Belgrado si avvicina alla NATO

Sin dalla nascita della Jugoslavia socialista, per Belgrado non è stato facile garantire la propria equidistanza dai blocchi, sia a causa delle spinte interne che la portavano ad avvicinarsi ora all’URSS, ora agli USA, sia perché la stessa capacità di restare a guardare lo scontro fra superpotenze derivava dalla generosità di Mosca e Washington, che con lauti investimenti incoraggiavano il Paese balcanico a non cedere alle lusinghe del nemico. Questo abile “galleggiamento” permise a Tito di far crescere notevolmente il prestigio della Federazione e di dotarla di un potente apparato militare e, almeno fino alla metà degli anni ’60, di un controspionaggio di primo livello.

La memoria di quel periodo, che pure è stato respinto in toto dalla nuova classe dirigente serba (fervente anti-comunista e, spesso, nazionalista), è rimasta viva nei governanti che hanno trainato lo Stato fuori dall’isolamento internazionale seguito alla guerra civile del 1992-1995 e al conflitto scoppiato nella Provincia del Kosovo. Proprio per questo motivo, Belgrado ha cercato di difendere, almeno a parole, la propria neutralità militare, limitandosi quindi a cercare di instaurare buone relazioni sia con la NATO che con il principale antagonista di quest’ultima, ossia la Russia. A differenza della maggior parte dei suoi vicini, infatti, la Serbia è l’unico Paese dell’area Balcanica a non aver espresso l’intenzione di voler entrare a far parte dell’Alleanza Atlantica.

Le ragioni di tale rifiuto non sono solo da ricercare nell’ancor vivo ricordo dei bombardamenti del 1999 e nell’orientamento filo-russo di buona parte della popolazione, ma anche nella consapevolezza che a livello regionale il partner di riferimento per gli USA (e per l’alleanza da loro diretta) è la Croazia, nonché nel fatto che aderire alla NATO significherebbe per Belgrado accettare definitivamente i suoi confini attuali.

Non c’è quindi da stupirsi che la decisione del Premier Vucic di siglare un accordo con la NATO in materia di cooperazione logistica abbia scatenato una serie di forti reazioni da parte dell’opinione pubblica. Il testo, approvato dal Parlamento il 12 febbraio scorso, prevede una più stretta collaborazione fra la Serbia e l’NSPA (NATO Support and Procurement Agency) in materia di logistica, supporto operativo e sistemi di supporto. Oltre a ciò, il documento imprime una notevole accelerazione al processo di classificazione dei prodotti dell’industria militare serba, nonché allo scambio di informazioni fra Belgrado e l’Alleanza.

Uno dei punti maggiormente criticati dagli esperti e dall’Opposizione di Governo, però, riguarda l’art.10 del trattato, che prevede la concessione di immunità e privilegi (fra cui l’esenzione fiscale) al personale dell’NSPA operante in Serbia, nonché l’accesso a siti e strutture militari previa autorizzazione delle autorità locali.

Come già evidenziato sopra, comunque, la ratifica di tale accordo non è stata indolore, poiché da più parti si sono levate delle voci critiche, tanto che il Presidente della Repubblica Nikolic è stato addirittura costretto a pubblicare un comunicato ufficiale per illustrare le ragioni che lo hanno portato a siglare il documento approvato dal Parlamento e a non prestare ascolto alle proteste di piazza. È interessante notare, però, come Miroslav Lazanski, il più quotato analista militare del Paese, in un lungo editoriale per il quotidiano Politika abbia cercato di illustrare perché egli ritenga che il testo di cui sopra non rappresenti una reale minaccia per il suo Paese.

A suo avviso, infatti, la codificazione NATO dei prodotti made in Serbia permetterà alle aziende locali di sbarcare sui mercati occidentali (un’eventualità che sembra credibile solo per quanto riguarda il mercato civile), al Ministero della Difesa di dotarsi anche di materiale d’armamento prodotto in Europa e al personale militare di migliorare le proprie conoscenze grazie alla stretta collaborazione con esperti stranieri.

L’analista serbo, però, evidenzia anche che lo status riconosciuto ai membri dell’NSPA non è mai stato concesso agli uomini della base della protezione civile serbo-russa di Niš, sebbene questi siano sempre stati “i primi a venire in nostro [dei serbi] soccorso quando ci hanno colpito disastrose alluvioni”.

Diversa è invece la posizione di Boris Malagurski, regista e Analista Politico, che in un’intervista a Russia Today ha polemicamente fatto notare che solo due giorni dopo la dichiarazione del Premier Vucic, secondo cui la NATO è fondamentale per garantire la sicurezza dei serbi in Kosovo, due membri dello staff diplomatico di stanza in Libia sono stati uccisi in un raid condotto dalle forze statunitensi.

Come hanno timidamente sottolineato altri commentatori, comunque, il riferimento fatto dal Primo Ministro al ruolo della KFOR è particolarmente importante poiché può essere visto come un’accettazione ex-post di alcuni dei punti chiave delle proposte avanzate a Rambouillet nel 1999. Nello specifico, infatti, Vucic ha de-facto riconosciuto che solo la missione a guida NATO è in grado di mantenere la stabilità e la calma in quella che Belgrado continua a ritenere una sua provincia e, oltre a ciò, con la firma dell’accordo con l’NSPA ha anche riconosciuto l’immunità del personale dell’Alleanza Atlantica sul suolo serbo, cosa che invece il Governo jugoslavo aveva rifiutato di fare 17 anni fa durante i colloqui tenutisi nella località francese.

Forte contrarietà al nuovo corso intrapreso dall’Esecutivo di Belgrado è stata espressa anche dalla Russia, che tramite Maria Zakharova (portavoce del Ministero degli Esteri) ha descritto l’intera vicenda come l’ennesimo tentativo della NATO di allargare i propri confini, pur ribadendo una certa fiducia nel mantenimento della neutralità da parte della Serbia.

La natura della reazione del Cremlino, che è stata decisa anche se contenuta, può essere motivata dal fatto che per Mosca attualmente può essere più vantaggioso cercare di far parlare al suo posto i numerosi opinion makers serbi contrari all’avvicinamento agli USA, piuttosto che iniziare una nuova offensiva politica contro l’Occidente.

Ciò detto, comunque, Putin e il suo entourage sembrano consci del fatto che la loro posizione in Serbia resta particolarmente solida, anche se non monitorare con attenzione i Balcani a causa dell’ingente impegno in Siria potrebbe favorire una “fuga in avanti” degli esponenti politici filo-europei e filo-NATO.

Nell’ottica di rafforzamento della posizione russa nell’area sarebbe pertanto utile la creazione di un asse politico fra Budapest e Belgrado, due realtà che, pur avendo numerosi conti in sospeso dal punto di vista storico e politico, potrebbero fornirsi supporto reciproco. Per la Serbia, infatti, sarebbe fondamentale poter contare su un amico “sincero” in seno alla UE e alla NATO, mentre per l’Ungheria la Serbia rappresenta la migliore garanzia per poter fermare l’ondata migratoria all’esterno dei suoi confini nazionali (che rappresentano anche quelli dell’Area Schengen).

Al di là di queste considerazioni, comunque, vanno sottolineati anche alcuni altri aspetti. In primis, l’accordo raggiunto fra Vucic e l’Alleanza Atlantica è stato scarsamente coperto dai media locali, che inizialmente avevano fatto passare in secondo piano la notizia.

Secondariamente, la scarsa discussione parlamentare sul tema e la quasi assente considerazione della posizione dell’opinione pubblica dimostra l’assoluta debolezza dell’élite politica serba, che pare sempre di più legata a doppia mandata alle linee di indirizzo segnate dal Primo Ministro Vucic. Inoltre, il trattato dimostra che il soft-power statunitense sta riscuotendo i risultati auspicati da Washington, anche grazie all’incapacità del fronte contrario alla NATO di fornire un’alternativa credibile all’anti-occidentalismo radicale e isterico del Partito Radicale di Šešelj o al filo-americanismo militante di alcune organizzazioni sponsorizzate da società legate agli interessi politici degli USA.

Foto: NATO, Forze armate serbe, Governo Serbo, RS, Pravda

Triestino, analista indipendente e opinionista per diverse testate giornalistiche sulle tematiche balcaniche e dell'Europa Orientale, si è laureato in Scienze Internazionali e Diplomatiche all'Università di Trieste - Polo di Gorizia. Ha recentemente pubblicato per Aracne il volume “Aleksandar Rankovic e la Jugoslavia socialista”.

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