L’Europa impreparata alla guerra che ha dichiarato
da Il Sole 24 Ore del 26 marzo
Gli attentati di Bruxelles e prima ancora quelli di Parigi hanno messo in luce la disarmante inadeguatezza dell’Europa a combattere lo Stato Islamico sui fronti iracheno-siriano, su quello della sicurezza interna e sul piano diplomatico con i Paesi che sostengono e finanziano l’estremismo islamico.
Un flop che appare inspiegabile se si tiene conto che sono stati gli stessi europei a dichiarare guerra allo Stato Islamico, nell’estate 2014, aderendo alla Coalizione voluta dagli Stati Uniti dopo la proclamazione del Califfato in Iraq e Siria.
All’epoca Arturo Parisi, l’ex ministro PD della Difesa italiano, pose subito l’accento sui rischi dell’adesione a una Coalizione che ci rendeva belligeranti esponendoci a tutti i rischi conseguenti incluse le rappresaglie terroristiche. Parisi evidenziò i rischi per l’Italia, che ha partecipato allo sforzo contro il Califfato inviando istruttori e armi alle forze curde e una forza aerea composta da 6 velivoli tra droni e bombardieri tutti disarmati.
Tutti gli altri Paesi europei (esclusa la Germania che ha seguito le orme dell’Italia) hanno aderito alla Coalizione inviando reparti aerei da combattimento che hanno colpito con bombe e missili il Califfato.
Il Belgio ha pagato con gli attentati di martedì l’impiego per nove mesi di 6 cacciabombardieri F-16 che hanno effettuato 163 missioni di attacco e si appresta dalla prossima estate a inviare altri sei velivoli in Giordania con missioni estese anche al territorio siriano, come è stato annunciato ieri a Bruxelles.
Al di là dei singoli contributi nazionali il ruolo della Coalizione è stato marginale, fin troppo blando per risultare risolutivo. Una responsabilità che ricade in buona parte sugli Stati Uniti ma sono gli europei che avrebbero avuto tutto l’interesse a spazzare via rapidamente l’IS per ridurre le conseguenze sull’Europa di un conflitto prolungato.
Neppure le minacce di Francois Hollande e Manuel Valls, che dopo la strage del 13 novembre avevano promesso “sterminio senza pietà” all’IS, si sono tradotte in efficaci rappresaglie.
Consentire ad Abu Bakr al-Baghdadi di resistere oltre un anno e mezzo contro una Coalizione che riunisce (sulla carta) tutto l’Occidente e il mondo arabo significa ingigantire le capacità militari e la portata della propaganda dell’IS con un impatto diretto sulla minaccia terroristica.
Sul fronte interno nessun Paese europeo ha messo in atto contromisure efficaci per fronteggiare la minaccia jihadista.
Pur senza attendersi misure draconiane come quelle prese dagli Stati Uniti nella Seconda guerra mondiale, che dopo Pearl Harbor internarono per tutta la durata della guerra i cittadini di origine giapponese, qualcosa di più concreto doveva essere fatto subito per limitare i rischi.
I foreign fighters, che l’Europa ha fatto partire per la Siria senza ostacoli tra il 2012 e il 2014, non vengono arrestati al loro ritorno così come non sono stati imprigionati o espulsi le centinaia di imam salafiti che in moschee e centri culturali sparsi per tutta Europa indottrinano migliaia di giovani islamici a diventare novelli Salah Abdeslam.
Nessuna espulsione neppure per i tanti immigrati irregolari o richiedenti asilo che hanno mostrato pubblicamente simpatie per la causa jihadista anche compiendo reati come nel caso delle violenze di Capodanno contro le donne in Germania.
Anzi, sul fronte dell’immigrazione gli europei continuano a mobilitare ingenti forze navali per accogliere chiunque abbia pagato il biglietto alla criminalità organizzata legata a doppio filo a Stato Islamico e al-Qaeda, come riferiscono i rapporti dei servizi d’intelligence.
Nessun giro di vite neppure nei “piccoli califfati” che da Molenbeek al Londonistan sono sorti in Europa.
Luoghi che in molti casi già vengono amministrati dalla sharia, dove viene tollerato il mancato rispetto delle leggi e dove i jihadisti come Salah Abdeslam trovano rifugi sicuri.
Falliti, se mai ci sono stati, anche i tentativi di imporsi con Arabia Saudita, Qatar e Turchia che sono i maggior finanziatori dell’islamismo radicale presso le comunità musulmane in Europa ma anche tra i maggiori acquirenti di armi “made in Europe”.
L’assenza di ogni forma di deterrenza non offe solo ai jihadisti un’ulteriore conferma della nostra debolezza ma evidenzia il dilettantismo con cui l’Europa è entrata in guerra con l’Isis quasi senza averne la consapevolezza.
Lo dimostrano bene le lacrime di Federica Mogherini, umanamente comprensibili ma che nell’attuale contesto bellico disorientano un’opinione pubblica impaurita e costituiscono un regalo formidabile alla propaganda nemica.
Foto: EPA, Stato Islamico, Reuters, AFP, AP
Gianandrea GaianiVedi tutti gli articoli
Giornalista bolognese, laureato in Storia Contemporanea, dal 1988 si occupa di analisi storico-strategiche, studio dei conflitti e reportage dai teatri di guerra. Dal 1991 al 2014 ha seguito sul campo i conflitti nei Balcani, Somalia, Iraq, Afghanistan, Sahara Occidentale, Mozambico e Sahel. Dal febbraio 2000 dirige Analisi Difesa. Ha collaborato o collabora con quotidiani e settimanali, università e istituti di formazione militari ed è opinionista per reti TV e radiofoniche. Ha scritto diversi libri tra cui "Iraq Afghanistan, guerre di pace italiane", “Immigrazione, la grande farsa umanitaria” e "L'ultima guerra contro l’Europa". Presso il Ministero dell’Interno ha ricoperto dal 2018 l’incarico di Consigliere per le politiche di sicurezza di due ministri e un sottosegretario.