GLI OBIETTIVI DEL CALIFFATO ALLA DIGA DI MOSUL

da IlSole24Ore.Com dell’8 settembre 2016

Fonti d’intelligence hanno rivelato ieri la minaccia di un attacco su vasta scala delle forze dello Stato Islamico contro la Diga di Mosul presidiata anche da truppe italiane.

Voci riportate con molti dettagli dal sito specializzato Wikilao che non hanno registrato nessuna smentita da Roma e sono state indirettamente confermate da fonti militari italiane sentite dall’agenzia Adnkronos.
“Warning del genere, in operazioni di questo tipo, sono di routine.

Gli allarmi sono quotidiani, la cosa importante è che i servizi della Coalizione siano pronti ad intervenire. Non si sottovalutano i rischi e tutte le misure di prevenzione sono operative” hanno commentato le fonti.

Dai dati emersi il Califfato conterebbe di impiegare 200 dei suoi migliori combattenti stranieri, tunisini, “europei” e soprattutto caucasici prelevati dal fronte di Raqqah, in Siria, per effettuare un blitz suicida come dimostra il nome con cui sarebbe stata battezzata l’operazione: “Conquista della morte”.

Nonostante la qualità dei combattenti dell’Isis la diga di Mosul è difesa da almeno 5/600 militari tra bersaglieri del 6°reggimento e peshmerga curdi.

Utilizzando gli uomini-bomba ceceni e l’effetto sorpresa gli attaccanti potrebbero costituire una breccia nel perimetro difensivo esterno ma poi si troverebbero di fronte forze soverchianti rapidamente rafforzabili da Erbil dove gli elicotteri italiani da attacco Mangusta e da trasporto NH-90 dei reggimenti 5° e 7° dell’Aviazione dell’Esercito potrebbero garantire un temibile supporto di fuoco e trasferire rapidamente nuove truppe incluso un plotone di fanti aeromobili del 66° reggimento “Trieste”.

Perché il Califfato mobiliterebbe le sue “forze d’élite” per una missione senza speranze? Specie tenendo conti che in tutte le battaglie l’Isis ha sempre sottratto abilmente le sue forze all’assedio nemico risparmiandole per futuri combattimenti.

Difficile credere che l’Isis voglia distruggere la Diga di Mosul. Ammesso che ne abbia i mezzi va ricordato che il Califfato ha controllato per alcuni mesi, nell’estate del 2014, la grande infrastruttura ma non l’ha mai danneggiata così come non ha mai arrecato danni alle altre dighe sotto il suo controllo.

 

Da più parti, soprattutto a Washington, si sottolinea la precarietà strutturale della diga evidenziando che il suo crollo provocherebbe alluvioni fino a Baghdad colpendo tra 600 mila e un milione di persone.

Quasi tutti sunniti però, cioè appartenenti a quella parte della popolazione irachena su cui si basa il consenso di cui ancora gode il Califfato, in contrapposizione al governo scita di Baghdad.

Probabilmente il pianificato attacco alla diga ha quindi l’obiettivo di dimostrare, con un’azione eclatante, che nonostante le sconfitte subite il Califfato è ancora in grado di colpire duro, soprattutto sul fronte di Mosul dove è considerata imminente una grande offensiva irachena tesa a riconquistare la città.

A rendere improvvisamente appetibile un obiettivo finora ignorato dai jihadisti potrebbe essere proprio la presenza dei 500 bersaglieri italiani schierati laggiù ufficialmente per proteggere i tecnici e il cantiere della ditta Trevi che sta per iniziare i lavori di consolidamento della diga.

In realtà per la decisione di Roma di inviare le truppe è legata alle pressanti richieste di Washington per un maggiore coinvolgimento italiano nella guerra al Califfato.

Colpire militari “infedeli” è un obiettivo prioritario per lo Stato Islamico (anche in termini propagandistici) e, se si escludono piccoli team di forze speciali assegnate ai battaglioni iracheni, non ci sono militari della Coalizione più vicini dei bersaglieri italiani alla linea del fronte.

La diga si trova infatti ad appena una decina di chilometri dalle postazioni dell’Isis a nord di Mosul, a tiro quindi dei loro obici e lanciarazzi campali.

I rischi di un attacco su vasta scala confermano quindi tutte le riserve già emerse nel dicembre scorso, quando venne annunciata la missione della Task Force Praesidium.

Schierare un battaglione di fanteria in una postazione fissa a tiro delle artiglierie nemiche e a ridosso della prima linea non è mai sembrata una buona idea soprattutto e la missione non riveste alcun valore militare.

Le truppe italiane non hanno compiti offensivi e, presumibilmente, non prenderanno parte all’offensiva su Mosul.

La diga è già presidiata efficacemente dai curdi e il personale della Trevi potrebbe avvalersi di security contractors, come accade per tutte le società che hanno attività in Paesi a rischio.

Anche in termini finanziari l’operazione della Task Force Praesidium risulta poco convincente. Il contratto alla Trevi è di 300 milioni di dollari (invece dei 2 miliardi annunciati da Matteo Renzi), più o meno quanto costerà alle casse italiane sostenere per un anno e mezzo la protezione militare della diga.

Foto: Isaf RCW Aviation Battallon, KTCC, Difesa.it e Reuters

Gianandrea GaianiVedi tutti gli articoli

Giornalista bolognese, laureato in Storia Contemporanea, dal 1988 si occupa di analisi storico-strategiche, studio dei conflitti e reportage dai teatri di guerra. Dal 1991 al 2014 ha seguito sul campo i conflitti nei Balcani, Somalia, Iraq, Afghanistan, Sahara Occidentale, Mozambico e Sahel. Dal febbraio 2000 dirige Analisi Difesa. Ha collaborato o collabora con quotidiani e settimanali, università e istituti di formazione militari ed è opinionista per reti TV e radiofoniche. Ha scritto diversi libri tra cui "Iraq Afghanistan, guerre di pace italiane", “Immigrazione, la grande farsa umanitaria” e "L'ultima guerra contro l’Europa". Presso il Ministero dell’Interno ha ricoperto dal 2018 l’incarico di Consigliere per le politiche di sicurezza di due ministri e un sottosegretario.

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