L’Egitto si schiera in armi con Assad?
L’Egitto ha smentito la presenza di proprie forze militari in Siria, riportata dalla stampa libanese il 24 novembre dopo che il presidente egiziano Abdel Fattah al Sisi aveva espresso il proprio sostegno alle forze armate siriane. “Queste illazioni esistono solo nell’immaginazione di coloro che le veicolano” ha precisato un portavoce del ministero degli Esteri. Il quotidiano libanese As Safir aveva affermato nella sua edizione di giovedì che una unità di 18 piloti dell’esercito egiziano si trovava in una base militare di Hama, nel centro della Siria mentre l’emittente al-Masdar riferisce anche dell’arrivo, il 23 novembre, di alcuni cacciabombardieri egiziani ad Hama.
Lo stesso giorno il presidente egiziano aveva espresso il proprio sostegno alle forze armate siriane smarcandosi così in modo eclatante da Arabia Saudita ed Emirati del Golfo Persico che finanziando Il Cairo ma sostengono invece i ribelli che combattono il governo di Bashar al Assad.
In un’intervista all’emittente portoghese RTP, alla domanda se il Cairo manderebbe forze di pace in Siria, al-Sisi ha affermato che “è preferibile siano gli eserciti nazionali ad assumersi la responsabilità di garantire sicurezza e stabilità. La nostra priorità è sostenere gli eserciti nazionali, per esempio in Libia per garantire il controllo dei territori libici e affrontare gli estremisti. Lo stesso vale per Siria e Iraq”.
A questa affermazione, il giornalista ha chiesto se per appoggio alla Siria si intenda appoggio all’esercito del regime. “Sì”, ha risposto in modo secco al-Sisi.
Non è la prima volta che al-Sisi si esprime a sostegno di Bashar Assad e la smentita del Cairo, giunta solo tre giorni dopo le rivelazioni del giornale libanese, potrebbero avere a che fare con le difficili relazioni tra l’Egitto e l’Arabia Saudita.
Il governo egiziano ha ricevuto molti miliardi di dollari di aiuti da Riad e dagli Emirati Arabi Uniti anche per finanziare l’acquisto di ingenti quantità di armamenti ma di recente i rapporti tra i due Paesi si sono raffreddati per disaccordi proprio riguardo la questione siriana. Lo scorso ottobre l’Arabia saudita ha sospeso le forniture di greggio dopo che il Cairo ha appoggiato una risoluzione sulla Siria redatta dalla Russia al Consiglio di sicurezza dell’Onu. Nell’intervista al-Sisi ha aggiunto che “la nostra posizione è rispettare la volontà del popolo siriano”, perseguendo “una soluzione politica della crisi siriana” e “affrontando in modo serio i gruppi terroristici, disarmandoli”.
Secondo il report di Assafir l’arrivo dei piloti egiziani si aggiunge a quello di quattro alti ufficiali del Cairo a Damasco e di altri due generali, che nelle scorse settimane si sarebbero recati insieme alle truppe siriane per un monitoraggio sulle linee del fronte a Quneitra, nel Golan e a Ezraa, vicino a Daraa, dove avrebbero partecipato anche ad un briefing al quinto battaglione meccanizzato siriano, di stanza proprio nella città al confine con la Giordania. Assafir riferisce che circa un mese fa Ali Mamlouk, uomo di fiducia di Bashar Al Asad, suo consigliere, e capo dell’ufficio per la sicurezza del partito Baath, si è recato al Cairo per incontrare Khaled Fawzi, direttore della Mukhabarat (il principale servizio segreto dell’Egitto), il quale gli avrebbe promesso l’invio di truppe a supporto dell’esercito siriano.
Secondo fonti anonime citate da Assafir, il 23 dicembre, dopo un mese di familiarizzazione con il teatro operativo, dovrebbe prendere il via la partecipazione egiziana al conflitto in Siria con un corpo di spedizione che potrebbe non essere limitato a piloti per gli elicotteri Mi-8 e Mi-17 ma estendersi all’impiego di forze aeree e forse unità di forze speciali come preludio a un più massiccio intervento anche terrestre tutto da valutare.
L’intervento diretto delle truppe egiziane nel conflitto siriano confermerebbe la stretta intesa politica e militare avviata tra Il Cairo, Mosca e Damasco ma potrebbe incrinare la posizioni della Lega Araba, organizzazione finora composta nel condannare il regime di Bashar Assad e in cui l’Egitto ha un peso considerevole.
In termini militari le truppe di al-Sisi in Siria avrebbero l’opportunità di maturare un‘importante esperienza nelle operazioni contro insurrezionali in cui le truppe siriane sono diventate maestre dopo cinque anni di guerra.
La collocazione anche militare del Cairo al fianco di Damasco ha del resto una precisa ragione strategica.
Gli egiziani combattono da tempo contro la branca dell’Isis (Ansar Bait al-Maqdis (i “Partigiani della Casa di Gerusalemme”) poi ribattezzatosi “Provincia del Sinai dello Stato Islamico”) radicatasi in Sinai e, dopo il rovesciamento del governo di Mohamed Morsi, contro l’eversione dei Fratelli Musulmani, organizzazioni entrambe attive anche in Siria contro il governo di Assad. L’iniziativa militare egiziani riavvicina anche sul piano militare il Cairo e Damasco un tempo alleate di ferro e accomunate tra il 1958 e il 1961 nella Repubblica Araba Unita (RAU) di nasseriana memoria.
La guerra in Sinai
L’Isis ha rivendicato l’attacco terroristico avvenuto nel nord del Sinai la sera del 24 novembre con un bilancio di 8 soldati egiziani uccisi, secondo le autorità del Cairo. In un comunicato su Twitter l’agenzia Amaq – citando una propria fonte – ha scritto che “combattenti dello Stato islamico hanno attaccato un checkpoint delle forze armate vicino al villaggio di al Sabil a sud-ovest di el-Arish uccidendo 15 soldati e distruggendo due carri M-113.
I combattenti Isis hanno fatto saltare in aria il checkpoint dopo essersi appropriati di armi e munizioni e poi sono rientrati alla loro base”. Il portavoce militare egiziano sulla sua pagina Facebook aveva parlato di “8 soldati delle forze armate e tre terroristi uccisi” nell’attacco dei miliziani che hanno giurato fedeltà al Califfato. Numerose le perdite registrate fra le forze della sicurezza del Paese nordafricano per gli attacchi e gli scontri armati organizzati da questa formazione. Alto anche il numero dei terroristi uccisi nell’offensiva militare.
Solo qualche giorno fa il gruppo fondamentalista islamico aveva annunciato la decapitazione di due capi religiosi beduini e aveva pubblicato alcune foto shock su Twitter che mostravano il loro martirio. I due prigionieri erano stato uccisi perché “infedeli”. Il presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi nei giorni scorsi aveva esteso per altri tre mesi lo stato di emergenza ed il coprifuoco notturno in alcune aree del nord del Sinai, tra cui le città di Rafah, al Ouga e al Arish. A metà ottobre in una serie di interviste ai principali quotidiani del Paese il leader egiziano aveva affermato che la “battaglia contro i terroristi nel Sinai sarà lunga”.
Secondo alcuni analisi la Penisola egiziana del Sinai potrebbe diventare l’ultimo rifugio dei jihadisti dello Stato Islamico (Isis) dopo che il movimento verrò sconfitto in Iraq, Libia e Siria. Un’analisi forse azzardata mentre Jantzen Garnett, un esperto in materia di jihad islamica che lavora per la società di analisi Navanti Group sostiene che “il più grande successo ottenuto dai militari egiziani è che sono stati in grado di contenere l’insurrezione, in generale, nel Nord del Sinai.
L’analista arabo Mokhtar Awad, ricercatore di un programma sull’estremismo della George Washington University, sostiene che “l’esercito ha aumentato la sua presenza nel Sinai dopo il tentativo di espugnare Sheikh Zuweid a luglio ma gli insorti hanno raddoppiato gli attacchi, seminando ordigni esplosivi e cecchini e aumentato gli omicidi di ufficiali e rapimenti ed esecuzioni di presunti informatori.
Difficile verificare il bilancio delle vittime nelle file dei militari: l’esercito a volte pubblica dati sulle sue vittime, come ha fatto ieri, ma non sempre rende noto il numero delle vittime degli attacchi che subisce. Nel solo mese di novembre i media egiziani hanno riferito dei funerali di almeno 10 militari dell’esercito, senza contare le vittime del 24 niovembre. Impossibile accertare il bilancio tra i jihadisti, che non firniscono dati sui loro caduti ma che secondo il Cairo si conterebbero a centinaia.
“C’è sempre del torbido quando si tratta di valutare il quadro nel Sinai, a causa dei limiti nella verifica”, ha affermato Awad. La gerarchia dell’organizzazione rimane pertanto un mistero. Nel mese di agosto, l’esercito ha annunciato di aver ucciso il leader più importante del gruppo nel Sinai, identificato come Abu Duaa, senza fornire ulteriori dettagli. Ma il soprannome “Ansari” utilizzato dai jihadisti nel Sinai per i locali della penisola suggerisce che era un beduino del Sinai.
Un jihadista catturato e interrogato ha detto che l’identità del leader nella gerarchia del gruppo era sconosciuta e che passava le istruzioni attraverso un subordinato. Sotto il leader indicato come Wali, o emiro – le responsabilità sono divise tra i comandanti di “Sicurezza”, “Affari militari,”, “Produzione bombe” oltre alle sezioni media. Stando a verbali di interrogatori visionati da France Presse, il comandante della propaganda è Shadi el-Menei, un noto militante beduino; altri sono identificati da nomi in codice.
Menei era un leader di spicco del gruppo Ansar al-Beit Maqdis prima giurare fedeltà allo Stato Islamico, nel novembre 2014, lo stesso anno in cui venne proclamato il Califfato da Mosul, in Iraq.Ansar Beit al Maqdis è un’evoluzione di un gruppo militante sciolto, chiamato Consiglio dello Shura dei Mujahidin, attivo in attacchi contro Israele nell’anno seguente al rovesciamento del regime dell’ex presidente Hosni Mubarak nel febbraio 2011. Inoltre questo gruppo, avvalendosi della partecipazione di miliziani palestinesi insieme a jihadisti dalla vicina Striscia di Gaza e di beduini locali, aveva condotto sanguinosi attacchi contro località turistiche del Sinai il 2004 e il 2006.
(con fonti AFP e Reuters)
Foto: Askanews, Reuters e Mahdi Rashno – photozagros.com e Trend News Agency
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