In Libia Washington continua a dare ordini a Roma

L’Italia è pronta a guidare una missione militare internazionale in Libia. Parola del capo degli stati maggiori riuniti statunitensi, il generale Joseph F. Dunford.

Benché al vertice di Vienna di lunedì scorso tutti abbiano escluso l’invio truppe occidentali in Libia limitandosi a valutare forniture di armi al governo di salvezza nazionale di Fayez al-Sarraj (nella foto sotto), il generale Dunford ha detto al Washington Post che “In Libia ci sarà una missione a lungo termine” e potrebbe essere ancora guidata dall’Italia anche se, ammette il giornale, negli ultimi tempi il premier italiano Renzi sembra aver frenato sull’ipotesi di mandare truppe. Truppe che peraltro nessuna fazione libica e neppure il governo di al-Sarraj hanno finora chiesto.

“Il governo italiano” ha detto Dunford che ha parlato a Bruxelles col capo di stato maggiore della Difesa italiano, il generale Claudio Graziano “è ancora disposto alla missione” anche se “ha posto condizioni” che pare includano l’identificazione precisa dei miliziani libici da addestrare e la copertura della missione con un mandato delle Nazioni Unite.

“Se tali condizioni saranno accolte – ha detto con piglio sicuro Dunford – gli italiani mi hanno indicato di essere ancora disponibili”.
Non è la prima volta che le valutazioni dei vertici italiani vengono rese note da fonti straniere e certo sarebbe stato più elegante se questa disponibilità fosse stata annunciata da Roma ma ormai gli “alleati” americani sembrano aver messo da parte il bon ton.

A Washington il vecchio “vizietto” di dettarci la politica estera e di difesa è ben radicato (alimentando l’adagio che ci dipinge come un “Paese a sovranità limitata”) ma con Barack Obama i casi in cui gli yankee “ci tirano per la giacchetta” hanno assunto una frequenza quasi patologica.

Nel dicembre scorso Obama annunciò l’intesa segreta raggiunta durante la visita di Matteo Renzi per inviare un battaglione di bersaglieri a presidiare la Diga di Mosul, in Iraq.

Washington preme da tempo affinché gli italiani combattano in armi e in prima linea lo Stato Islamico, cosa che finora Renzi ha evitato accuratamente di fare inviando in Iraq solo aerei disarmarti e istruttori e rifiutandosi di inviare truppe nel pantano libico.

Obama obbligò così un imbarazzato Renzi a spiegare, a “Porta a Porta”, una missione che proteggerà il cantiere della ditta Trevi che dovrà rinforzare la diga sita a pochi chilometri dalle postazioni dell’Isis. Per enfatizzare la missione impostaci da Washington, Renzi parlò di un contratto da 2 miliardi di dollari per l’azienda romagnola, ridottosi in realtà ad appena 300 milioni, meno di quanto ci costerà lasciare laggiù 500 militari per due anni.

In Libia già l’anno scorso i ministri Pinotti e Gentiloni si erano lasciati sfuggire frasi circa il possibile invio di 5 mila militari, la disponibilità a “combattere” l’Isis e l’ambizione italiana a guidare una missione internazionale ma lo stesso Renzi aveva poi smentito ogni volontà di intervento nelle attuali condizioni anche se recentemente erano trapelate indiscrezioni circa i piani per inviare a Tripoli 900 militari.

Renzi e il generale Graziano se la presero con i giornalisti, colpevoli di “irresponsabili accelerazioni sull’intervento in Libia” ma avrebbero dovuto tirare le orecchie agli americani.

Il presidente della commissione Difesa del Senato, Nicola Latorre (PD), ha affermato ieri di avere avuto uno “scambio di telefonate” con il premier Matteo Renzi per commentare la notizia diffusa dal Washington Post precisando che, a suo avviso, “quelle dichiarazioni sono state un incidente giornalistico”

“Il nostro Paese ha le idee chiare e una rotta chiara su come gestire la crisi libica – ha aggiunto Latorre – per noi non è all’ordine del giorno alcun intervento militare in Libia, lavoriamo per la stabilizzazione politica della Libia e su richiesta del Governo libico siamo pronti ad assolvere alle funzioni utili per favorire la stabilizzazione della Libia”.

Citando fonti del Pentagono, il Wall Street Journal raccontò in marzo l’accordo segreto che consente ai droni americani basati a Sigonella (altri sono a Pantelleria insieme ad aerei per lo spionaggio elettronico)  di compiere azioni di guerra in Libia ma solo “a scopo difensivo”.

Limitazioni criticate dagli USA mentre l’ammissione che Roma autorizza l’uso del suo territorio per incursioni USA contro l’Isis aumenta sensibilmente il rischio che i jihadisti “puniscano” l’Italia con azioni terroristiche.

Sempre in marzo il segretario alla Difesa, Ashton Carter, sottolineò che l’ambizione italiana di guidare la missione internazionale in Libia aveva l’appoggio di Washington mentre l’ambasciatore a Roma, John Philipps, dichiarò in un’intervista al Corriere della Sera che gli USA si aspettano che l’Italia “mandi in Libia fino a 5 mila militari”.

Più che un’aspettativa sembrava un ordine, reiterato dal capo degli stati maggiori riuniti Dunford pochi giorni dopo che il Pentagono aveva confermato la presenza di due dozzina di uomini delle forze speciali USA in Libia con compiti d’intelligence e schierate su fronti opposti: a Bengasi (evidentemente con le forze del generale Haftar) e a Misurata con le milizie locali che sostengono al-Sarraj.

(da Libero Quotidiano del 21 maggio)

Foto Ansa, Difesa.it, Reuters e TMNews

Gianandrea GaianiVedi tutti gli articoli

Giornalista bolognese, laureato in Storia Contemporanea, dal 1988 si occupa di analisi storico-strategiche, studio dei conflitti e reportage dai teatri di guerra. Dal 1991 al 2014 ha seguito sul campo i conflitti nei Balcani, Somalia, Iraq, Afghanistan, Sahara Occidentale, Mozambico e Sahel. Dal febbraio 2000 dirige Analisi Difesa. Ha collaborato o collabora con quotidiani e settimanali, università e istituti di formazione militari ed è opinionista per reti TV e radiofoniche. Ha scritto diversi libri tra cui "Iraq Afghanistan, guerre di pace italiane", “Immigrazione, la grande farsa umanitaria” e "L'ultima guerra contro l’Europa". Presso il Ministero dell’Interno ha ricoperto dal 2018 l’incarico di Consigliere per le politiche di sicurezza di due ministri e un sottosegretario.

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