SE LA GUERRA IN SIRIA LA DECIDONO LE ARMI

E se russi e governativi siriani vincessero la guerra sul campo di battaglia sbaragliando tutti gli avversari, alla faccia del “soft power” e di tutte le chiacchiere sprecate in Occidente e soprattutto in Europa sull’inesistenza di una soluzione militare al conflitto siriano?

Se la guerra si decidesse sul campo di battaglia e non nei summit internazionali, in barba agli accordi diplomatici negoziati a Ginevra per un’uscita di scena concordata del presidente Bashar Assad?

E se dopo 5 anni e mezzo di conflitto con quasi mezzo milione di morti e almeno 8 milioni di sfollati l’Occidente suicida che ha armato e sostenuto tutti i gruppi jihadisti contro Assad e incapace persino di fare la guerra (quella vera) all’Isis venisse spiazzato dal successo dell’offensiva militare russo-siriana?

Un successo che ha colto tutti in contropiede e sta facendo perdere le staffe alle ricche monarchie del Golfo (che minacciano un intervento militare ma sono troppo benestanti per subire elevate perdite in battaglia come dimostra la guerra nello Yemen) e alla Turchia  di Recep Tayyp Erdogan che dopo aver soffiato sul fuoco della guerra civile in Siria si trova oggi ai ferri corti con tutti i suoi vicini e “costretta” a bombardare i curdi sostenendo le milizie dell’Isis e di al-Qaeda.

Che scorno per gli imbarazzanti leader europei che non sono neppure in grado di ritagliarsi un ruolo in una crisi di cui noi per primi subiamo le conseguenze, se russi e siriani imprimessero una svolta al conflitto con il massiccio impiego di un “hard power” a base di cacciabombardieri Sukhoi e carri armati T-90.

Strumenti che stanno diventando i veri artefici della “pace” in Siria, ovviamente la pace dei vincitori che in ogni epoca ha sempre portato alla fine dei conflitti stabilendo nuovi equilibri a discapito dei vinti.

Se fosse per noi, bizzarri e ambigui occidentali che abbiamo rimosso la guerra per rimpiazzarla con termini quali peacekeeping, Peace support operations e missioni di pace, la guerra in Siria e Iraq  durerebbe in eterno.

Siamo riusciti a congelare o tenere aperti conflitti infiniti senza mai risolverli in termini definitivi: dall’Africa ai Balcani, dal Medio Oriente al confronto con l’Isis l’obiettivo che perseguiamo non è mai la “vittoria”, termine rimosso dal linguaggio politico e militare, né gli “interessi nazionali”, espressione ormai equiparata a una bestemmia. Al massimo utilizziamo blandamente la forza per giungere a “negoziati, accordi, intese, soluzioni”.

Obiettivi spesso del tutto inconsistenti come appare chiaro anche in Libia e che, quando va berne, congelano le crisi in attesa di farle deflagrare di nuovo.

Noi occidentali abbiamo questo vizio di non concludere (con la vittoria) le guerre che combattiamo, non perché siamo i più buoni e non vogliamo fare troppo male al nemico ma semplicemente perché abbiamo perso la capacità politica e sociale di combattere, di fare la guerra.

Non possiamo più sopportare perdite tra le nostra fila né tollerare di mieterne tra le fila nemiche, per questo ci limitiamo ad addestrare forze locali che ci illudiamo vogliano combattere al posto nostro. Un tramonto patetico per un’Europa che fino a 70 anni or sono dominava orgogliosamente più di mezzo mondo.

L’esempio più eclatante lo riscontriamo in Francia dove, dopo i 130 morti provocati a Parigi dallo Stato Islamico il 13 novembre scorso, il presidente Hollande e il premier Valls hanno promesso guerra vera, “sterminio” e rappresaglia.

Un tempo dopo espressioni così bellicose ci si sarebbe aspettato di vedere la Legione Straniera setacciare casa per casa Raqqa uccidendo uno a uno i miliziani del Califfato. Invece i francesi si sono limitati a qualche bombetta intelligente in più lanciata dai Rafale della portaerei De Galle.

Roba da poco e non quella campagna tesa anche a terrorizzare le popolazioni che sostengono lo Stato Islamico, in Iraq e Siria come in Libia, che (piaccia o meno) è indispensabile se si vuole davvero sconfiggere l’Isis e concludere in tempi ragionevoli una guerra già fin troppo prolungata e che per questo si sta allargando pericolosamente.

Il capo di stato maggiore della Difesa del Regno Unito, generale Sir John Nicholas Reynolds Houghton, in un intervento al think-tank Chatam House di Londra nel settembre scorso fotografò perfettamente l’incapacità occidentale di fare la guerra.

Houghton (nella foto a sinistra) espresse preoccupazione per i vincoli sempre più stretti al ricorso alla forza militare evidenziando come la mancanza di sostegno dell’opinione pubblica e del parlamento potrebbero compromettere la capacità dissuasiva della Gran Bretagna contro eventuali nemici.

Il generale sottolineò la riluttanza all’uso delle armi, condivisa da molti Paesi occidentali, affermando che i vincoli posti all’impiego della forza militare “sono particolarmente significativi quando riguarda il sostegno a operazioni da cui potrebbero dipendere interessi nazionali vitali”.

Le minacce affrontate dal Regno Unito e dall’Occidente “non riguardano forse la nostra sopravvivenza in senso fisico, ma sono esistenziali per il nostro stile di vita, la nostra prosperità, i nostri valori nazionali, le nostre libertà individuali e il senso del ruolo della nostra nazione nel mondo”.

Così mentre i jet americani, francesi e inglesi (per non parlare dei Tornado disarmati di italiani e tedeschi) conducono stancamente da un anno e mezzo un inconcludente guerra allo Stato Islamico, il rullo compressore dei raid aerei e dell’artiglieria russa spiana la strada ai carri di Assad e alle milizie curde e in meno di cinque mesi ha portato il conflitto a una fase decisiva, tutta militare e favorevole al regime di Damasco che ora potrà negoziare la pace da una posizione di forza o forse potrebbe continuare ad avanzare fino a  non avere più un’opposizione armata credibile con cui fare i conti.

Il tutto grazie a forze siriane e alleate (iraniani, hezbollah e volontari sciti afghani), uomini avvezzi agli orrori della guerra, e ai jet russi armati anche di bombe a caduta libera e di efficacissime bombe a grappolo che Mosca impiega senza complessi perché non ha mai firmato la convenzione che le mette al bando.

Non l’hanno firmata neppure gli USA, la Cina, L’India, Israele e molti Paesi arabi e asiatici che credono ancora di dover fare la guerra, a differenza di noi europei che riteniamo disdicevole la partecipazione ai conflitti e infatti abbiamo smesso di avere un ruolo credibile e voce in capitolo, sullo scacchiere internazionale come alle porte di casa nostra.

@GianandreaGaian

Foto: Difesa russa, SANA, RT, UK MoD

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Giornalista bolognese, laureato in Storia Contemporanea, dal 1988 si occupa di analisi storico-strategiche, studio dei conflitti e reportage dai teatri di guerra. Dal 1991 al 2014 ha seguito sul campo i conflitti nei Balcani, Somalia, Iraq, Afghanistan, Sahara Occidentale, Mozambico e Sahel. Dal febbraio 2000 dirige Analisi Difesa. Ha collaborato o collabora con quotidiani e settimanali, università e istituti di formazione militari ed è opinionista per reti TV e radiofoniche. Ha scritto diversi libri tra cui "Iraq Afghanistan, guerre di pace italiane", “Immigrazione, la grande farsa umanitaria” e "L'ultima guerra contro l’Europa". Presso il Ministero dell’Interno ha ricoperto dal 2018 l’incarico di Consigliere per le politiche di sicurezza di due ministri e un sottosegretario.

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