DIFESA EUROPEA: L’EGEMONIA FRANCO-TEDESCA EMARGINA L’ITALIA

Il modello di difesa europea emerso dal vertice informale dei ministri a Bratislava appare troppo timido per essere incisivo ma al tempo stesso costituisce probabilmente il massimo che questa Europa allo sbando potesse esprimere.

Nessuno parla più di costituire forze armate congiunte perché nessuno è pronto a cedere ulteriori quote di sovranità, né di un’Europa della difesa alternativa o in qualche misura autonoma dalla Nato.
La consuetudine “politicamente corretta” del carrozzone europeo vuole che al termine di ogni summit tutti si dicano sodisfatti: Matteo Renzi non lo fece, al summit dei capi di governo, sempre a Bratislava, scatenando dure reazioni da Francia e Germania.

L’obiettivo è sempre quello di mostrare molto fumo per evitare che si noti troppo l’assenza di arrosto con eccessi al limite dal ridicolo come quando al vertice di Ventotene Merkel, Hollande e Renzi tennero la conferenza stampa prima di essersi incontrati a discutere dei temi in agenda.

‘L’Alto rappresentante per la politica estera europea, Federica Mogherini si è infatti detta “molto soddisfatta” per i risultati del vertice riferendo di “proposte molto concrete e costruttive sulla difesa dell’Ue” da mettere a punto in vista del Consiglio europeo del 15-16 dicembre.  Le proposte verranno articolate in tre pilastri che dovranno “procedere in parallelo”.

Una strategia globale?

Il primo punto riguarda il piano di attuazione della “strategia globale” in materia di difesa e sicurezza, presentata lo scorso 29 giugno, all’indomani del referendum sulla Brexit.

Il termine “strategia globale” fa sorridere se abbinato al un’Unione incapace persino di difendere le sue frontiere da gommoni e barconi di immigrati clandestini gestiti da trafficanti criminali, Inoltre è difficile mettere d’accordo 27 Paesi che hanno interessi spesso contrapposti, visioni e priorità diverse, in molti casi opposte su ogni dossier “caldo”.

Dal Medio Oriente ai rapporti con Mosca, dalla lotta al terrorismo al contrasto all’immigrazione illegale passando attraverso una necessaria emancipazione militare da Washington, alleato col quale condividiamo ormai ben pochi interessi comuni ma che per alcuni partner dell’est Europa rimane il partner militare di riferimento.

Il segretario generale della Nato, Jens Stoltenberg, ha plaudito alla difesa europea a patto che “sia complementare” con la Nato, che di fatto significa mantenere l’Europa dipendente dagli Usa sul piano strategico.

Il Regno Unito, anche al di fuori dell’Ue, rimane contrario “a qualsiasi idea di forze armate europee” perché la Nato deve rimanere “la pietra angolare della difesa dell’Europa e continueremo ad opporci a ogni idea di un esercito europeo o di un quartier generale per un esercito europeo, che semplicemente minerebbe la Nato” ha dichiarato il ministro britannico della Difesa, Michael Fallon.

Una posizione non certo nuova ma oggi ancor più comprensibile: Londra è fuori dalla Ue e non ha interesse al suo potenziamento mentre nella Nato è “l’azionista” numero 2 dopo gli Stati Uniti.

Del resto, ha aggiunto Fallon (nella foto a sinistra), “non c’è la maggioranza per creare forze armate europee e un certo numero di Paesi, come noi, non vogliono eliminare la sovranità dei singoli Stati nazionali”.

Il comparto industriale

Il secondo pilastro indicato dalla Mogherini mira a rilanciare il comparto industriale militare europeo, con particolare riguardo a ricerca e tecnologia nel settore che rappresenta l’unico campo in cui l’Europa ha fatto ampi progressi nel settore della difesa con aziende multinazionali e consorzi che competono oggi sui mercati globali con i russi e le grandi società statunitensi.

Anche in questo settore è meglio evitare i facili entusiasmi poiché l’integrazione industriale si farà probabilmente per accorpamenti e acquisizioni che vedranno favoriti i Paesi che più spendono per la Difesa e che dispongono dell’industria più ricca e sviluppata.

Inutile dire che, con l’uscita della Gran Bretagna (principale potenza militare del Vecchio Continente a cui l’Italia è legata anche in ambito industriale attraverso Leonardo-Finmeccanica) la leadership che si va configurando è quella franco-tedesca con l’Italia penalizzata non solo dagli atteggiamenti elitari di Berlino e Parigi ma anche dalla fragilità di suo sistema-difesa.

Siamo l’unico Stato dell’Unione che continua a tagliare i bilanci delle forze armate e la debolezza delle commesse interne sul lungo periodo rischia di renderci più esposti anche sul fronte industriale.

Il terzo pilastro riguarda l’intensificazione della cooperazione tra Ue e Nato approvata lo scorso luglio al summit dell’Alleanza Atlantica a Varsavia e che dovrebbe svilupparsi nei settore della sicurezza marittima, dell’immigrazione, cyber security e interoperabilità militare.

Temi sui quali l’Europa tentenna: non ha mai assunto una sola iniziativa militare o di sicurezza concreta per contrastare l’immigrazione illegale e negli altri settori citati non presenta solidi programmi e politiche unitarie ma tante e diverse iniziative nazionali.

Cooperazione, integrazione o assimilazione?

Il tema della cyber security inoltre riguarda la protezione di infrastrutture e dati vitali per la sicurezza nazionale, da difendere dai “nemici” ma anche da tanti “amici e alleati” che più di una volta (dalla guerra in Libia nel 2011 al “Datagate” fino all’emergenza immigrazione) si sono rivelati concorrenti spietati quanto sleali.

Meglio non illudersi: la Ue non è una federazione di Stati, obiettivo non certo ipotizzabile in un momento in cui è più facile immaginare lo sfaldamento dell’Unione o ulteriori “exit” dopo quella britannica.

Le speranze nutrite dal governo italiano di guidare insieme ai franco-tedeschi il processo di integrazione militare è durato solo poche ore poiché, dopo il vertice di Ventotene a bordo ella portaerei Garibaldi, Berlino a Parigi sono andati avanti da soli (pur percorrendo una strada simile a quella indicata dall’Italia) presentando progetti che hanno più l’obiettivo di “assimilare” gli strumenti militari dei partner europei più che di integrarli.

Nel Libro Bianco reso noto a luglio, non a caso subito dopo il Brexit, Berlino ha annunciato la volontà di assumere la leadership militare della Ue, un incremento delle spese per la difesa e l’arruolamento di cittadini di tutti i Paesi dell’Unione: considerando retribuzioni e benefit offerti, la Germania assorbirà così i migliori giovani europei interessati al mestiere delle armi.

I ministri Jean-Yves Le Drian e Ursula von der Leyen hanno infatti rinnovato a Bratislava l’asse franco-tedesco per “rafforzare le capacità di azione sui teatri di operazione” ha detto il francese e per “integrare meglio i punti di forza degli Stati europei in modo da poter agire più velocemente” ha aggiunto il ministro tedesco.

Roma emarginata

Cooperazione rafforzata, rivitalizzazione dei battlegroup europei nati nel 2007 ma mai istituiti, l’attivazione di un Quartier Generale europeo, di comandi Ue per le singole operazioni in atto, di coordinamento logistico nel campo del trasporto strategico e l’attuazione del meccanismo per il finanziamento comunitario delle missioni targate Ue sono gli obiettivi prioritari dell’asse Parigi-Berlino.

Di fatto si tratta di punti molto simili a quelli del programma italiano presentati dal ministro Roberta Pinotti, del tutto ignorato da francesi e tedeschi.

Il documento italiano propone la definizione di una strategia per la difesa; la revisione del concetto di battlegroup, l’unificazione della pianificazione strategica delle missioni europee, la creazione con gli Stati che lo desiderano di una European Multinational Force , sostenere la produzione industriale militare con incentivi fiscali e finanziari per i progetti di cooperazione militare con esenzione dall’Iva e sostegno della Banca europea degli investimenti.

La ragione dell’indifferenza è evidente: evitare di includere nel “direttorio” il terzo incomodo italiano poiché in tutti campi citati la leadership franco-tedesca è assicurata dal peso delle forze armate e dei bilanci della difesa delle due potenze continentali.

D’altra parte se Berlino e Parigi (dopo il Brexit rimasta l’unica potenza nucleare dell’Unione) vedono la Ue come un’occasione per ampliare le propria area d’influenza incrementando spese e capacità militari, a Roma è sempre stata in voga una visione opposta che vede la difesa europea considerata, fin dai tempi del governo Berlusconi, una soluzione per ridurre le spese militari.

Unione o Grossdeutscheland?

Un atteggiamento spiegabile con gli imbarazzi e la ritrosia che hanno quasi sempre caratterizzato la politica estera e le iniziative militari italiane, emerso anche due settimane or sono con l’annuncio alle commissioni parlamentari dell’operazione Ippocrate in Libia, alla quale i ministri Pinotti e Gentiloni hanno invitato anche i partner Ue ad aderire.

Non ci è bastata la guerra del 2011 a farci capire che dovremmo perseguire iniziative politiche e militari strettamente nazionali, soprattutto in Libia?

A Bratislava il ministro Pinotti ha evidenziato il problema del “meccanismo di finanziamento” che vede l’addestramento della Marina libica che verrà effettuato (ma Tripoli non ha indicato il personale da addestrare) dall’operazione navale Ue Eunvafor Med ricadere “completamente sulle spalle, dal punto di vista finanziario, del paese che farà l’addestramento, quindi dell’Italia”.

Retorica europeista a parte, la difesa comune è solo uno strumento attraverso il quale ogni Stato persegue i suoi interessi nazionali. Meglio allora accettare che Libia e immigrazione sono problemi nostri che dobbiamo risolvere da soli.

I partner non intendono farsi coinvolgere, né a metterci troppo denaro ma hanno interesse ad indebolirci: infatti si limitano a inviare qualche nave ad aiutare a sbarcare migranti illegali in Sicilia e a sigillare le frontiere con l’Italia.

Il fastidioso atteggiamento elitario  di Francia e Germania rischia in prospettiva di far saltare il progetto europeo (il cui tasso di credibilità è ormai a zero tra i cittadini dell’Unione) o di ridurre la Ue a una sorta di “Grossedeutscheland”, concetto che nel XIX ecolo alludeva all’unificazione degli Stati tedeschi e che oggi potrebbe venire aggiornato per indicare una “assimilazione” a Berlino degli Stati europei.

In attesa di valutare eventuali modifiche dell’assetto nazionale in Europa, che dopo il Brexit potrebbero venire considerate opzioni concrete e non più “salti nel buio”, varrebbe la pena, almeno nel campo della difesa, dimostrare la piena capacità e determinazione dell’Italia di assolvere ai compiti che investono la sicurezza nazionale.

Risposte immediate sui fronti del contrasto al terrorismo ed estremismo islamico e dell’immigrazione illegale (con espulsioni, respingimenti assistiti e accordi diretti con Stati africani) sono alla portata dell’Italia così come una politica di rinnovo e potenziamento degli apparati militari che sostenga l’industria nazionale e il suo export con irrobustite commesse interne.

Ora che il governo italiano ha aperto la crisi con Bruxelles su temi fondamentali, 0occorre avere il coraggio politico di far balenare anche il rischio di “exit” dell’Italia per rimuovere i limiti imposti in termini di debito e spesa pubblica che hanno creato la crisi che ci attanaglia da otto anni, che altri partner impunemente non rispettano e che costituiscono lo strumento per “germanizzare” l’intero Sud Europa.

Come sosteniamo da tempo su queste pagine l’Italia deve essere in grado di cavarsela di sola, almeno nelle crisi in atto nel Mediterraneo, nel “cortile di casa” anche perché non saranno certo battlegroup targati Ue posti sotto un comando operativo e un quartier generale a guida franco-tedesca a tutelare gli interessi dell’Italia.

Federica Mogherini ha fatto riferimento a Bratislava al livello d’ambizione militare che la Ue vorrà attribuirsi. Meglio pensare anche a quello che l’Italia deve assolutamente darsi per difendere gli interessi nazionali. Anche e forse soprattutto dai partner della Ue.

@GianandreaGaian

Foto: Ansa, Marina Militare, Difesa.it, Reuters e DPA

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Giornalista bolognese, laureato in Storia Contemporanea, dal 1988 si occupa di analisi storico-strategiche, studio dei conflitti e reportage dai teatri di guerra. Dal 1991 al 2014 ha seguito sul campo i conflitti nei Balcani, Somalia, Iraq, Afghanistan, Sahara Occidentale, Mozambico e Sahel. Dal febbraio 2000 dirige Analisi Difesa. Ha collaborato o collabora con quotidiani e settimanali, università e istituti di formazione militari ed è opinionista per reti TV e radiofoniche. Ha scritto diversi libri tra cui "Iraq Afghanistan, guerre di pace italiane", “Immigrazione, la grande farsa umanitaria” e "L'ultima guerra contro l’Europa". Presso il Ministero dell’Interno ha ricoperto dal 2018 l’incarico di Consigliere per le politiche di sicurezza di due ministri e un sottosegretario.

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