COSA FANNO LE FORZE SPECIALI ITALIANE IN LIBIA?
Che si tratti di appena una decina di incursori assegnati al dispositivo d’intelligence mobilitato dall’Agenzia informazioni e sicurezza esterna (AISE) o di un reparto di una cinquantina di uomini (o addirittura un centinaio come sostengono alcune fonti) con compiti di intelligence e di consiglieri militari per addestrare le milizie filo governative libiche, l’unica cosa certa è che il governo farà di tutto per tenere nascosto il ruolo militare italiano in Libia.
Lo hanno ben dimostrato in queste ore le dichiarazioni che hanno fatto seguito ai reportage di Vincenzo Nigro su Repubblica che da Sirte ha registrato molte testimonianze circa la presenza dei forze speciali italiane anche con il compito di addestrare e aiutare i libici a contrastare gli ordigni improvvisati impiegati su vasta scala dallo Stato Islamico. Le fonti libiche citate da Repubblica riferiscono che “i militari italiani stanno lavorando sul terreno con i libici”.
Il viceministro degli Esteri, Mario Giro a SkyNews24 ha definito una «non storia» la notizia della presenza di forze italiane per lo sminamento in Libia perché “sappiamo già che ci sono militari italiani che aiutano a sminare a Misurata, lontano dal fronte a seguito degli eventi bellici del 2011”, ricordando che Misurata “venne circondata e bombardata per mesi dalle forze di Gheddafi”.
La presenza italiana quindi farebbe parte “dell’assistenza tecnica. E’ molto pompata questa storia, ma in realtà non c’è storia”, ha rimarcato, «stiamo aiutando a togliere le mine. Non stiamo combattendo”.
Ma la missione di sminamento a Misurata, sia mine terrestri sia navali disseminate nel porto, si sia svolta dopo la guerra del 2011 e in ogni caso Sirte si trova ben 268 chilometri a est di Misurata.
“Non abbiamo missioni militari in Libia, se le avremo saranno autorizzate dal Parlamento” ha detto il ministro degli Esteri, Paolo Gentiloni, che circa la nota trasmessa dal governo al Copasir, secondo cui agirebbero in Libia piccoli nuclei di reparti militari speciali a copertura dei servizi segreti, ha aggiunto “non commento per definizione operazioni di natura riservata”.
Anche il presidente del Copasir, il leghista Giacomo Stucchi, contattato dall’Agi ha risposto in modo simile. “Non ritengo opportuno commentare notizie stampa inesatte”.
Importante sottolineare il silenzio del ministero della Difesa, forse perché nessuno a Palazzo Baracchini intende sbilanciarsi o raccontare mezze verità e probabilmente a conferma di come le operazioni italiane in Libia siano fuori dal suo controllo.
La “guerra segreta”
L’informativa del governo al Copasir circa le operazioni “coperte” delle nostre forze speciali costituirebbe la prova che i militari sono assegnati a supporto delle operazioni dell’AISE anche se questo compito non impedisce di impiegare altre unità delle forze speciali come “consiglieri militari” per affiancare o addestrare le milizie filo-governative libiche.
L’acceso dibattito politico circa l’impiego “segreto” delle forze speciali in Libia dipende in parte dalla delicatezza della missione al punto che anche Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia hanno a lungo negato il coinvolgimento dei propri reparti speciali nella ex colonia italiana, peraltro attuato senza l’approvazione dei rispettivi parlamenti.
La questione più rilevante, anche in termini politici, riguarda però l’emendamento al decreto legge di rifinanziamento delle missioni all’estero (articolo 7 bis della legge n.198 dell’11 dicembre 2015) che consente al Presidente del Consiglio il potere di emanare, sentito il parere non vincolante del Copasir, “disposizioni per l’adozione di misure di intelligence di contrasto, anche in situazioni di crisi o di emergenza all’estero che coinvolgano aspetti di sicurezza nazionale o per la protezione di cittadini italiani all’estero, con la cooperazione altresì di assetti della Difesa”.
Secondo il decreto approvato a febbraio, e secretato, il governo può inviare forze speciali all’estero con le garanzie funzionali della nostra intelligence, secondo la linea di comando dei servizi segreti, a supporto degli stessi. In questo caso i militari non dipendono dalla Difesa ma rispondono direttamente alla catena di comando dell’AISE e godono, per tutta la durata dell’operazione, delle stesse garanzie.
Di fatto Palazzo Chigi può assegnare forze speciali a missioni oltremareequiparandole o integrandole con l’AISE,senza il via libera del Parlamento e di conseguenza senza informarne l’opinione pubblica con la possibilità di porre il segreto di Stato sul loro operato.
L’aspetto più rilevante è che sotto questa copertura i reparti speciali possono svolgere anche missioni tipiche di tutte le unità di questo tipo incluse quelle di “contrasto”, cioè anche di combattimento o supporto al combattimento a favore di forze alleate, regolari o meno.
Di queste operazioni verrebbero informati (ma non è chiaro fino a che punto), su richiesta, i membri del Copasir ma col vincolo di segretezza. In base a questa disposizione possono essere impiegate segretamente dal governo non solo unità di incursori delle tre Forze Armate (9° reggimento dell’Esercito, Gruppo Operativo Incursori della Marina e 17° Stormo dell’Aeronautica e GIS dei Carabinieri) ma anche i reparti di forze per operazioni speciali (Reparto Elicotteri Operazioni Speciali, 185° reggimento acquisizioni obiettivi, 4° reggimento Ranger e 28° reggimento Operazioni Psicologiche Pavia): in totale alcune migliaia di uomini.
Normative simili sono già da tempo prassi comune per i nostri principali alleati: la CIA dispone addirittura di propri combat-team composti per lo più da ex incursori militari e l’amministrazione Obama ha fatto dell’integrazione tra intelligence e forze speciali il fulcro della sua campagna contro i leader dei gruppi terroristici jihadisti.
In Francia le unità Commandement del Opérations Spéciales operano nel Sahel in sinergia col Service Action (SA) della DGSE, la direzione generale per la sicurezza esterna mentre in Gran Bretagna uno squadrone apposito di forze speciali di Esercito e Marna è assegnato alle operazioni dei servizi segreti (MI6).
Quali compiti?
Repubblica conferma le testimonianze sul ruolo dei militari italiani in Libia mentre il Corriere della Sera sostiene che le forze sociali schierate in Libia costituiscano l’avanguardia di un contingente di 600-900 unità previsto dal piano messo a punto dal nostro governo, anticipato dal Corriere lo scorso aprile ma smentito dall’esecutivo.
Quindi se può essere data per certa la presenza di incursori in Libia, dall’altro il loro impiego in operazioni militari o di combattimento è sempre stato negato, prassi consolidata in Italia ma che sta prendendo piede anche in Francia, Gran Bretagna e Stati Uniti.
Il generale libico Mohamed al-Ghasri ha “smentito categoricamente che forze speciali italiane siano presenti a Sirte con compiti di sminamento”.
In una telefonata con l’Ansa ha precisato che “le notizie pubblicate in questo senso sono false.
Non ci sono forze speciali italiane a Sirte. Siamo però favorevoli a ogni tipo di aiuto da parte dell’Italia”.
Frasi che sembrano mirate a sostenere il tentativo del governo Renzi di tenere nascosto il ruolo militare italiano quando va oltre il soccorso umanitario ai feriti e la fornitura (ammessa dal premier Fayez al-Sarraj in un’intervista al Corriere della Sera), di equipaggiamenti quali giubbotti antiproiettile e visori notturni.
Di certo nel settore del contrasto a mine e ordigni esplosivi gli italiani hanno una vasta esperienza maturata nei Balcani, in Iraq e Afghanistan, dove addestrano e d equipaggiano i genieri locali.
Probabile quindi e più che giustificato che facciano la stessa cosa in Libia. A questi ordigni e ai veicoli bomba sono infatti da attribuire buona parte delle perdite sofferte dalle forze di Misurata e dalle altre milizie filo-governative impegnate a Sirte, quasi 500 morti e 3mila feriti negli ultimi due mesi.
Simili competenze, si inserirebbero inoltre in modo complementare con quanto stanno già facendo a Sirte una cinquantina gli incursori britannici (che da due mesi affiancano le milizie di Misurata in pima linea) e una ventina di Berretti Verdi statunitensi impegnati a localizzare gli obiettivi poi colpiti da jet AV-8B Harrier ed elicotteri AH-1Z Super Cobra decollati dalla portaelicotteri Wasp.
Anche l’ipotetica consistenza del contingente di forze speciali italiane, se diamo per buona la stima di una cinquantina di uomini, è compatibile con i compiti di intelligence e addestramento da svolgere in Libia ed è simile all’unità di forze speciali schierata inizialmente in Iraq con l’operazione Prima Parthica (la componente italiana della Coalizione contro l’Isis) recentemente inforzata per far fronte alla nuova missione di protezione della Diga di Mosul.
Le forze speciali italiane in Libia svolgono quindi compiti non specificati nei dettagli ma da più parti definiti “non di combattimento”, espressione che fotografa un’ossessione politica per molti versi incomprensibile.
Come ricordò due anni or sono l’ex ministro della Difesa, Arturo Parisi (PD), l’Italia è divenuta belligerante contro l’Isis anche solo aderendo alla Coalizione e fornendo armi ed equipaggiamenti ai curdi iracheni.
Del resto la preparazione e le dotazioni delle forze speciali consentono di poterle rapidamente riconfigurare per effettuare anche missioni diverse: dagli attacchi in profondità all’eliminazione di comandanti nemici, dal recupero di ostaggi all’individuazione di bersagli a favore dei raid aerei.
Prospettive
Certo non guasterebbe un po’ di trasparenza per sgombrare il campo da equivoci e rendere noto il reale impegno italiano nella nostra ex colonia ma il problema non è certo solo italiano.
Basti pensare che oggi l’agenzia turca Anadolu ha spiegato che fonti militari hanno dedotto dalla scomparsa dei droni dai cieli di Bengasi che i francesi avrebbero ritirato le loro forze speciali dalla Cirenaica dove affiancavano le truppe del generale Khalifa Haftar.
Sono stati i media a rilevare la presenza dei 160 incursori francesi a Bengasi scatenando rabbiose reazioni a Parigi.
E’ stato l’inviato della la BBC a svelare il ruolo di prima linea delle forze speciali britanniche a Sirte, al cui fianco vi sono ora i Berretti Verdi americani e gli italiani come hanno rivelato Washington Post e Repubblica.
In pratica è grazie ai media, non a governi e parlamenti, che l’opinione pubblica viene informata circa il ruolo dei propri militari in quel conflitto.
Il dato politico e strategico rilevante è però che in Libia non si parla più da tempo di un intervento internazionale sotto l’egida dell’Onu e a guida italiana ma ogni Stato interessato o coinvolto muove le sue pedine militari e d’intelligence in modo del tutto autonomo, su invito di uno dei governi locali e in base a interessi nazionali che non coincidono necessariamente con quelli dei cosiddetti alleati.
E l’Italia dovrebbe aver già imparato dalla guerra del 2011 a diffidare di “amici e alleati”.
Foto : Stato Islamico, 185° RRAO, AP, AFP, Askanews, US DoD, Comfose e Alberto Scarpitta
Gianandrea GaianiVedi tutti gli articoli
Giornalista bolognese, laureato in Storia Contemporanea, dal 1988 si occupa di analisi storico-strategiche, studio dei conflitti e reportage dai teatri di guerra. Dal 1991 al 2014 ha seguito sul campo i conflitti nei Balcani, Somalia, Iraq, Afghanistan, Sahara Occidentale, Mozambico e Sahel. Dal febbraio 2000 dirige Analisi Difesa. Ha collaborato o collabora con quotidiani e settimanali, università e istituti di formazione militari ed è opinionista per reti TV e radiofoniche. Ha scritto diversi libri tra cui "Iraq Afghanistan, guerre di pace italiane", “Immigrazione, la grande farsa umanitaria” e "L'ultima guerra contro l’Europa". Presso il Ministero dell’Interno ha ricoperto dal 2018 l’incarico di Consigliere per le politiche di sicurezza di due ministri e un sottosegretario.