intervento esterno è stata montato come se si trattasse di un classico caso di presa di ostaggi: schieramento del dispositivo, arrivo delle squadre speciali, attesa (forse) di una trattativa e/o del momento più opportuno per intervenire.
Sembra invece evidente che le modalità di azione adottate dagli attaccanti stravolgano i vecchi schemi e rendano necessario un ripensamento delle modalità di difesa in atto.
In questo momento la protezione dei luoghi di raduno di massa è di fatto devoluta unicamente allo Stato. Ovviamente l’azione non può essere capillare, la reazione per quantità ma soprattutto per qualità di forze si basa sull’intervento necessariamente posticipato di nuclei speciali, che possono aver base anche a ore di distanza dal luogo dell’attacco.
A livello privato non si va a generalmente oltre la presenza di personale più indirizzato al servizio d’ordine che alla sicurezza.
Di fatto si offre al terrorista un ventre molle per molteplicità di obiettivi indifesi e tempo a disposizione prima di un intervento risolutore.
Molto però potrebbe essere fatto per modificare questa situazione.
In primis, visto che lo scopo è diventato quello di uccidere il maggior numero di persone possibile, la tempestività della reazione risolutiva dovrebbe far premio su qualsiasi altra considerazione.
Ciò presuppone alcune decisioni e fasi organizzative non semplicissime da assumere ma neppure impossibili.
Accettare cioè il prezzo da pagare in vittime fra gli agenti di polizia e i cittadini per un intervento per forza di cose affrettato, nella considerazione che, dilazionandolo nel tempo, il costo totale sarebbe più elevato.
Un intervento immediato presuppone a sua volta diverso addestramento dei nuclei mobili delle Forze dell’Ordine, un diverso armamento, nella considerazione che facilmente, oltre che i fucili d’assalto, che già surclassano le armi in dotazione, potrebbero essere impiegati dai terroristi in altri attacchi anche giubbotti antiproiettile.
A tal proposito è da ricordare l’episodio di North Hollywood (USA) nel ’97 dove due banditi dotati giubbetti antiproiettile e armati di AK 47 riuscirono a tenere testa per 44 minuti a ingenti forze di polizia col ferimento di numerosi agenti e civili.
L’episodio portò poi all’adeguamento dell’armamento e delle protezioni della polizia stessa.
Dovrebbero essere inoltre create a livello locale squadre per interventi risolutivi tipo SWAT, il cui impiego negli Stati Uniti ha abbattuto il rateo di agenti colpiti in simili attività. Con esse verrebbero garantiti tempi intervento abbastanza rapidi. Andrebbe migliorato anche il livello di addestramento, quantomeno al tiro, con basi di tiro dinamico, della polizia locale e delle guardie giurate. Chiunque abbia frequentato un tiro a segno credo possa concordare.
Il punto forse principale è che la sicurezza basica dei luoghi di ritrovo di massa non dovrebbe più essere devoluta solo allo Stato ma divenire parte integrante del responsabilità (e dei costi) dei gestori, un servizio cioè da fornire obbligatoriamente al frequentatore.
Fermo restando che un primo passo in questo senso c’è già stato nella gestione di aeroporti, i principali luoghi di massa dovrebbero avere gestori e dipendenti indottrinati sulla gestione delle emergenze, personale di guardia palese, possibilmente in struttura protetta, e occulta, mescolato fra il pubblico; dovrebbero anche essere predisposti ingressi non palesi per facilitare l’irruzione delle Forze dell’Ordine.
Forse la presenza di un paio di guardie armate, all’interno Bataclan, avrebbe potuto fare la differenza.
Cosa molto difficile e che non credo al momento realizzabile, andrebbe modificata la percezione delle potenziali vittime che dovrebbero acquisire una mentalità più reattiva e aggressiva, che impedirebbe una facile attuazione agli attacchi. Basti pensare a tal proposito ai passeggeri del volo UA 93 dell’11 settembre o alla recente intifada dei coltelli.
Un’ultima considerazione: un punto a fattore comune delle proposte fatte è la disponibilità di personale addestrato al combattimento. Resta fermo che si dovrà procedere una diversa selezione/preparazione degli addetti ai servizi di sicurezza non assicurati dalle Forze dell’Ordine, esigenza che è in costante crescita.
Il personale per soddisfare le esigenze però è già disponibile in gran parte, con un’esperienza dell’uso discriminato della forza e spesso anche di combattimento.
Sono gli uomini e le donne delle Forze Armate, prevalentemente dell’Esercito transitati nelle Forze di Polizia o a impieghi nel settore privato e coloro che entreranno sul mercato del lavoro a breve medio termine dopo aver prestato servizio per alcuni anni. Un’opportunità anche in linea con le intenzioni manifestate nel Libro Bianco della Difesa.
Foto: AP, AFP, Reuters, Difesa.it, Getty Images
Mario MarioliVedi tutti gli articoli
Generale di Corpo d'Armata dell'Esercito, ha lasciato il servizio attivo alla fine del 2014. Nel corso della sua carriera ha avuto modo di maturare notevole esperienza estera in particolare quale Capo Ufficio Addestramento di COMFOTER, Comandante della scuola NBC Rieti, Capo del Terzo Reparto di Stato Maggiore Difesa, Vice Segretario Generale della Difesa/DNA, Vicecomandante di KFOR e Vicecomandante del Corpo d'Armata Multinazionale a Bagdad. Ha conseguito la laurea in Scienze Strategiche e relativo master, la laurea in Scienze Internazionali e Diplomatiche presso l'Università di Trieste e la laurea in Coordinamento delle attività di Protezione Civile presso l'Università di Perugia.