GERMANIA: VAGHEZZA E RETORICA NEL LIBRO BIANCO DELLA DIFESA
Roba da politicanti con molta attenzione per gli slogan e simboli ma assai poca per il vero nocciolo dei problemi. Questa è l’impressione che si ricava dall’ esame del Libro Bianco della Difesa pubblicato dal governo tedesco il 13 luglio 2016.
E che palesemente sottovaluta la minaccia del terrorismo islamico, tanto che in nessuna parte del documento viene espressamente nominata la parola “jihad” (o suoi derivati), mentre dell’Islam si parla assai di striscio, senza quasi legare il fanatismo religioso al terrorismo.
E’ una delle varie carenze del documento, oltre alla vaghezza in fatto di programmi di potenziamento militare. Non si nominano quasi mai sistemi d’arma, per esser chiari, né cifre indicative sugli stanziamenti per le forze armate.
Probabilmente non ci si poteva aspettare di meglio dal governo dell’imbarazzata cancelliera Angela Merkel, che dopo essersi beata dell’accoglienza di un milione di profughi stranieri nell’arco di pochi mesi, ha visto concentrarsi a fine luglio ben tre gravi attentati su suolo tedesco, tutti compiuti, pur con reciproche sfumature, da autori originari di nazioni musulmane.
Perchè ciò che preme davvero a Berlino è mettere la Germania al centro dell’Europa stendendo intrecci sempre più stretti con le altre nazioni sotto il lato politico-militare, con doppio effetto a livello NATO e a livello UE, in modo da salvare l’euro, alias il successore del marco, e più in generale ridare vigore a istituzioni sovranazionali che negli ultimi tempi si sono rivelate fragili.
Dopo la crisi greca, la Brexit, le sfilacciature legate alla crisi con la Russia, il nodo dei migranti, per citare solo alcune priorità, sia la NATO, sia l’UE non appaiono in buona salute, almeno dal 2014 a oggi.
E il Libro Bianco tedesco arriva a proposito, come stampella per sostenere e rilanciare una parvenza di ordine internazionale che, in ultima analisi, discende ancora da Washington e Bruxelles, in questo emisfero.
Fin dalle prime pagine, quando si dipinge a grandi linee il contesto strategico odierno, si capisce che a Berlino preme proporre una propria centralità allo scopo di fare da magnete per gli altri Paesi, ma più per paura di rimanere isolati e di veder incrinarsi gli attuali equilibri, che non per un nascente nazionalismo.
La Germania non manterrà a lungo il suo status di quarta economia mondiale perché, citiamo dalla pagina 22 del documento, “le economie di potenze emergenti in Asia e America Latina supereranno il prodotto interno lordo tedesco, anche se non quello europeo negli anni venturi”.
La prosperità tedesca dipende da condizioni di stabilità in Europa poiché è “altamente interconnessa” con gli altri Stati, fattore che viene visto sia come testimonianza dell’importanza del Paese, sia come debolezza intrinseca.
Il governo di Berlino dice di essere ormai pronto ad assumersi proprie responsabilità mondiali nonché una sua porzione di leadership in ambito europeo.
Ciò anche in conseguenza del fatto che il modello tedesco esercita maggiore attrazione negli ultimi anni, come testimonia l’arrivo di tanti immigrati.
Ed è pronta anche a incentivare il “dibattito internazionale” portando suoi stimoli. Il che segna una lenta ma graduale voglia di sottrarsi dallo status di potenza minorata che l’ha accompagnata fin dal dopoguerra a causa del passato nazista.
Un manifesto politico
Depurate dei soliti, triti e ritriti peana sui diritti umani, che paiono largheggiare nel documento proprio allo scopo di soddisfare la tipica paranoia tedesca del presentarsi “buoni” a tutti i costi (ovviamente a causa del passato del Paese), le linee strategiche tedesche sono incentrate su due binari paralleli.
Da un lato rafforzare la propria posizione di parità con la Francia, ben sapendo che è l’architrave continentale Parigi-Berlino, la cosiddetta “Framania” come veniva battezzata dai geopolitici degli anni Novanta, l’unica possibile base per la sopravvivenza dell’Unione Europea.
Dall’altro, il rafforzamento del legame bilaterale con gli USA, per riaffermare la centralità politica e geografica della Germania nella NATO.
E’ questo ovviamente il riflesso dell’espansione a Est dell’Alleanza, dato che in precedenza, fino agli anni Novanta, la Germania Ovest, poi la neo-riunificata Germania del 1990, era ancora periferica, tanto da rischiare in caso di conflitto fra Est e Ovest a essere semidistrutta in quanto “prima linea” dei combattimenti.
Se fino a una ventina d’anni fa i tedeschi occupavano il margine orientale dell’alleanza, ora ne sono, grossomodo, al centro geografico, dato che il “fronte” si è spostato verso Oriente di centinaia di chilometri.
La Germania è tornata nel cuore dell’Europa, nella stessa posizione che dal 1871 al 1945 l’aveva in pratica “costretta” a sviluppare una forza militare proporzionalmente superiore a quella dei vicini perché presa dal doppio dilemma che fu già dei Bismarck e dei Moltke, così riassumibile: “Possiamo attaccare tutti e possiamo essere attaccati da tutti”.
Ai tempi del Kaiser o del Fuhrer, immaginando una circonferenza attorno ai confini tedeschi, su 360 gradi, ci sono sempre stati potenziali nemici lungo un arco di oltre 280 gradi, da Nordovest verso Sud e fino a Nordest, escludendo solo un’ottantina di gradi rivolti verso il relativamente più tranquillo quadrante settentrionale, coperto dai paesi scandinavi.
Oggi la sicurezza tedesca la si identifica sempre nell’UE e nella NATO, da tenere in piedi a tutti i costi per non rimanere isolati. E puntare sull’asse “framanico” è anche un modo per stringere a sé Parigi evitando future derive nazionaliste, magari incarnate dall’euroscetticismo del Front National o affini.
Nel caso del rapporto con Parigi, a pagina 80 si ribadisce espressamente che “le relazioni franco-tedesche sono la forza che guida l’approfondirsi dell’integrazione europea e la garanzia di pace, libertà, sicurezza”.
Viene però da chiedersi se la rivendicazione di una parità strategica davvero completa con la Francia resterà (e fino a quando?) disgiunta dal colmare un divario mai abbastanza ricordato ma che da sempre conta sulla bilancia strategica: quello nucleare.
Finché la Germania non deciderà di disporre di un suo arsenale nucleare, la parità geopolitica con la Francia non sarà mai veramente tale. E del resto, la presenza di ordigni atomici americani in regime di “condivisione” NATO, (nuclear sharing) seguita a ricordare ai tedeschi che non saranno ancora per lungo tempo una vera potenza autonoma.
Il governo della Merkel, ovviamente, non si pone un problema di questo tipo.
I suoi rappresentanti, pur anagraficamente più giovani della generazione dei Brandt o dei Kohl, sono comunque cresciuti con la mentalità principe dal dopoguerra ad oggi, quella della “colpa”, del cospargersi il capo di ceneri, eccetera.
Viene da chiedersi in che misura questo fattore possa perdurare nelle future generazioni di tedeschi. Cosa decideranno per il proprio Paese e per la propria gente, una volta divenuti adulti, e in alcuni casi parte della classe dirigente futura, gli attuali ragazzi tedeschi?
Che oggi magari riscoprono tramite i videogiochi il fracasso dei cingoli dei Panzer o l’ululato degli Stuka in picchiata, come anche le imprese dei prussiani di Blucher, che dopotutto nel 1815 furono l’elemento determinante per sconfiggere Napoleone a Waterloo.
E che per di più, pur ammettendolo di rado, in cuor loro possono anche essere critici circa il fatto che la generazione dei loro genitori e dei loro nonni abbia anche imposto loro una presenza così ingente di immigrati extraeuropei.
La Germania, relativamente sia alla sua fase unitaria, sia alla fase in cui era frazionata in una messe di regni e ducati, resta una Nazione dalla storia politica e militare, nonché dall’autocoscienza etnica, così ricca e drammatica che, in verità, ogni svolta pare ancora possibile.
La dittatrura del “politically correct”
Questo è ancor più vero se si considera che la recente e inaspettata ondata di profughi, richiedenti asilo o clandestini extraeuropei che dir si voglia, contribuisce ad accrescere la perplessità della popolazione tedesca e facilitare l’approfondirsi di una spaccatura fra gli umori veri della gente e il modello che la classe dirigente vuole portare avanti.
Un modello che però, con l’espandersi del terrorismo, inizia a presentare sempre più falle.
Del resto, gli ultimi attentati hanno ridato fiato alle trombe sia dei movimenti anti-immigrazione più marcatamente di destra, come Alternative fur Deutschland, sia di compagini moderate che guadagnano gradualmente consensi trasversali nella società tedesca, come il movimento Pegida contro l’islamizzazione del Paese.
Seppure non ancora al livello della Francia, anche la Germania si ritrova nel mirino del terrorismo d’importazione, senza aver dato adeguata attenzione al rischio.
Nel documento che dovrebbe guidare le strategie tedesche per i prossimi dieci anni si nasconde il jihadismo sotto paraventi verbali come “terrorismo transnazionale” conditi di banalità del tipo: “Gli attacchi terroristici rappresentano la sfida più immediata alla nostra sicurezza.
La radicalizzazione dei simpatizzanti e il ritorno dei combattenti stranieri dalle aree di crisi in Germania e negli altri paesi UE e dell’Area Schengen significano che il rischio è in continua crescita. Perciò ci vuole un’interfaccia fra sicurezza interna ed esterna”.
Ovvietà che non dicono nulla e che, soprattutto, evitano abilmente, dal punto di vista di Berlino, di toccare il tema dei legami con l’immigrazione incontrollata.
E si capisce, dato che la Merkel ha imposto nell’arco di pochi mesi al suo popolo l’ingresso di massa di oltre un milione di migranti. Laddove si dovrebbe parlare di provvedimenti concreti, a pagina 92, ci si limita a dire che fra i compiti della Bundeswehr, le forze armate federali germaniche, c’è “il contributo alle operazioni antiterrorismo nel quadro della Costituzione”.
Quasi che la cosa più importante sia ribadire che i militari mai e poi mai compiranno azioni anche solo al limite dei diritti costituzionali da garantire anche ai potenziali arrestati.
Il peggio lo si raggiunge a pagina 42, laddove nel paragrafo espressamente dedicato all’immigrazione irregolare, si recita: “Con grandi numeri l’immigrazione incontrollata e irregolare può portare rischi sia per la Germania, sia per l’Europa. La capacità di assorbire e integrare migranti può essere superata, il che può portare a instabilità sociale”.
Non una parola sulla possibile infiltrazione di terroristi ed estremisti fra i migranti, secondo Merkel e soci, al più si può rischiare “instabilità sociale”.
Inoltre nella pagina successiva il rischio di radicalizzazione di giovani provenienti dai Paesi arabi o del Nordafrica viene ricondotta esclusivamente a problemi come la disoccupazione endemica in certe nazioni, ripetendo il troppo facile sillogismo di certa sociologia per cui, “Sono disoccupato? Vado a farmi saltare”.
Infatti il passo precisa: “I problemi con l’integrazione nel mercato del lavoro, l’esperienza della disoccupazione in giovane età e la risultante mancanza di prospettive possono portare alla violenza e alla radicalizzazione.
L’occupazione giovanile è dunque legata strettamente alla prevenzione della violenza ed è critica per la nostra sicurezza”.
Non una parola sullo specifico tema del fondamentalismo islamico, sul fatto che è da una certa cultura che nasce il mito della “guerra santa” e del martirio.
Tanto che, come ribadiamo, in tutto il documento non viene menzionata nemmeno una volta la parola “jihad” mentre gli unici scarsi accenni all’Islam vengono fatti relativamente all’Isis, menzionato però unicamente in relazione al territorialmente lontano Califfato siro-iracheno e senza prospettare qualche esempio di soluzione pratica che in Italia siamo già arrivati ad arguire, come la sorveglianza di alcune moschee e alcuni imam, perlomeno i più estremisti.
Tacere la minaccia
E’ evidente che ben poco si è capito. O meglio, non si vogliono chiamare le cose col loro nome per non urtare quel “politically correct” che in Germania, per ragioni storiche, forma una cappa di paranoia ben più che in altre nazioni.
Se il problema del jihadismo viene liquidato solo in chiave economicistica, come conseguenza della mancanza di lavoro dei milioni di giovani che affollano la sponda Sud del Mediterraneo, si prende un colossale abbaglio che non tiene conto della complessa galassia del fondamentalismo, nelle sue varie articolazioni, dagli epigoni della vecchia Al-Qaeda all’Isis, da Al-Nusra ai Salafiti, Wahabiti e alla Fratellanza Musulmana.
Una complessità che certamente meritava un approccio dedicato anche solo per prospettare opzioni strategiche di massima, per esempio il giocare, se possibile, sulla rivalità tra i vari gruppi jihadisti per poterli meglio indebolire e affrontare separatamente.
Nemmeno un accenno (anche se si tratta di forze di polizia che non dipndono dalla Bundeswehr), a specifiche iniziative in fatto di antiterrorismo, come l’annuncio del 17 dicembre 2015 della creazione del nuovo nucleo BFE Plus, o Beweissicherungs und Festnahmeeinheit Plus, composto da 250 agenti speciali, suddivisi in 5 squadre da 50 uomini l’una, che si stanno affiancando al già famoso GSG-9 intervenuto anche nella recente sparatoria di Monaco.
E sì che sbandierare provvedimenti concreti avrebbe fatto buon gioco alla reputazione del governo.
Alla fine dell’anno scorso il capo dei servizi di sicurezza BfV, Hans-Georg Maassen aveva spiegato in un’intervista alla rete televisiva MDR che erano presenti in Germania 1.100 “islamisti violenti”, fra cui almeno 430 abbastanza radicalizzati e pericolosi da esser pronti a compiere attentati.
Il tutto “condito” dalla presenza di ben 8.350 estremisti Salafiti, di quel bacino, per intenderci, da cui l’Isis attinge molto in Nordafrica e a cui afferiscono numeriosi imam.
Che razza di Libro Bianco può essere quello che non ricorda, perlomeno, uno straccio di dati inerenti le minacce più pressanti?
Ignorare semplicemente un potenziale di almeno alcune centinaia di jihadisti non farà dormire sonni più tranquilli ai cittadini/elettori tedeschi e, anzi, avrà l’effetto controproducente di creare maggiori traumi su una popolazione impreparata nel caso dovessero ripetersi su suolo tedesco attentati di ampie proporzioni come quelle già patite da Francia e Belgio.
Con l’incognita, peraltro, degli imprevedibili effetti che traumi del genere possano avere su una psicologia nazionale peculiare come quella germanica, reduce da un passato “particolare” e complicata da stratificazioni così contrastanti come il passaggio dal prussianesimo al jazz di Weimar, dal nazismo al “complesso di colpa” instillato per tutti i mali del mondo.
Dunque, il triangolo concettuale immigrati islamici-terrorismo-identità nazionale rischia di diventare sempre più una specie di “mina ideologica” che, a seconda degli avvenimenti futuri, potrebbe rimettere in discussione almeno in parte il percorso compiuto dalla Germania negli ultimi 70 anni.
Il documento è poi fin troppo prolisso laddove vuole invece dare l’impressione di una Germania aperta, che vuole perfino dar la possibilità di arruolamento nella Bundeswehr a stranieri UE. Sul modello della brigata franco-tedesca, si propongono anche “scambi permanenti” di unità tra le forze armate tedesche e i Paesi vicini, specialmente nominando Olanda e Polonia.
Per adesso, per fortuna, almeno, si parla di una Bundeswehr aperta agli europei, seppure non si possa fare a meno di constatare che questo processo potrebbe essere solo l’inizio di una futura tendenza delle forze armate tedesche, e magari di altri Stati, volta ad arruolare dei veri e propri “ascari” di svariata provenienza.
Ne ha parlato il ministro della Difesa, Ursula van der Leyen, anticipando un programma di arruolamenti di rifugiati.
Il primo confronto storico che viene in mente è senz’altro l’arruolamento di barbari nelle legioni romane, ed è certo un confronto che non fa ben sperare per il futuro.
L’altro è l’arruolamento di stranieri nelle forze armate tedesche durante la fase “imperiale” del Terzo Reich, ossia quei circa 4 anni, dalla primavera del 1940 all’estate del 1944, in cui le truppe di Hitler occuparono la maggior parte del continente europeo, perlomeno a Ovest delle mobili frontiere con l’Unione Sovietica.
Come noto, l’arruolamento di stranieri da parte della Germania nazista fu particolarmente intenso proprio nelle Waffen SS, le truppe di élite del regime.
A pagina 123 il Libro Bianco declama: “La società tedesca sta diventando più colorata e diversificata.La Bundeswehr vede questa diversità come un’opportunità”.
E prosegue: “L’obbiettivo è stabilire un moderno approccio alla gestione delle diversità nella Bundeswehr che faccia il miglior uso del potenziale disponibile e che sviluppi strategicamente il potenziale futuro.
Questo si concentrerà in aree come l’età, l’inclusione, l’origine etnica o culturale, il genere sessuale, la religione. La gestione della diversità è un’alta priorità a tutti i livelli di comando”.
Detto in altri termini, l’enfasi sul “diversity management” e la rilettura delle forze armate come esperimento sociologico per forgiare un’unità europea, sembrano davvero un frettoloso correre ai ripari per forzare i tempi di integrazione, a vantaggio della Germania, prima che nel resto del continente aumentino i dubbi sull’unione, specie dopo la Brexit.
Un tirare le redini che solo il tempo dirà se ancora utile oppure troppo in ritardo. La centralità europea della Germania è la garanzia più sicura, dal punto di vista di Berlino, per la sopravvivenza di un euro ormai fulcro dell’economia tedesca.
Ecco perché l’assertività del Libro Bianco 2016 è per la stragrande maggioranza di tipo geopolitico, volta ad acquisire voce in capitolo e influenza sugli eventi, ma senza un reale accrescimento delle capacità militari della nazione.
E’ vero che è previsto l’aumento degli effettivi, ma i tedeschi mantengono comunque una spesa militare in rapporto al PIL di circa l’1,2 %. Ben lungi dal 2 per cento raccomandato dagli USA ai loro alleati.
Perciò la Merkel e i suoi ministri guardano con preoccupazione all’ascesa di Donald Trump negli USA, tanto che poche settimane fa, il 17 luglio 2016 il ministro degli Esteri Frank-Walter Steinmeier, intervistato dal giornale “Bild am Sonntag”, ha confermato che a Berlino si tifa per Hillary Clinton.
Oltre a ribadire che “la Clinton è un diplomatico esperto e conosce bene l’Europa”, Steinmeier ha spiegato che, dalla sua precedente esperienza di segretario di Stato, “porterà con sé tutto ciò di cui hanno bisogno gli Stati Uniti nella situazione attuale”.
Viceversa, ha tacciato Trump di essere superficiale in politica estera. E’ probabile però che a spaventare maggiormente Berlino nell’eventualità di una vittoria del miliardario repubblicano a Washington sia il suo più volte dichiarato intento di spendere meno dollari per la difesa altrui, costringendo gli alleati europei e asiatici a fare più affidamento sulle proprie finanze. In senso più lato, Trump creerebbe alla Germania anche problemi più sottili ma non meno importanti.
Se mantenesse il suo stile anche dopo un eventuale ingresso alla Casa Bianca, potrebbe contribuire ad assestare colpi sempre più duri a tutto quel sistema del “politically correct” che da ormai una ventina d’anni attanaglia l’Occidente, rischiando di minare ogni seria e disincantata capacità di analisi e azione in campo geopolitico e militare.
Dove sono le armi?
Ben sappiamo come in Germania, da decenni, si sia sempre molto attenti a non deviare dall’immagine auto costruita di società “post-eroica” in cui le cose militari sono degradate al rango di “mali necessari”, visione sciagurata che costituisce di per sé il 90 per cento delle debolezze sfruttate dai nemici dell’Europa.
L’incremento delle forze della Bundeswehr è solo vagheggiato nel Libro Bianco e sono altre fonti, come le agenzie di stampa, che assicurano un quadro più complesso.
Se il bilancio della Difesa è atteso in aumento dai 34,9 miliardi di euro di quest’anno ai 39 miliardi previsti nel 2020, e se anche gli attuali 177.000 uomini dovrebbero aumentare a 185.000, in realtà le capacità militari globali della Germania non sembrano destinate a farsi realmente migliori.
Simbolicamente conta molto il fatto che riprenda ad aumentare il numero dei carri armati, dato che, dopo i tagli del post-guerra fredda, la forza di Leopard 2 è scesa attualmente a 250 esemplari, che però Berlino vorrebbe riportare almeno a 328 unità.
Un chiaro effetto della ripresa delle tensioni con la Russia, nonché della constatazione che, visti gli eventi bellici nel Donbass, sul teatro europeo, fra pianure ondulate, edifici, campi agricoli e foreste temperate, il carro da battaglia resta uno dei sistemi di combattimento più basilari, a patto di accompagnarlo ovunque necessario da una nutrita fanteria d’appoggio.
E’ vero però che l’acquisizione di questi carri da battaglia aggiuntivi come di altri sistemi potrebbe non filare liscia, se è vero quanto rivelato il 22 maggio 2016 dal giornale Bild, secondo cui un documento riservato del governo lamenta che la maggior parte degli aumenti di stanziamenti per la Difesa tedesca rischiano di essere erosi da incrementi nel numero e nell’ammontare degli stipendi, lasciando meno “grana” del previsto a vantaggio di un’espansione degli arsenali.
In particolare, aleggiava il rischio che dal 2018 la percentuale di spesa sul PIL ritornasse a diminuire ai livelli almeno del 2014.
D’altronde, fin da gennaio 2016 la commissione parlamentare per la Difesa, per bocca di Hans-Peter Bartels, aveva fatto presente che il rinnovo degli equipaggiamenti tedeschi sarebbe stato dilazionato nel tempo a causa di costi più alti del previsto.
Anche per questo motivo il prevedibile avvento di un carro da battaglia successore del Leopard 2 è spinto molto in là nel tempo. E’ solo attorno al 2025 che potrebbe infatti concretizzarsi un carro pesante progettato congiuntamente dalla francese Nexter (l’ex-GIAT) e dalla tedesca Kraus-Maffei, forse con un contributo polacco.
Un sondaggio, riportato il 20 giugno scorso da Die Welt, condotto fra i militari tedeschi dal Centro di Studi Storici e Sociali della Bundeswehr diceva chiaramente che solo l’8% dei soldati germanici confida pienamente nella qualità delle armi a propria disposizione, mentre il 28% se ne fida solo in parte e il 43% non se ne fida proprio.
Che serpeggi nelle forze armate tedesche un certo malcontento lo ha segnalato il 2 agosto il giornale Rheinische Post, secondo cui da metà 2014 a metà 2016 ben 469 militari, fra truppa e ufficiali, hanno fatto domanda di dimissioni anticipate dal servizio, contravvenendo ai termini del contratto professionale tanto che, almeno nel caso degli ufficiali, saranno costretti a rifondere allo Stato le spese per il loro addestramento.
Di queste domande di dimissioni è stato finora accettato solo il 67%.
Nel caso di 153 ufficiali, il permesso di tornare a casa verrà pagato a prezzo salato, in totale 5,6 milioni di euro, pari a una spesa media individuale di 36.000 euro da restituire al governo federale, seppure con molta variabilità, da minimi di 1.200 a massimi di 69.000 euro a seconda del grado dell’ufficiale e della quantità di tempo e risorse “sprecate” ad addestrarlo ed equipaggiarlo.
Considerato che la percentuale di questi “ripensamenti di carriera” non sembra comunque molto alta, fa specie che una potenza economica come la Germania debba attaccarsi alle tasche di alcune centinaia di militari che hanno ripensato la loro vocazione.
Il Libro Bianco, quindi, gironzola attorno ai massimi sistemi e cerca di edulcorare il panorama interno delle forze armate, come palestra di diversità e convivenza, senza aggiornare sul reale stato di avanzamento dei programmi concreti.
Uno su tutti l’aeroplano da trasporto strategico Airbus A-400M, che dovrebbe essere proprio uno dei fulcri del nuovo corso della Merkel, con quella spiccata vocazione per la proiezione a lungo raggio di contingenti tedeschi. Proprio quello che ci vorrebbe, a dar retta alla voglia di Berlino di assumersi crescenti responsabilità in fatto di “polizia globale”.
Ma l’A-400M, a ormai sette anni dal primo volo del prototipo, resta al palo con la Luftwaffe, operativo in appena tre esemplari e con l’ordinativo originale di 57 esemplari già ridotto a 40.
Problemi tecnici infiniti, dai motori agli eccessivi pesi in gioco, nonché la troppo lunga corsa di decollo, hanno fatto sì che gli equipaggi dell’aviazione germanica esultassero sapendo che per qualche anno dovranno ancora utilizzare il vecchio, ma onesto e affidabile Transall C-160.
Perfino a volersi allineare alla generale russofobia recentemente riemersa in ambito NATO, non si parla nemmeno dell’espansione della forza di sottomarini classe U-212, già cinque in servizio, con un sesto, l’unità U-36, che sta completando le prove di mare e di cui è attesa l’entrata in servizio entro la fine del 2016.
Fra le righe, il vero nodo del Libro Bianco è ancora quello dell’identità nazionale, della linea geopolitica e del rapporto dei tedeschi con l’uso delle armi.
Cosa è davvero la Germania, la nazione che elude ancora il passato cercando di fondersi con le altre e intrecciando questa linea politica della classe dirigente con la scommessa decisiva sull’euro?
Fa paura a sé stessa se resta da sola. Vuole contare di più, ma intrecciata agli altri membri UE per scongiurare il rischio che tutto l’edificio comunitario crolli, costringendola a ricominciare daccapo, a ridefinire sé stessa.
Per rendere indispensabile l’euro e presentarlo come irreversibile, deve convincere gli altri Stati UE che tutte le strade della sicurezza passano da Berlino, ma è un gioco rischioso mentre la fiducia degli europei nei meccanismi collettivi va scemando di fronte alle emergenze. E l’azzardo rischia di travolgere la stessa Germania.
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Mirko MolteniVedi tutti gli articoli
Nato nel 1974 in Brianza, giornalista e saggista di storia aeronautica e militare, è laureato in Scienze Politiche all'Università Statale di Milano e collabora col quotidiano “Libero” e con varie riviste. Per le edizioni Odoya ha scritto nel 2012 “L'aviazione italiana 1940-1945”, primo di vari libri. Sempre per Odoya: “Un secolo di battaglie aeree”, “Storia dei grandi esploratori”, “Le ali di Icaro” e “Dossier Caporetto”. Per Greco e Greco: “Furia celtica”. Nel 2018, ecco per Newton Compton la sua enciclopedica “Storia dei servizi segreti”, su intelligence e spie dall’antichità fino a oggi.