Royal Navy: i dolori di una (ex) dominatrice dei mari

Uno dei più importanti cambi nella strategia di politica estera del Regno Unito degli ultimi decenni è stato senza ombra di dubbio la decisione di abbandonare le principali basi ed avamposti militari presenti a est di Suez sul finire degli anni Sessanta.

Si era nel pieno della guerra fredda, una contrapposizione di portata planetaria che vedeva rivali le due superpotenze statunitensi e sovietica in uno scontro ideologico senza esclusioni di colpi. L’ipotetico teatro bellico principale, in quegli anni, era però rappresentato dall’Europa continentale. Il Regno Unito, per la prima volta nella storia, si ritrovava in una posizione subalterna rispetto all’alleato statunitense, avendo realizzato durante la Seconda Guerra Mondiale, di non poter più giocare a pari livello sullo scacchiere planetario con il gigante statunitense e con l’URSS.

Le Forze Armate britanniche vennero quindi progressivamente ottimizzate per lo scenario europeo iniziando a sperimentare un progressivo legame con gli Stati europei e con le istituzioni politiche che di li a breve avrebbero cambiato il volto politico-istituzionale del vecchio continente.

Parte dell’Esercito di sua Maestà mantenne saldamente le proprie posizioni nell’allora Germania Federale, appoggiata dalla RAF che abbandonò nel corso degli anni le proprie ambizioni e capacità di bombardamento strategico a lungo raggio, concentrandosi invece sulla difesa della madrepatria e sul supporto tattico delle forze terrestri NATO schierate a ridosso del varco di Fulda.

Quanto alla Royal Navy, da sempre emblema della pax globale di Londra, anch’essa si orientò progressivamente verso la minaccia sovietica.

Tale minaccia era rappresentata in particolare dai sottomarini (SSK prima, e successivamente SSN a propulsione nucleare) che avrebbero interdetto la libertà di movimento dell’Alleanza attraverso le SLOC (linee di comunicazione marittima) del Nord Atlantico in caso di conflitto.

Con la fine della guerra fredda però, il Regno Unito ha assunto, o quanto meno ha cercato di assumere una postura internazionale maggiormente proattiva, coltivando nuovamente e per quanto possibile in seno alle sue Forze Armate una vocazione di tipo expeditionary (esempi a tal proposito sono stati e sono gli impegni britannici in Afghanistan, Iraq e Golfo Persico in generale, Libia, ma anche Africa come nel caso della Sierra Leone).

Forze Armate britanniche che, quindi, sebbene afflitte oggigiorno dalla scure della spending review, sono chiamate ad affrontare numerose sfide che spaziano dal convenzionale all’asimmetrico puro soprattutto ora che, con l’uscita del Regno dall’Unione Europea e gli interessi statunitensi nel Pacifico, Londra potrebbe essere chiamata a dare un maggiore e più incisivo apporto capacitivo in ambito NATO.

Una necessità imposta anche dall’obbligo politico e giuridico di rassicurare i propri alleati sempre più minacciati e preoccupati dall’orso russo.

Perché è importante la Royal Navy
Il Regno Unito è una nazione insulare che dipende fortemente dalla blue economy, così come dalle importazioni di beni e idrocarburi che avvengono quasi esclusivamente a mezzo di nave. Circa il 95% del volume di scambi del Paese avvengono, infatti, via mare.

Non solo, il trasporto marittimo e la filiera di servizi ad esso collegata rappresentano per l’economia del Regno il terzo e più importante settore in termini di valore economico.

Per di più una parte significativa delle risorse energetiche britanniche sono collocate in mare, basti pensare alle piattaforme per l’estrazione del brent o anche al settore green rappresentato dalle windfarm offshore situate nel Mare del Nord dove viene generata l’energia eolica.

Come conseguenza, l’area di interesse marittimo britannico si estende in madrepatria per ben 298,000 miglia quadrate, le quali corrispondono a circa 3.5 volte la superficie terrestre del Regno stesso.

Il retaggio coloniale britannico ha poi però lasciato in eredità anche 2,32 milioni di miglia quadrate di oceano appartenenti ai Territori oltremare e alle dipendenze extraeuropee della Corona.

Il controllo della sicurezza marittima di queste aree, riveste quindi un compito estremamente gravoso per Londra, specie se si tiene conto che alcuni di questi possedimenti, uno fra tutti Gibilterra, rappresentano o sono in prossimità di importanti choke point, vitali per l’interscambio di merci a livello planetario.

E’ quindi lapalissiano come, nell’affrontare questo immane compito, la Royal Navy britannica sia chiamata a giocare un ruolo chiave e di assoluta importanza.

Non a caso, infatti, il primo compito istituzionale della Marina inglese fu proprio quello di proteggere e di difendere dalle intrusioni di potenze straniere le aree di pesca nazionali così come di difendere la Gran Bretagna da eventuali invasioni.

Altri compiti della Royal Navy, alcuni dei quali recenti, sono naturalmente il concorso al mantenimento della maritime security, il contrasto al fenomeno terroristico e ai traffici illeciti, il supporto all’aiuto umanitario (specie nei territori oltremare), la salvaguardia delle vitali SLOC del Paese, la capacità di proiettare potenza sul mare e dal mare e due task di grandissima importanza ma avvolte poco conosciuti ed apprezzati dall’opinione pubblica: fornire e mantenere credibile il deterrente strategico britannico e contribuire allo sviluppo dell’industria e della ricerca tecnologica dell’intero Regno.

Il Brexit
Il 23 giugno 2016 la Gran Bretagna ha votato con il 51.9% per l’uscita dall’Unione Europea, una data storica, sia per la popolazione dell’isola che per quelle del vecchio continente.

L’uscita, che dovrebbe essere formalizzata il prossimo marzo, ha per il momento provocato ripercussioni economiche abbastanza contenute: una tra tutte l’indebolimento della sterlina sul mercato dei cambi di valuta.

Queste ripercussioni, seppur minime, sommate ai tagli della spesa pubblica attuati nel Regno a partire dal 2010 sono andati però ad intaccare le possibilità e il già risicato bilancio della Difesa di Londra.

Con particolare riferimento alla Royal Navy, se, da un lato i programmi ormai in avanzata fase di completamento, quali quelli delle due portaerei classe Queen Elizabeth, i rifornitori della classe Tide (progetto noto precedentemente con l’acronimo di Military Afloat Reach and Sustainability – MARS), gli OPV della classe River e gli SSN tipo Astute non dovrebbero subire pesanti ripercussioni, ciò non è certo per le future acquisizioni.

 

Le fregate Tyepe 26, alle quali si affiancheranno quelle leggere Type 31 e i futuri SSBN (sottomarini a propulsione atomica lanciamissili balistici) vitali per mantenere in vita il deterrente nucleare britannico, con molta probabilità si troveranno in mezzo al fuoco incrociato della ristrettezza di fondi e, almeno nel breve/brevissimo periodo, della sterlina debole che pesa in maniera negativa in quei programmi di acquisizione caratterizzati dalla presenza di una significativa componente tecnologia americana, e quindi pagata in dollari.

Nell’occhio del ciclone è quindi probabile che vadano a finire i pattugliatori P-8 Poseidon l’agognato e sofferto F-35B Lightninig II o anche ad esempio i sistemi di lancio verticale Mk.41 delle future Type 26.

L’unica nota positiva derivante dal deprezzamento della sterlina è rappresentata dall’ipotetica boccata d’ossigeno per i prodotti made in U.K. derivata da una loro maggiore appetibilità sul mercato globale visto il diminuito prezzo.

 

L’industria potrebbe quindi avere maggiori chance, specie in quei Paesi caratterizzati da una consolidata e lunga tradizione in materia di collaborazione nel campo della difesa con il Regno Unito. I

l riferimento d’obbligo è a questo punto per l’Australia, dove in competizione vi è anche Fincantieri, e per la quale BAE Systems propone, come risposta al requisito Project Sea 5000, le proprie Type 26.

Competitività forse già minata però dal fatto che le unità hanno un costo stimato di produzione che si aggira sui 750 milioni di sterline per nave e che, al momento sono vascelli ancora…sulla carta.

La situazione della flotta
Proprio i ritardi e le frustrazioni della Royal Navy legate al programma di sostituzione delle fregate classe Duke, sommate alla progressiva riduzione numerica e pensionamento delle attuali unità in linea (tra cui anche quelle della Royal Fleet Auxiliary – RFA), stanno pesando in maniera non trascurabile sull’operatività, la capacità di proiezione di potenza e di far fronte ai compiti istituzionali assegnati da Londra a quella che un tempo, ormai percepito da molti come un era geologica fa, era la più potente marina militare al mondo.

Attualmente la flotta britannica può infatti contare solamente su 19 tra fregate e cacciatorpediniere (13 unità della classe Duke e 6 cacciatorpediniere classe Daring).

Un numero oltremodo limitato per un Paese come il Regno Unito, le cui ambizioni e le cui necessità operative hanno una portata globale.

Negli ultimi trent’anni infatti i continui tagli al budget, gli ultimi, pesanti, nel 2010, hanno fatto precipitare la situazione. Oggi la Royal Navy, non ha una componente aerea imbarcata ed è priva di portaerei.

La nave ammiraglia è la portaelicotteri d’assalto anfibio HMS Ocean, alla quale si affiancano 6 unità d’assalto anfibio, le già citate 19 unità di scorta e da difesa aerea, 7 sottomarini d’attacco a propulsione nucleare, 4 sottomarini strategici lanciamissili balistici, i cacciamine e le navi da supporto, per un totale complessivo di 87 navi.

In particolare, per quanto concerne la logistica operativa è i 4 nuovi rifornitori costruiti dai cantieri sud coreani DSME per la RFA hanno accumulato un ritardo nella costruzione di circa 8 mesi che potrebbero danneggiare la capacità della flotta di operare in autonomia a partire dal 2018 considerato il pensionamento delle unità rifornitrici più anziane.

Sempre riguardo al supporto operativo la Royal Navy ha recentemente perso una propria capacità peculiare. Trattasi della nave RFA Diligence, unità dedicata alle riparazioni e alla manutenzione di vascelli sinistrati in alto mare (OMAR).

 

Il pensionamento della nave è stato giustificato dalla ristrettezza di fondi e della ridotta consistenza numerica della flotta tale da non permettere il mantenimento in servizio di un’unità così specializzata.

A ben vedere, però, forse, è proprio nella situazione attuale che la Royal Navy avrebbe potuto beneficiare maggiormente della presenza all’interno dei propri ranghi della Diligence.

Le unità britanniche sono infatti stressate dal punto di vista operativo, e i 4 anziani sottomarini della classe Trafalgar rimasti in prima linea dovrebbero continuare ad essere operativi fino al 2022.

 

Tali unità sono frequentemente impegnate nel Golfo e nell’Oceano Indiano e sebbene la Marina abbia optato per una base di supporto permanente in Bahrein, la Diligence, grazie alla sua mobilità e capacità operativa sarebbe andata senz’altro a costituire un moltiplicatore di forza nell’eventualità di problemi tecnici ai sottomarini o ad altre unità britanniche operanti in quelle acque.

Delle 87 navi è poi importante sottolineare come circa la metà siano indisponibili al combattimento, causa manutenzione o periodi di addestramento, altre ancora sono assegnate a compiti di pattugliamento anche in territori oltremare, lasciando così solo un pugno di navi pronte ad intervenire a sostegno degli interessi di Londra qualora vi fossero delle emergenze.

Stando alle dichiarazioni del Minuistero della Difesa (MoD), la Royal Navy sarebbe comunque in grado di far salpare con un preavviso minimo una Response Group Task Force facente perno su una 1 portaelicotteri (la Ocean), 1 nave assalto anfibio (classe Albion), 2 navi di scorta, 1 sottomarino d’attacco e 1 nave da supporto logistico.

Il continuo logoramento in atto ormai da tempo sia dei mezzi che degli equipaggi, la cui disponibilità scarseggia, metterà però sempre più a rischio, nel prossimo futuro, anche questa capacità minima di proiezione di potenza britannica.

Il deterrente strategico
A complicare ulteriormente la situazione vi è poi la particolare situazione politica interna che si è venuta a creare a seguito della vittoria del referendum per l’uscita dall’Unione Europea. La fuga di Londra, ha infatti trovato una forte opposizione nei partiti politici scozzesi con in testa i nazionalisti che spingono per un referendum sull’indipendenza della propria terra.

L’eventuale “secessione” avrebbe per il MoD, e per la Marina, effetti devastanti.

Nel corso degli anni infatti, la maggior parte della capacità della produzione cantieristica navale inglese è stata progressivamente spostata verso nord ed è stata proprio concentrata in Scozia.

Inoltre, il deterrente strategico del Paese è anch’esso stato basato in Scozia, con il trasferimento del compito dalla RAF alla Marina allo scoccare della mezzanotte del 30 giugno 1968. Il Paese, all’epoca, affrontò uno sforzo non da poco, specie per realizzare le complesse infrastrutture necessarie al mantenimento in operatività e al garantire la logistica necessaria ai 4 SSBN della Royal Navy.

Due in particolare sono le infrastrutture critiche in questo senso: la base di Faslane e il sito di stoccaggio armamenti di Coulport, all’interno delle cui strutture vengono mantenuti i missili e le testate nucleari prima di venire imbarcate sui sottomarini. Coulport si presenta, infatti, come un’installazione militare complessa e del tutto particolare: il cuore pulsante della base sono 16 bunker sotterranei, ciascuno in grado di ospitare un missile Trident, l’arma designata per gli SSBN classe Vanguard.

Altra particolarità di Coulport (nella foto sotto) è quella di possedere un grande shelter a mare, in grado cioè di permettere il carico dei missili Trident in maniera verticale direttamente sul sottomarino in acqua.

Coulport, che si estende su di un area di circa 2 miglia quadrate, il doppio rispetto alla base di Faslane, costituisce quindi, un sito di assoluta rilevanza e strategicità per il deterrente del Paese.

Un binomio, quello Coulport-Faslane di difficile replica, qualora si presentasse la necessità di dover trasferire gli SSBN a seguito di un’ipotetica secessione scozzese.

Non solo, nelle aree limitrofe si trovano anche altri tre siti di grande importanza in quanto poligoni per lo sviluppo di armi subacquee e per le prove in mare dei futuri sottomarini della flotta.

 

Nell’eventualità si presentasse un’indipendenza scozzese, il MoD ha già iniziato a sondare i possibili siti candidati per una sostituzione dei summenzionati siti. Sono già emerse, però, grosse criticità da parte delle possibili aree ritenute papabili e presenti nel sud del Paese.

In primis la vicinanza ai centri abitati, come nel caso di Devenport, che dista poche miglia da Plymouth.

Altro problema è rappresentato dalla disponibilità di un adeguato accesso al mare aperto e alle condizioni meteo del sito in generale: la Scozia infatti, è ben nota per la continua presenza di banchi di nubi che ben si prestano a fornire, per quanto possibile, una protezione nei confronti di occhi indiscreti.

Stime parlano che i costi dell’eventuale smantellamento dei siti scozzesi e del rifacimento delle infrastrutture in Inghilterra si aggirerebbero attorno all’importante cifra di 20 miliardi di sterline.

Il problema del procurement e del personale
In Scozia, presso Clyde, poi, trovano spazio anche i cantieri navali di BAE Systems, e il cui indotto e la filiera produttiva occupano una parte non trascurabile della forza lavoro di Glasgow.

I ritardi del programma Type 26 rischiano però di lasciare molte persone prive di impiego.

I problemi riguardanti la costruzione della unità navali, in realtà, traggono origine da ragioni ben più profonde del semplice calo degli stanziamenti per la difesa. E’ infatti l’intero comparto cantieristico e dell’acciaio britannico ad essere in crisi e ad aver perso know-how e competitività.

I piani contenuti nella National Shipbuilding Strategy, sorta di piano d’emergenza volto a mantenere vivo questo settore strategico per l’intero Paese, mirerebbero a costruire per la Royal Navy una nave ogni due anni (cercando di garantire così la sopravvivenza dei cantieri), tempi lunghissimi però per la flotta, che deve far fronte ai continui pensionamenti della prima linea, fregate in primis.

La necessità di poter disporre di un numero maggiore di unità navali con le quali sostituire le Duke (8 solamente saranno le Type 26, quindi 5 in meno rispetto a quelle previste sino a poco tempo fa), e la volontà di ravvivare anche la cantieristica basata in Inghilterra, hanno spinto i vertici del Paese a lanciare il programma Type 31.

Unità navali che, almeno stando ai piani dovrebbero essere costruite nei cantieri britannici parallelamente alle Type 26 cercando però di mantenere bassi i costi di produzione (si parla di 300-400 milioni di sterline per una nave da circa 3,000 tonnellate). Il tema del procurement militare è quindi un’altra delle problematiche a cui la Royal Navy deve far fronte. A tal proposito è bene porre l’accento sul “caso” dei Type 45 Daring.

E’ infatti emerso da un’inchiesta parlamentare come i caccia siano afflitti da un calo di efficienza dell’intera unità quando operano in mari caldi, come ad esempio quelli delle acque del Golfo o dell’Oceano Indiano.

Il problema è da attribuirsi alle turbine Northrop Grumman Rolls-Royce WR-21 le quali hanno il compito di assicurare l’alimentazione e l’energia all’impianto del tipo “tutto elettrico” di cui è dotata la nave per il suo funzionamento.

La decisione della Royal Navy di affidare navi così importanti ad una turbina di nuova concezione e non ancora testata adeguatamente non è stata quindi molto premiante.

Le unità sono pertanto dei sorvegliati speciali, ed è quindi ampiamente giustificata l’eco mediatica determinata dalla presenza di tutte e 6 le unità della classe ormeggiate nella base di Porstmouth lo scorso fine luglio.

In quell’occasione però, le autorità avevano affermato che si trattava semplicemente di una coincidenza, visti i tempi di recupero e di addestramento per gli equipaggi.

A tal proposito è bene notare come anche la situazione del personale non sia delle più rosee.

I marinai britannici sono, infatti, sottoposti ad un elevato stress di impiego e la Marina sta soffrendo anche di una carenza di organico, specie in termini di personale tecnico qualificato, dovuta ai tagli al bilancio.

Alcuni analisti indicano a tal proposito come la Royal Navy necessiti di circa 4,000 uomini e donne aggiuntivi al fine di poter mantenere la piena operatività della flotta numerica prevista per il 2020.

La Strategic Defence and Security Review (SDSR) del 2010 aveva per contro fissato per la Royal Navy un tetto di 29.500 uomini e donne, veramente pochi per una marina dalle tradizioni e dalle ambizioni globali come quella britannica.

Conclusioni
Questa in sostanza una breve panoramica delle problematiche che attanagliano la Royal Navy. Una Marina che sarà chiamata sempre più a giocare un ruolo importante qualora il Paese voglia mantenere vivo e anzi aumentare le proprie responsabilità in ambito internazionale proprio ora che Londra sembra intenzionata a “fare da sola”.

Per fare ciò, però, serve in primis arginare sia l’emorragia di fondi che i tagli al personale, per poi rivedere profondamente il sistema di procurement britannico.

Un compito difficile ma che va affrontato, altrimenti l’intera credibilità dello strumento militare del Regno Unito potrebbe essere messa in discussione.

Un indebolimento che andrebbe anche ad intaccare la stessa capacità militare della NATO, che oggi più che mai è chiamata a far fronte ad un ampio ed eterogeneo spettro di sfide.

Foto Royal Navy e drookitagain.co.uk e Julian Merrill

Michele TauferVedi tutti gli articoli

Trentino, laureato in Politica Internazionale e Diplomazia all'Università di Padova, ha successivamente conseguito il Master di II Livello in Geopolitica e Sicurezza Globale presso l'Università La Sapienza a Roma. Collabora con Think Tank e riviste specializzate nel settore degli affari militari. Durante la sua carriera ha ricoperto anche la posizione di analista militare preso il Ce.S.I. di Roma.

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