L’ITALIA E L’F-35: CONFERMATA LA “SOVRANITA’ LIMITATA”
A maggio l’Ufficio di programma per il Joint Strike Fighter ha reso note alcune decisioni importanti per la gestione tecnico-operativa delle future flotte di F-35, con particolare riguardo a quelle dei partner internazionali. Le novità hanno notevoli implicazioni sul grado di sovranità che questi potranno esercitare sui sistemi e il livello di sofisticazione dei loro velivoli e conseguentemente sulle prestazioni che questi potranno offrire.
Il 5 maggio – ecco la novità – il Department of Defense americano ha assegnato a Lockheed Martin un contratto relativo ai Reprogramming Laboratories, gli uffici e laboratori su suolo americano nei quali le forze aeree che schiereranno questo aeroplano provvederanno tra l’altro a caricare nel suo software i dati utili a identificare e contrastare le radiofrequenze avversarie con cui si dovrà misurare in missione, e a sfruttare le caratteristiche di bassa osservabilità dell’F-35, generando i relativi Mission Data Files (MDF; l’F-35 ne richiede il doppio del fratello maggiore F-22).
Una attività per condurre la quale, come recita una nota dell’US Air Force, parte del partenariato “non dispone di risorse nazionali”. Non è il caso dell’Italia: l’Aeronautica e la Marina generano e aggiornano da sempre i dati di missione per i loro aerei da combattimento in piena autonomia, utilizzando proprie risorse umane e tecnologiche, ed esercitando la necessaria sovranità sulla logica dei sistemi dei velivoli.
L’Italia “aggregata” alla Norvegia
Il contratto passato alla Lockheed (21 milioni di dollari) riguarda in particolare il “Digital Tuner Insertion Program”, l’hardware con cui il velivolo sarà equipaggiato per la gestione di quei dati a partire dagli esemplari del lotto a basso rateo di produzione numero 11.
La nota del Pentagono è però importante perché conferma ufficialmente ciò che era già stato deciso tempo addietro anche per l’Italia, ma che da noi non era ancora venuto alla luce: in uno dei 3 previsti Reprogramming Laboratories, il nostro Paese, che sta acquistando due tipi differenti di F-35, si troverà a operare con la Norvegia, che avrà solo la variante a decollo convenzionale F-35A.
Un secondo laboratorio servirà le flotte australiana, canadese (se Ottawa dovesse mai confermare l’acquisto del JSF) e britannica, mentre un terzo Reprogramming Laboratory servirà le sole forze aeree statunitensi (USRL in sigla).
A quest’ultimo affideranno la generazione e gestione dei MDF dei propri F-35 gli altri partner e clienti (non Israele) che non rientrano nell’accordo per i due Laboratories “stranieri”, NIRL e ACURL in sigla.
Alla copertura dei costi di sviluppo e di gestione corrente di queste infrastrutture, dovranno provvedere gli stessi partner, con appositi finanziamenti. NIRL e ACURL verranno basati a Eglin (Florida) e saranno parte integrante del Partner Support Complex, un’organizzazione attivata l’11 maggio dal 53° Wing dell’US Air Force per “assicurare la prontezza (degli F-35; ndr) dei partner della nostra coalizione in ogni futura operazione”, come ha dichiarato il suo responsabile, un civile ex-53° Wing – reparto specializzato nella guerra elettronica che a Eglin finora ha provveduto al solo addestramento di tutti i piloti destinati al JSF.
Forte al momento di una trentina di tecnici e contractor anch’essi tutti civili (a regime saranno oltre un centinaio), il Partner Support Complex supporterà insomma anche la flotta italiana di JSF.
I nostri militari opereranno insieme con quelli della forza aerea norvegese in laboratori e uffici i cui organici complessivi in ogni caso saranno per il 50 per cento coperti da personale militare americano.
Il problema della disseminazione dei dati
La materia è di quelle che scottano: in gioco c’è la famosa “sovranità” sull’impiego di un sistema d’arma così decisivo per le due forze armate italiane che se ne stanno equipaggiando – e che secondo qualcuno, forse ignaro delle stime dell’Air Force che dicono esattamente il contrario, potranno trarne vantaggi economici rispetto all’insieme degli assetti aero-tattici che l’F-35 dovrà rimpiazzare.
C’è ancora da chiarire bene quale livello di conoscenza/consapevolezza – ripetiamo le parole del capo del supporto americano – abbiano i “partner della coalizione in ogni futura operazione” della logica che governa la generazione dei dati di missione.
C’è da capire come funziona la “fusion engine”, il software che “sposa” gli input che arrivano dai vari sensori e sono fusi in un unico dato, col sistema di trasmissione data link che li deve disseminare.
C’è da capire bene come comunicheranno, e con quali modalità di cyber-protezione (decise e gestite dagli Americani, ca va sans dire), le basi italiane con gli spazi dove si preparano e si riprogrammano di volta in volta i dati per le missioni dei loro F-35, stanze che non sono nell’hangar accanto ma in casa di un paese super amico, va bene, ma pur sempre straniero. C’è da capire dove andrebbero a parare i nostri Joint Strike Fighter senza questo supporto “amico”.
Sappiamo che i Mission Data Files sono veicolati dal sistema informatico globalizzato ALIS controllato dagli USA, che in ogni momento ha contezza dello stato di efficienza e prontezza operativa di tutte le flotte di F-35. Interrogato, dà le sue riposte, ma in base a precise gerarchie di ingresso e uscita.
Tutto è stato deciso sulla scorta di accordi politici – coi relativi effetti sul piano militare – verosimilmente ormai non più rinegoziabili (se mai lo sono stati).
Il 30 giugno, all’arrivo in Inghilterra di un F-35A dell’Air Force atteso al Royal International Air Tattoo, il generale USAF Jeffrey Harrigian (nella foto sotto), responsabile dell’integrazione dell’F-35, ha ammesso che in linea di principio non sarà sempre possibile far sapere a quel determinato F-35 “coalizzato” qual è la fonte dei dati che gli vengono girati in volo in data link: il pilota si deve fidare. Punto.
La possibilità di “disseminare nello stesso tempo (“sync up”) il rilascio dei dati di missione fra i nove partner e i tre acquirenti internazionali”, ha chiarito, “è stata una questione politica, non tecnologica”.
Ma le regole di ingaggio con l’ALIS parlano chiaro, e fra le regole ce n’è una inesorabile: la possibilità che hanno i partner di stabilire quali dati della propria flotta mettere a fattor comune attraverso ALIS, può comportare una limitazione del potenziale del sistema d’arma. E questo agli Stati Uniti non sta bene.
Cosa dice Armaereo
Di sicuro c’è che tutto questo è diverso dal modo con cui siamo abituati a impiegare da decenni i nostri Eurofighter, Tornado, AMX, Harrier. Poi, più banalmente ma fino a un certo ponto, c’è anche da capire perché per la generazione e gestione dei dati di missione dell’F-35 siamo stati aggregati a un partner del programma che per geografia, politica (la Norvegia è nella NATO ma non nella UE) e strategie militari, almeno di primo acchito (tolte le famose manovre invernali con le nostre truppe di montagna) non sembra avere granché da spartire col nostro Paese.
Desunte da documenti e dichiarazioni pubbliche (le famose, e a volte così denigrate, “fonti aperte”), tutte queste notizie non danno però un quadro completo del problema “sovranità”.
Analisi Difesa si è rivolta al Segretariato Generale della Difesa (Segredifesa) per capire, primo, che impatto potrà avere sull’operabilità dei nostri F-35 questa organizzazione e gestione pre-infra-post missione fuori dal territorio nazionale; e secondo, se e quando la nostra Difesa potrà operare questi aeroplani svincolandosi dalle infrastrutture e dal controllo statunitensi.
Ecco di seguito la lunga risposta giuntaci direttamente dal Direttore degli Armamenti Aeronautici e per l’Aeronavigabilità (Armaereo), Generale Ispettore Capo Francesco Langella.
“In primo luogo è bene chiarire che la difesa del Paese è integralmente gestita dalle Forze Armate italiane, che possono avvalersi anche del sostegno derivante da vigenti alleanze e trattati internazionali senza che questo comporti condivisioni di dati in eccesso rispetto a quelli strettamente necessari.
Pertanto le decisioni assunte dal Pentagono riguardo questo tipo di attività non hanno implicazioni di sorta, e l’Italia potrà operare i propri F-35 senza alcun controllo da parte di un Paese terzo.
Il Partner Support Complex è una infrastruttura che per alcuni Partner gestirà interamente lo sviluppo dei “Mission Data files”, per altri invece fornirà un supporto iniziale fintanto che il Partner avrà raggiunto il livello di autonomia previsto.
La capacità nazionale di generazione dei “Mission Data files” sarà acquisita entro il 2020 e, nel frattempo, il personale italiano dedicato presso la base di Eglin usufruirà del supporto del Partner Support Complex.
Più in dettaglio, la disponibilità di un laboratorio per la generazione di questi dati per i sistemi d’arma in inventario è, da sempre, un requisito di sovranità nazionale per l’Italia.
In ambito F-35, tale requisito è stato rappresentato e formalizzato nei confronti degli Stati Uniti sin dalle battute iniziali della partecipazione italiana al programma JSF, che come è noto risale al 1998.
La formulazione del suddetto requisito da parte delle nazioni è funzione della propria capacità autonoma di generazione dei “Mission Data files”. Ci sono nazioni come l’Italia che già la possiedono, e altre che si affidano completamente agli Stati Uniti con limitata o nulla visibilità sui contenuti.
Per soddisfare tale requisito, alcune nazioni hanno deciso, sulla base delle proprie esigenze temporali in merito alla acquisizione dei velivoli e alla relativa necessità di produzione dei suddetti “Mission Data files”, di procedere alla realizzazione dei propri laboratori condividendo le spese infrastrutturali (Australia/Canada/Gran Bretagna, e Italia/Norvegia).
I laboratori statunitensi (gli USLR; ndr), che supporteranno anche altre nazioni, quello Italia/Norvegia e quello Australia/Canada/Gran Bretagna, sono progettati, anche al loro interno, per poter generare i dati in modo segregato, tutelando i dati delle singole nazioni.
Al contempo sarà possibile su una base di opportunità, necessità e convenienza delle nazioni stesse, condividere dati, processi di generazione o prodotto finale.
È evidente che le possibili sinergie tra i Partner sono più orientate alla salvaguardia di aspetti programmatici, di cost-sharing o di accordi pregressi, e non dal livello di partecipazione alla fase di sviluppo del programma (…).
Va infatti osservato che Australia, Canada e Gran Bretagna sono storicamente legati da accordi nel campo della gestione delle rispettive informazioni di sicurezza che prescindono dalla specifico programma di riferimento (per esempio l’F-35), e hanno radici nelle relazioni tra i Paesi del Commonwealth.
L’aggregazione dell’Italia con la Norvegia è pertanto apparsa da subito come la più efficace, non tanto per la condivisione dei dati, quanto per le tempistiche di realizzazione delle strutture, di acquisizione dei velivoli, di comunanza nei requisiti di “sovranità nazionale” e di appartenenza all’Unione Europea”.
Autonomia nella “porzione italiana” di una infrastruttura americana
La Norvegia non appartiene all’Unione Europea, ma pazienza. I nostri F-35 genereranno i dati di missione in “aggregazione” con le forze aeree norvegesi.
“Su una base di opportunità” potranno scambiare i propri con gli aerei di altri paesi, fermo restando che i Reprogramming Laboratories genereranno i dati in modo segregato, tutelando i dati delle singole nazioni.
E’ difficile comprendere che cosa avverrà esattamente nel corso di una missione condotta da F-35 di diverse forze aeree, cioè, in soldoni, chi avrà tutti i dati necessari, che ne avrà meno, chi potrà scambiarli e chi no.
L’impressione che Analisi Difesa ha raccolto presso alcuni addetti ai lavori, resta che le diverse aggregazioni dei partner nei due Reprogramming Laboratories sia stata congegnata e attuata in base a discriminazioni di fatto operate da Washington in seno all’Alleanza Atlantica, e solo una volta giunti a un “punto di non ritorno” del programma e del coinvolgimento degli stessi partner.
In una nota successiva, il capo di Armaereo ribadisce comunque come “La capacità nazionale di generazione dei “Mission Data Files” sarà acquisita entro il 2020 (in anticipo rispetto alla prevista data di IOC “Initial Operational Capability” italiana)”, aggiungendo che “la piena autonomia è da intendersi presso la porzione italiana della struttura denominata NIRL (Norway-Italy Reprogramming Lab), che sarà realizzata nella base USAF di Eglin.
All’interno del NIRL lavorerà personale qualificato dell’Aeronautica e della Marina, per soddisfare le esigenze di entrambe le versioni in acquisizione da parte italiana (F-35A e F-35B)”.
Autonomia nella “porzione italiana” di una infrastruttura di fatto statunitense.
Che sta sul suolo americano, dipendendo dall’America per ciò che le occorre per funzionare, e non a casa nostra, compresa fra gli assetti dell’Aeronautica e della Marina, perché le tecnologie alla base della generazione e dell’utilizzo dei dati di missione di questi velivoli, per la legge americana non possono lasciare il suolo nazionale.
E noi dobbiamo sottostare a quella legge. Metà della futura linea da combattimento delle forze aeree italiane, sarà condizionata/regolata sulle basi legali di un altro paese.
Il generale Langella spiega anche perché è stata scelta la Norvegia.
Prescindendo, come egli suggerisce, dal livello che Roma e Oslo occupano nel partenariato del programma, è pur vero che Italia e Gran Bretagna:
a) restano i due operatori stranieri del JSF con le flotte più cospicue;
b) sono i soli due paesi oltre gli USA ad avere una peculiare necessità della versione STOVL;
c) avranno flotte omogenee, vista l’ormai quasi certa acquisizione oltre Manica anche della versione a decollo convenzionale;
d) rappresentano un unicuum nella NATO, essendo entrambi obbligati a massimizzare interoperabilità e sinergie con l’altro loro decisivo assetto aero-tattico, l’Eurofighter – sinergie che poi risulteranno potenzialmente condivisibili.
I punti di contatto fra noi e i Britannici non mancano, e almeno in linea di principio – al netto dei futuri orientamenti dei loro rinnovati vertici politici – si tratta di argomenti robusti.
Gli F-35 STOVL dei due paesi saranno verosimilmente destinati a teatri operativi geo-strategicamente contigui e analoghi (caso degli STOVL dell’Aeronautica Militare a parte) per tipo di piattaforma e apparato logistico infrastrutturale impiegato: le portaerei.
Una “complicità” operativa più tangibile con la Gran Bretagna avrebbe forse comportato a livello generale anche qualche vantaggio indiretto in più, visto che in quanto “socio” più grande del JSF, essa ha le migliori prospettive di sovranità sul sistema d’arma.
Londra si prepara a costruire importanti infrastrutture per l’addestramento, il supporto logistico e la manutenzione – comprese le installazioni che servono al ripristino della speciale verniciatura stealth – per i suoi previsti 138 F-35.
Tutte opere che serviranno anche al supporto dei 50-60 JSF della versione a decollo convenzionale che l’US Air Force schiererà dal 2022 sulla base aerea della RAF di Lakenheath.
I Britannici poi otterranno la sede dello Hub per le operazioni di modifica, riparazione e aggiornamento sull’avionica delle flotte europee di F-35, mentre Cameri si accontenterà di svolgere quelle stesse operazioni solo sulla struttura dei velivoli.
Ma tant’è: dipendere da un partner forte come la Gran Bretagna anche per la manutenzione di tutta l’elettronica di questo aereo-computer potrebbe avere i suoi vantaggi (poi, volendo ribaltare il discorso di 180 gradi, bisognerebbe anche chiedersi quali effetti negativi avrebbe su di noi questa dipendenza da oltre Manica sul fronte della sovranità tanto militare quanto industriale).
E se il JPO venisse chiuso?
Tornando ai Reprogramming Laboratories, c’è poi un problema di tempi. Secondo l’ultimo rapporto del Director of Operational Test & Evaluation del Pentagono (non più freschissimo, è vero), questi laboratori non saranno pronti prima del 2019, ossia dopo la prevista fase di valutazione operativa iniziale dell’aereo con la release (almeno per ora) definitiva del software, la Block 3F. Prima di allora, suggerisce il DOT&E, non sarà materialmente possibile impiegare l’F-35 in teatri operativi caratterizzati da minacce importanti (metti caso i sistemi contraerei russi S-300/400).
Ma l’Air Force, o il Pentagono, che poi è lo stesso, mordono il freno: nel giro di un anno, s’è saputo all’Air Tattoo, potrebbero “mostrare” al mondo in Medio Oriente F-35A freschi di Initial Operational Capability, però con ancora circa il 15 % delle prestazioni inibite da un software non definitivo, la necessità di ricevere dal costruttore decine di kit di modifica per rendere effettiva la IOC (è successo agli STOVL dei Marines), il Laboratory per i loro MDF ancora di là da venire, la valutazione operativa iniziale ancora da iniziare, e dulcis in fundo, lo stesso programma di sviluppo ancora da terminare.
In teoria, per i partner la dipendenza dalla disponibilità e dal controllo infrastrutturale statunitense potrebbe poi complicarsi ulteriormente se, come ha chiesto di recente la potente Commissione Difesa del Senato americano, l’attuale ufficio governativo che vi sovraintende facendo da tramite fra i vari governi del partenariato (il JPO, dal costo annuale di oltre 70 milioni di dollari), dovesse essere smantellato spalmandone responsabilità, competenze e gestione dei rapporti inter-governativi in due diversi uffici sotto il diretto comando dell’US Air Force e della US Navy – uffici separati in ragione della considerevole diversità fra la versione terrestre e le due navali del JSF (strada facendo la tanto pubblicizzata “commonality” s’è drasticamente ridotta).
Andrebbe così riscritta la Normativa tecnica di raccordo con quella americana della nostra Direzione Armamenti Aeronautici e per l’Aeronavigabilità, che al paragrafo 2.2 dice testualmente che “la DAAA riconosce il JPO quale autorità governativa che emette e/o approva manuali, prescrizioni tecniche, istruzioni etc. applicabili al sistema d’arma F-35”.
Per l’Italia come per tutti gli altri 11 clienti stranieri del JSF, significherebbe dover intrattenere rapporti non più con un Governo, ma direttamente con le sue forze armate, sotto il cui controllo, alla fine, ricadrebbe l’intero prosieguo del programma. Con effetti pratici sulla questione della generazione dei Data Mission Files degli F-35 tutti da capire.
Sotto-sovranità militare, ma anche industriale
Abbiamo accennato agli F-35 STOVL dell’Aeronautica. La nuova (terza) pianificazione del procurement contemplata dall’ultimo “Documento Programmatico Pluriennale 2016-2019”, conferma l’intenzione dell’Arma Azzurra di acquistare 15 esemplari di questa versione.
Fra le misure che dovrebbero se non dimezzare l’investimento complessivo nel programma – che la conferma dei 90 esemplari renderà irrealizzabile – almeno politicamente “ridurlo di un po’ ”, sembrava ci fosse anche il concentramento su un’unica base dei 30 F-35 STOVL di Aeronautica e Marina.
L’Aeronautica insiste per la sua di Amendola, dove intanto a fine anno dovrebbe atterrare il primo F-35 a decollo convenzionale coi colori del 13° Gruppo del locale 32° Stormo.
Ma gli ammiragli nel loro sito Web scrivono ancora che “su disposizione dell’Autorità Politica, alla Marina Militare saranno destinati 15 F-35B che, dislocati presso MARISTAER Grottaglie (attuale sede del GRUPAER), condivideranno il sedime aeroportuale con altrettanti JSF STOVL destinati all’Aeronautica”.
Notizie recenti danno invece Amendola come l’unica “casa” di tutti gli STOVL italiani.
Da noi interpellata a metà luglio, la Marina Militare conferma che “a oggi, l’ipotesi di accentramento dei velivoli F-35B italiani presso la base di Grottaglie è ancora una delle opzioni all’attenzione delle superiori autorità”.
La sorda guerra fra le due Forze Armate insomma continua, con due risultati poco edificanti: il primo, si sono già spesi centinaia di milioni di euro per i lavori necessari ad attrezzare le due basi, soldi che in parte verranno buttati dalla finestra quando finalmente qualcuno deciderà su quale delle due saranno dislocati 30 aerei da combattimento del tutto speciali come gli F-35B, che richiedono infrastrutture diverse/aggiuntive rispetto agli F-35A convenzionali; il secondo, contrariamente a quanto hanno fatto altri partner, in nessuna delle due basi italiane che riceveranno per prime i JSF si sono ancora svolti i test sul rumore di questi aerei, per stabilire quale impatto produrranno (anche) sulle urbanizzazioni civili circostanti.
Rinunciare a una delle basi di F-35B, abbiamo detto, non darebbe un contributo così sostanziale al quel “dimezzamento”, che come abbiamo scritto fino alla noia, si riferisce all’ipotesi iniziale di 131 aerei.
Diverso sarebbe rinunciare a una quota consistente della flotta ridimensionata da Di Paola a 90 esemplari, ma così non sarà. Il loro acquisto avverrà per fasi successive (quest’anno ne acquisteremo 4 – dovevano essere 6 – e ci impegneremo per altri 8 cominciando a ordinare e pagare i relativi Long-Lead Items; dopo i primi 8 aerei, avremo così preso impegni contrattuali per altri 12), cercando di spendere meno nella prima fase del procurement.
Ma anche questa è una bella storiella: meno aerei compro nell’unità di tempo, meno “sconti” mi farà il produttore e meno economie di scala potrò conseguire. E – dulcis in fundo – meno sovranità conquisterà da parte sua pure l’industria.
La FACO di Cameri ha già rallentato i suoi ratei, tanto negli assemblaggi degli aerei quanto nella costruzione delle ali.
Di queste finora sono stati prodotti dieci assiemi completi, con un rateo annuale lontanissimo da quello per cui sono stati dimensionati gli impianti.
Il rallentamento non facilita certo l’ottimizzazione dei costi industriali di Leonardo (con i primi problemi di occupazione nella ex-fabbrica Alenia di Foggia che fornisce vari componenti alari).
La sovranità industriale resta anch’essa una chimera se solo si pensa che per correggere difetti riscontrati in sede di controllo di qualità sulle ali assemblate dai tecnici italiani (alcuni dei quali non sono assunti direttamente ma hanno ancora contratti interinali), per esempio un foro troppo largo – succede spessissimo in qualsiasi lavorazione, a volte (come è stato a Grottaglie per il Boeing 787) anche per colpa di disegni originali sbagliati – Leonardo deve ogni volta corrispondere agli americani per contratto un certo quid. E si tratta, ogni volta, di qualche migliaio di dollari.
Foto: Lockheed Martin, Aeronautica Militare e Us DoD
Silvio Lora LamiaVedi tutti gli articoli
Nato a Mlano nel 1951, è giornalista professionista dal 1986. Dal 1973 al 1982 ha curato presso la Fabbri Editori la redazione di opere enciclopediche a carattere storico-militare (Storia dell'Aviazione, Storia della Marina, Stororia dei mezzi corazzati, La Seconda Guerra Mondiale di Enzo Biagi). Varie collaborazioni con riviste specializzate. Dal 1983 al 2010 ha lavorato al mensile Volare, che ha anche diretto per qualche tempo. Pubblicati "Monografie Aeree, Aermacchi MB.326" (Intergest) e con altri autori "Il respiro del cielo" (Aero Club d'Italia). Continua a occuparsi di Aviazione e Difesa.