NE UCCIDE PIÙ IL BUONISMO CHE LE TRAVERSATE SUI BARCONI

 

da Il Giiornale del 3 settembre 2016

Venti morti contro 3.151. L’ipocrisia sull’accoglienza e sul soccorso ai migranti, a un anno dalla pubblicazione della foto del piccolo Aylan che sconvolse il mondo, è tutta in questi due numeri.

Due numeri che non riguardano l’Egeo ma il nostro Canale di Sicilia. Venti sono i migranti morti in quel tratto di mare nel 2010, l’anno in cui – dopo gli accordi tra Muhammar Gheddafi e Berlusconi – la politica dei respingimenti viene applicata a pieno regime. 3mila 151 sono invece i corpi inghiottiti fino all’agosto di quest’anno.

Una strage avvenuta nonostante nel Mediterraneo operino tre imbarcazioni dell’operazione Triton gestita da Frontex, cinque navi militari della missione navale europea Eunav For Med Sophia, fino a cinque unita della missione militare (che però avvista e, al caso, salva i naufraghi) «Mare Sicuro» e le imbarcazioni gestite da organizzazioni umanitarie come Msf.

Ma quella vera e propria flotta, a cui s’aggiungono le imbarcazioni della Guardia Costiera, genera esattamente l’effetto contrario.

Per capirlo basta il bilancio degli ultimi anni. Nel 2013 quando non esiste, fino a novembre, alcuna missione organizzata i morti sono 644. Ben 366 di questi però perdono la vita nel singolo incidente di Lampedusa del 3 ottobre 2013.

Il varo della Missione Mare Nostrum decretato dal governo Letta dopo quella strage è l’origine di tutti i mali.

E del sempre crescente numero di vittime. Nel 2014 mentre il governo Renzi eredita Mare Nostrum le morti in mare toccano quota 1.304.

Da allora le cifre dell’ecatombe aumentano proporzionalmente al numero delle unità di soccorso.

Nel 2015, mentre Msf e altre organizzazioni umanitarie, affiancano navi ed equipaggi alle missioni Triton ed Eunav For Med gli scomparsi in mare diventano 3.106.

E potrebbero superare quota 4mila da qui alla fine del 2016.A questo punto varrebbe, forse, la pena d’interrogarsi sull’efficacia di queste missioni. Missioni che invece di ridurre le perdite umane le moltiplicano.

Il perché lo spiegò a Il Giornale – subito dopo la messa a regime di Mare Nostrum – un funzionario del Viminale impegnato da anni a contrastare le attività dei trafficanti di uomini in Libia.

Durante una conversazione riservata definì Mare Nostrum un’autentica missione calamita e la classificò come un pericolosissimo incentivo all’immigrazione irregolare.

Secondo il funzionario le organizzazioni criminali avrebbero sfruttato la presenza delle navi italiane per infondere maggior sicurezza nelle loro prede, garantire arrivi a destinazione privi di rischi e per aumentare i prezzi.

La parte più profetica era, però, quella in cui prefigurava future ecatombi causate dal rapporto inversamente proporzionale tra il crescente numero di migranti e le imbarcazioni adeguate a traghettarli.

Oggi quella profezia è sotto gli occhi di tutti. Molti degli oltre centomila migranti approdati quest’anno da Nigeria, Pakistan, Gambia, Mali e Senegal, non hanno trovato ad attenderli i panciuti barconi da pesca di un tempo, ma esili gommoncini, lunghi talvolta meno di sette metri, senza alcun scafista al timone e nessuna speranza di toccar terra.

L’unica speranza di quei disgraziati è infatti l’efficienza delle missioni navali in attesa davanti alle coste.

Ma anche la missione più efficiente e gli equipaggi più generosi non possono garantire la certezza del soccorso se, com’è succede in questi giorni, le organizzazioni criminali gettano letteralmente a mare oltre 13mila disgraziati in meno di 96 ore.

Tredicimila disgraziati che probabilmente non avrebbero mai lasciato il loro paese d’origine se la presenza di quelle tre missioni coadiuvate da decine di altre navi non avesse contribuito ad instillare la falsa illusione di una breve sofferenza in mare cancellata dall’immediato arrivo dei soccorsi.

Ed allora di fronte a questa nefasta illusione costata solo quest’anno oltre tremila morti vien da chiedersi se non fossero meglio i respingimenti.

Saranno stati cattivi, impietosi e politicamente scorretti. Ma evitavano un disumano scialo di vite.

Foto Marina Militare Italiana

 

Gian MicalessinVedi tutti gli articoli

Nato a Trieste nel 1960, è uno dei più noti e apprezzati reporter di guerra italiani. Dal 1983 ha seguito sul campo decine di conflitti inclusi i più recenti in Afghanistan, Iraq, Libia, Siria e Ucraina. Reporter e opinionista per Il Giornale e il sito Gli Occhi della Guerra, nella sua carriera ha collaborato con Corriere della Sera, Repubblica, Panorama, Libération, Der Spiegel, El Mundo, L'Express e Far Eastern Economic Review oltre che con le emittenti televisive CBS, NBC, Channel 4, TF1, France 2, NDR, TSI, RaiNews24, RaiUno, Rai 2, Canale 5 e LA7. Per il suo lavoro di reporter di guerra ha ricevuto il Premio Antonio Russo (2003), il Premio giornalistico Cesco Tomaselli (2007) e il Premio Ilaria Alpi (2011).

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