Il Sukhoi abbattuto e le tensioni tra russi e turchi

da Mosca  – Mentre cittadini russi lanciavano sassi contro l’ambasciata turca a Mosca e bruciavano bandiere con stella e mezzaluna, nei palazzi del potere di Ankara e della capitale russa i rispettivi corpi diplomatici provavano a risolvere una crisi tanto grave quanto inaspettata.

L’ira nei confronti di Erdogan e della Turchia è tanta, qui in Russia, che la si può percepire osservando lo sguardo dei russi quando si parla dell’abbattimento avvenuto lo scorso 24 novembre. I post sui social network che inneggiano ad un ritorno delle guerre russo-ottomane non mancano, così come gli insulti alla Turchia intera e gli appelli di pseudo-crociati ortodossi desiderosi di sottrarre Bisanzio agli infedeli.

Di sproloqui, insomma, se ne leggono e sentono parecchi, perfino contro la NATO, alleanza che in questo momento si trova in una posizione alquanto scomoda.

La linea ufficiale di Stoltenberg non può che essere a supporto di uno dei membri del blocco atlantico. Questo supporto, tuttavia, andrà moderato nel caso la Turchia cercasse di forzare troppo la mano sul fronte mediorientale: le relazioni fra Occidente e Russia sono già abbastanza complicate così e una nuova crisi Mosca-NATO non servirà ad altro se non a rendere meno efficace la lotta allo Stato Islamico. Il che, secondo alcuni, potrebbe essere uno degli obiettivi velati del presidente turco.

Per il momento, le ragioni dell’attacco all’aereo russo non sono chiare a nessuno, forse solamente ad Erdogan in persona. Tra le varie ipotesi, potrebbe essere principalmente quattro i motivi che hanno spinto la Turchia a compiere un atto così deciso.

Il primo motivo è strettamente legato a questioni di politica interna. Dopo aver perso la maggioranza in giugno, Erdogan ha ricondotto il paese alle urne lo scorso primo novembre, ottenendo, con il suo Akp, una vittoria schiacciante, sfiorando il 50% dei voti: tanti, tantissimi, ma non sufficienti a garantire al presidente quei 330 seggi in parlamento che sarebbero necessari per modificare la costituzione e rendere la Turchia una repubblica presidenziale.

Per farlo, a Erdogan bastano 15 voti in più rispetto ai suoi 315 guadagnati con le elezioni: tra i vari partiti, quello più facile in cui conquistare nuovo consenso sarebbe il nazionalista Mhp, attualmente in possesso di 41 seggi. In quest’ottica, l’abbattimento del caccia russo sarebbe una prova di forza voluta dal presidente per accaparrarsi voti a casa, giocando la carta del nazionalismo (tendenza già ben sviluppata in Turchia) e cementando la solida maggioranza in ottica anti-curda.

La seconda ipotesi riguarda da vicino proprio l’elemento curdo. L’intervento russo in Siria, oltre a minacciare la popolazione turcomanna lungo il confine turco-siriano, ha rafforzato Assad, grande nemico di Erdogan, indebolito le fazioni ribelli e, di conseguenza, migliorato la posizione del PKK nella regione siriana. Di combattimenti veri e propri fra Esercito Siriano Libero e milizie curde non si hanno notizie, ma tra i due gruppi, entrambi ostili ad Assad, esistono tensioni riguardanti la concessione di autonomia al Kurdistan in una Siria post-regime.

Dal punto di vista turco, dei ribelli più deboli significano un PKK più forte. Un discorso simile può essere fatto per l’ISIS, il cui indebolimento giova ai curdi: tuttavia, in questo caso, anche la Turchia stessa combatte il Califfato e le accuse di collaborazionismo con i jihadisti sembrano non trovare fondamento. Certo è che un avvicinamento eccessivo fra Russia e Occidente per sconfiggere lo Stato Islamico potrebbe, in futuro, portare i due attori a simpatizzare per la realizzazione di un Kurdistan indipendente.

Il che corrisponderebbe, dato l’elevato numero di curdi presenti sul territorio, uno smembramento della Turchia. Opzione non considerabile per Erdogan.

Terza possibile ragione, con questo gesto la Turchia vuole dimostrare che, in Medio Oriente, può giocare un ruolo fondamentale nelle sorti della guerra siriana. L’inserimento della Russia nel conflitto ha senza dubbio tolto libertà di manovra ad Ankara, che ora si ritrova l’aeronautica del Cremlino a pochi passi dal confine. L’abbattimento del caccia e il conseguente appello di solidarietà alla NATO fungerebbero così da avvertimento, sia ai propri alleati atlantici che a Mosca. Erdogan guida l’unico paese musulmano dell’alleanza, il che lo rende un attore fondamentale nel dialogo con i paesi arabi: il presidente turco può essere l’ago della bilancia nelle relazioni russo-occidentali in Siria e, quando verrà il momento di decidere le sorti della nuova Damasco, vorrà essere sicuro di avere un posto a tavola. Il messaggio è chiaro a tutti: senza Turchia non si va da nessuna parte.

Quarta ed ultima ragione: nessuna ragione, semplicemente il caso. Anche questa può essere considerata come ipotesi, ma degli aerei non si abbattono “per caso”. Colpire senza esitazione un velivolo che ha violato lo spazio aereo nazionale per pochi secondi pare una reazione esagerata, perfino per un popolo tradizionalmente audace come quello turco.
Qualunque sia stata la causa, mentre l’aereo precipitava e uno dei due piloti veniva massacrato al suolo da milizie siriane islamiche, le relazioni bilaterali fra Russia e Turchia colavano drasticamente a picco.

La dichiarazione di Putin rilasciata subito dopo l’accaduto non lascia spazio a dubbi: la Russia è stata offesa gravemente, “pugnalata alle spalle” dagli alleati dei terroristi. Parole non certamente d’amore, anzi. Negli ultimi anni, Ankara e Mosca avevano migliorato sensibilmente il proprio rapporto, intensificando la propria collaborazione commerciale, potenziando i canali turistici e concludendo importanti accordi energetici, su tutti il progetto Turkish Stream, un gasdotto che poterebbe ad entrambi i paesi introiti ingenti grazie al trasporto di gas naturale verso l’Europa.

Il destino del Turkish Stream, stando alle ultime dichiarazioni del Ministro per lo Sviluppo Economico russo, sarebbe anch’esso legato al peggioramento dei rapporti bilaterali dovuti all’abbattimento del caccia e, di conseguenza, la sua costruzione è in dubbio. In dubbio anche la realizzazione della centrale nucleare di Akkuyu, attualmente in atto e affidata ad una compagnia russa.

Sul fronte turismo e trasporti invece, la Russia non farà sconti, annullando decine di voli verso la Turchia e consigliando ai propri cittadini di non recarsi in un paese dove possono essere potenzialmente in pericolo (Lavrov dixit). Di danni, dal punto di vista economico e commerciale, ce ne saranno per entrambi e la Russia sta preparando sanzioni destinate ad entrare in vigore a breve.

Tuttavia, se appare più facile rinunciare a qualche appalto turistico, difficilmente i due paesi abbandoneranno il progetto del gasdotto. Quello del Turkish Stream è un affare troppo grosso: un aereo vale poche centinaia di migliaia di dollari, mentre la vendita di gas naturale ne vale miliardi. Alla fine, su questo fronte, la ragione avrà la meglio sui bollenti spiriti turco-russi e il progetto partirà, seppur con qualche settimana di ritardo rispetto alla data prevista (dicembre 2015).

Dal punto di vista politico invece, i risvolti di questa scelerata mossa turca sono molto meno prevedibili, soprattutto perché Erdogan, seppur dispiaciuto, non si è ancora scusato ufficialmente con il suo corrispondente russo, preferendo buttare benzina sul fuoco appellandosi alla NATO e dichiarando che di scuse, da parte di chi ha ragione, non ne verranno formulate affatto.

La situazione appare paradossale, visto che la violazione dello spazio aereo, se c’è stata, ovviamente non avrebbe costituito alcuna minaccia per il territorio turco e la sua popolazione: oltre a non rivolgersi direttamente al Cremlino, se non tramite una telefonata di cordoglio tra ministri, la Turchia, invocando la solidarietà della NATO, ha dato l’impressione di essere il paese aggredito invece che l’aggressore.

Non c’è da sorprendersi se Putin, il giorno dopo, abbia ordinato un sostanziale incremento della presenza militare russa in Siria inviando un incrociatore sotto costa, batterie di missili antiaerei /antimissile a lungo raggio S-400 e velivoli da combattimento: con una tale massa di mezzi militari lungo il confine turco scontri come quello appena avvenuto possono accadere di nuovo. Se gli incidenti dovessero diventare molteplici, le conseguenze sarebbero catastrofiche.

Nonostante Putin abbia rifiutato di incontrare Erdogan a Parigi, per ora di guerra non si parla. Obama e l’Europa cercano di fare da paciere, mentre i diplomatici di Mosca e Ankara provano a moderare le parole infuocate dei rispettivi presidenti. A farne le spese saranno la lotta contro lo Stato Islamico insieme all’unità d’intenti internazionale che essa richiede.

Foto: Anadolu, AP, Novosti, Aeronautica Russa, Aeronautica Turca

Filippo MalinvernoVedi tutti gli articoli

Nato a Como, si è laureato in Scienze Internazionali e Diplomatiche presso l'Università degli Studi di Trieste. Attualmente studia Global Governance and Affairs presso l'Università MGIMO di Mosca, nell'ambito di un programma di Double Degree con l'università LUISS Guido Carli di Roma. Collabora con diverse testate cartacee e online. Parla inglese, francese, spagnolo e russo.

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