GUERRA IN IRAQ: CONTRO BLAIR UN PROCESSO POLITICO
da La Nuova Bussola Quotidiana
“Il Regno Unito non esaurì tutte le possibili opzioni pacifiche prima di decidere di unirsi nel 2003 agli Stati Uniti nell’invasione dell’Iraq di Saddam Hussein”. Queste le conclusioni di Sir John Chilcot, a capo della commissione di inchiesta voluta dal leader Labour dell’epoca, Gordon Brown, che per 7 anni ha indagato sulle ragioni della guerra e che ieri ha presentato il suo Rapporto finale.
Per Chilcot, l’allora premier laburista Tony Blair giudicò le informazioni di intelligence sulla minaccia delle presunte armi di distruzione di massa irachene “con una certezza che non era giustificata”.
Secondo il Rapporto, il celebre dossier presentato dal premier alla Camera dei Comuni nel settembre del 2002 non era sufficiente a supportare l’accusa che l’Iraq di Saddam Hussein stava sviluppando armi di distruzione di massa.
I piani per il dopoguerra, inoltre, furono “completamente inadeguati” alla situazione. Una critica “devastante”, come la definisce il Guardian, quella rivolta nei confronti dell’ex premier laburista che infatti ha più il sapore della vendetta della sinistra del partito contro il leader che ha governato il Regno Unito per dieci anni.
Non a caso l’attuale leader dei laburisti, il “sinistrissimo” Jeremy Corbyn, ieri ha chiesto scusa ai cittadini britannici per quella guerra che provocò la morte di 179 soldati britannici.
In realtà la guerra contro Saddam venne vinta in appena un mese dalle forze anglo-americane mentre il vero conflitto contro gli insorti sunniti e di al-Qaeda prosegue anche oggi con le operazioni contro lo Stato Islamico.
Chilcot non si è spinto al punto di dare un giudizio sulla legalità della guerra, ma afferma che il modo in cui le basi legali dell’invasione vennero discusse fu “tutt’altro che soddisfacente”.
Nella sostanza, dai 12 volumi del Rapporto, emerge che non c’era nessuna minaccia imminente da parte di Saddam Hussein mentre una strategia di contenimento nei confronti del dittatore iracheno avrebbe dovuto essere adottata e perseguita per un certo periodo di tempo.
Blair si è difeso con orgoglio, rivendicando di aver abbattuto con quel conflitto un sanguinario dittatore offrendo al popolo iracheno l’opportunità di vivere nella democrazia e sottolineando come il rapporto Chilcot non abbia individuato un “uso improprio o una falsificazione dei rapporti dell’intelligence”.
L’ex Primo ministro ha insistito: “che la gente sia stata d’accordo o meno con la mia decisione di intraprendere un’azione militare contro Saddam Hussein, io la presi in buona fede e per quelli che ritenevo fossero i migliori interessi del Paese”.
Che il dibattito sia più sulla politica interna che sulla storia e la strategia lo dimostrano anche le reazioni dei media. Il conservatore Daily Telegraph e il progressista Guardian bollano entrambi come “provocatoria” la risposta di Blair al rapporto che, dopo aver ammesso qualche “errore” e invocato la sua “buona fede”, ha aggiunto che il mondo senza Saddam Hussein è “un posto migliore” e che tornando indietro riprenderebbe la stessa decisione.
Se Blair si rivela un uomo tutto d’un pezzo pronto ad affrontare la riprovazione generale dei suoi concittadini va rilevato che il processo alla storia e ai suoi protagonisti ha ben poco senso.
Più che lecito discutere sugli errori di quella guerra cui si oppose anche Papa Giovanni Paolo II e il presidente francese Jacques Chirac, a patto però di tenere conto del contesto dell’epoca (la guerra scoppiò 18 mesi dopo l’11 settembre 2001) e della ricerca di una strategia per combattere quel terrorismo islamico che ancor oggi flagella anche l’Occidente.
Una strategia anglo-americana che mirava a rimuovere il regime più tirannico e sanguinario del Medio Oriente per innestarvi la democrazia con l’auspicio di farla “germogliare” poi in tutto il mondo islamico come antidoto al terrorismo.
Un progetto fallito anche forse perché a Londra e Washington si illusero di poterlo completare con successo in pochi anni quando sarebbero occorsi invece decenni di presenza militare, come fecero in Europa dopo il 1945.
Esaminare criticamente quel conflitto ha un senso, meno se l’obiettivo sono i capri espiatori politici. In termini morali processare Blair per avere destituito Saddam Hussein equivale a processare Churchill per avere fatto la guerra a Hitler.
Anche allora fu Londra a dichiarare guerra a Berlino e certamente c’erano alternative valide all’entrata in guerra.
L’Europa continentale sarebbe caduta in mano ai nazisti ma Londra avrebbe conservato il suo impero coloniale e non avrebbe avuto bisogno di votare la “Brexit” da un’Unione europea che si sarebbe chiamata Terzo Reich.
Se processiamo Blair perché allora non mettere alla sbarra tutti i leader dei Paesi NATO che nel 1999 bombardarono la Serbia di Slobodan Milosevic, che di certo non aveva armi di distruzione di massa né mai aveva minacciato nessun Paese dell’Alleanza Atlantica?
Inoltre Milosevic non fu certo più sanguinario di Saddam e la sua sconfitta ha aperto la strada all’arrivo dei jihadisti nei Balcani.
Se Blair ha sbagliato o è addirittura un criminale di guerra che dire allora di Cameron, Obama e Sarkozy che nel 2011 fecero cadere Muammar Gheddafi regalandoci tutti i guai provocati oggi dal caos libico?
Di sicuro anche loro, come Blair, elaborarono piani per il dopoguerra “completamente inadeguati”.
Foto Askanews e UK MoD
Gianandrea GaianiVedi tutti gli articoli
Giornalista bolognese, laureato in Storia Contemporanea, dal 1988 si occupa di analisi storico-strategiche, studio dei conflitti e reportage dai teatri di guerra. Dal 1991 al 2014 ha seguito sul campo i conflitti nei Balcani, Somalia, Iraq, Afghanistan, Sahara Occidentale, Mozambico e Sahel. Dal febbraio 2000 dirige Analisi Difesa. Ha collaborato o collabora con quotidiani e settimanali, università e istituti di formazione militari ed è opinionista per reti TV e radiofoniche. Ha scritto diversi libri tra cui "Iraq Afghanistan, guerre di pace italiane", “Immigrazione, la grande farsa umanitaria” e "L'ultima guerra contro l’Europa". Presso il Ministero dell’Interno ha ricoperto dal 2018 l’incarico di Consigliere per le politiche di sicurezza di due ministri e un sottosegretario.